Ho terminato di leggere la biografia di padre Marella, il sacerdote che durante l’ultima guerra mondiale e nell’immediato dopoguerra ha dato una sublime testimonianza di carità cristiana. Io avevo conosciuto don Marella per caso e marginalmente attraverso certe affermazioni di ammirazione del giornalista Indro Montanelli. Ora però ritengo quella testimonianza di solidarietà del sacerdote di Pellestrina qualcosa di prima grandezza: egli fu un intellettuale preparato e docente di filosofia in vari licei, sacerdote libero ed anticipatore per molti aspetti del Concilio, cristiano umile e coerente, apostolo dei poveri, realizzatore di un’opera veramente notevole, la città dei ragazzi di Bologna.
Sfortunatamente quest’uomo ha lasciato poco di scritto e quel poco che lasciò segue uno stile di inizio secolo che sa più di ottocento che del terzo millennio e, peggio ancora, di lui si sono occupati due biografi prolissi e poco incidenti, che hanno impiegato quasi trecento pagine per presentare una figura sfocata e poco incisiva di un prete che meritava invece pennellate forti e decise.
La lettura, nonostante questi limiti, m’ha fatto molto bene e m’è rimasta impressa decisamente nella mente la figura di questo intellettuale ed uomo di Dio innamorato dei poveri che passava molte ore al giorno seduto su un gradino in un angolo di una via principale di Bologna a raccogliere offerte, presentando il suo cappellaccio nero.
In un momento di difficoltà ho fatto anch’io un’esperienza che, in definitiva, era una brutta copia di quella di don Marella, scrivendo che, essendomi munito della bisaccia da frate da cerca, avrei bussato ogni giorno ad una ventina di case di Mestre per chiedere l’elemosina per pagare la casa dei vecchi di Campalto. In realtà mi limitai a scrivere delle lettere e già questa povera imitazione della testimonianza del sacerdote di Pellestrina mi mise a disagio e mi fece arrossire.
Ringrazio veramente il buon Dio che manda ancora queste belle figure di profeti a metterci in crisi.