Preti e “bottega”

La mia è stata una famiglia di falegnami. Purtroppo mio fratello ne è stato l’epigone, perché qualche mese fa ha chiuso bottega per l’età, la crisi incalzante, la burocrazia che fa si che un artigiano debba avere alle spalle uno studio di esperti, e da ultimo perché oggi è difficile riscuotere i soldi per il lavoro fatto.

I comuni mortali hanno purtroppo imparato dallo Stato a pagare dopo mesi e anni dalla consegna del lavoro. Mio padre, più che un falegname, era un ottimo carpentiere però, come si usava allora, faceva tutto quello che riguardava il legno. Ricordo che ce l’aveva a morte con quelli che egli denominava “rubamestieri”, ossia chi si improvvisava, chi non era andato a bottega, chi non sapeva fare bene il suo mestiere. Lo ricordo sempre quando auspicava che il governo mettesse la regola che per esercitare il mestiere uno dovesse fare un lungo apprendistato e dovesse poi fare l’esame di fronte ad una commissione di vecchi falegnami esperti nell’arte del legno.

La bottega e l’apprendistato sono stati in passato un passaggio obbligato sia per gli artigiani che per gli artisti. Oggi tutto questo è soltanto un ricordo perché ormai queste realtà sono scomparse dalla scena. Io, che sono figlio di mio padre, applicherei questa regola anche per i preti. Ho fatto l’apprendista prete per quasi vent’anni ed ho appreso “il mestiere” presso degli ottimi maestri d’arte: monsignor Mezzaroba, monsignor Da Villa e monsignor Vecchi; solo dopo “mi sono messo in proprio”.

Il nostro vecchio Patriarca, cardinal Luciani, un giorno mi confidò che era suo intento far fare l’esperienza ai giovani preti presso tre o quattro parrocchie, guidate da parroci esperti, in maniera che vedessero ciò che si deve e si può fare, perché solo con questo apprendistato, che va fatto in “bottega”, un giovane prete può capire fin dove si può e deve arrivare.

A me sono sempre piaciuti i chierichetti e gli scout. Un prete novello, mio cappellano, affermava che i bambini d’oggi sono tanto occupati da non poter più apprezzare questi percorsi di formazione. Al che, per dimostrargli quanto ciò non fosse vero, mi impegnai a fondo e nonostante l’età non più giovane lasciai in parrocchia cento chierichetti e duecento scout. I miei suggerimenti possono essere ritenuti peregrini e fuori tempo, però quando li ho fatti mi sento la coscienza a posto!

“Le perle preziose”

Sto leggendo un volume, appena uscito per i caratteri della Mondadori, dal titolo fascinoso ed enigmatico: “Colti dallo stupore” del compianto cardinale Carlo Maria Martini. Credo si tratti dell’ultima fatica del vescovo di Milano, perché negli ultimi mesi il Parkinson andava di giorno in giorno ad impedire al suo pensiero, ancora lucido, di farsi voce. L’editore infatti annota nelle ultime pagine, contenenti le sue omelie, che esse sono più brevi ed essenziali perché egli non riusciva ormai più ad esprimersi.

Il volume contiene 174 omelie, ossia i commenti al Vangelo festivo che vanno dal 3 agosto 2008 al 4 aprile 2010. Le prediche di Martini sono assai brevi, da una facciata di pagina ad un massimo di due e risentono delle ricerche di riferimento biblico, come è comprensibile dato il suo “mestiere” amato ed esercitato per una vita intera – ossia quella di uno studioso e docente di biblica.

Dalla lettura, fin dalle prime pagine, si avverte che il cardinale aveva una conoscenza profonda della Sacra Scrittura per cui ci si accorge di quanto si muova a suo agio facendo citazioni e confronti con una puntualità ed un rigore assoluto.

Queste prediche mi hanno dato la sensazione che ci sia tanto poco del suo pensiero personale, ma che egli si limiti quasi ad accostare i singoli passi della Sacra Scrittura in maniera da far emergere più nitida e precisa la Parola di Dio. Inoltre m’è parso di cogliere che per il cardinale l’unica cosa importante e necessaria non sia tanto l’attualizzazione o il commento dei passi evangelici, né tanto meno che il pensiero del Signore sia in linea con l’opinione pubblica e la cultura corrente, ma che esso risulti nitido e sicuro.

Per il cardinale vale solamente ciò che dice il Signore perché quello solo è vero, giusto e valido. Egli si limita a mettere una cornice essenziale e per nulla vistosa alla “Parola del Signore”.

La lettura di Martini mi ha colpito così profondamente, tanto che domenica scorsa ho impostato il mio sermone tentando di imitarlo, ossia mettendo in luce che le perle preziose e di grande valore sono le parole di Dio e non le nostre.

Ho estrapolato le frasi clou della pagina evangelica, mettendoci una cornice umile, così da esaltare tutto il loro splendore. Di certo non sono risultato un “orafo” esperto come il cardinale, m’è parso però che l’assemblea dei fedeli abbia ascoltato e reagito in maniera quanto mai positiva a questa impostazione.

Svecchiamento sacerdotale

Qualche giorno fa me ne stavo solo soletto nella piccola sagrestia della mia chiesa prefabbricata “Santa Maria della Consolazione” a meditare, quando mi raggiunse un giovane parroco della città che io stimo e ammiro particolarmente per il suo zelo. Molto probabilmente era venuto in cimitero per qualche motivo inerente al suo ministero e aveva avuto la bontà di venire a salutare questo vecchio prete che di buon mattino aspetta e prega per le anime dei morti e dei vivi.

Chiacchierammo, ben s’intende, di cose da preti. Lui era più informato di me sulla vita della Chiesa veneziana anche perché, zelante com’è, frequenta tutti gli incontri tra sacerdoti mentre io, vecchio pensionato, riservo il mio tempo e le mie residue energie più alle cose concrete che a discorsi che temo non siano sempre produttivi.

Questo collega probabilmente aveva il tempo contato, infatti dopo qualche “confidenza sacerdotale” dovette andarsene per occuparsi delle sue cose. Io rimasi in silenzio a pensare e quando penso divago e la mia riflessione imbocca a suo piacimento sentieri imprevedibili e sconosciuti, portandomi a congetture, proposte e soluzioni ipotetiche che non dipendono da me, ma che comunque mi fanno frullare per l’animo progetti che forse abitano nel mio inconscio.

Pensando a questo giovane prete zelante, generoso ed intelligente, arrivai alla conclusione che anche la Chiesa veneziana dovrebbe essere svecchiata con l’immissione, nei ruoli più importanti, di soggetti più giovani e nuovi.

Allora passai in rassegna, nella mia fantasia, i preti di Mestre e fortunatamente m’è parso di scoprirne alcuni di valore, preti che dimostrano sul campo le loro risorse e la loro volontà di servizio. Lontano da me il voler dare suggerimenti per ora ma anche per il futuro, perché sono ben conscio di non avere la competenza né il compito, e meno ancora la “grazia di stato” per far questo. Invece mi limiterò, come mi è più consono e doveroso, a pregare il Signore che illumini il nostro vescovo perché riesca a mettere nei posti giusti i preti giusti, anche se questo gli comporterebbe non avere tra le mani soldatini di piombo obbedienti ed ossequienti.

Il pensiero del cardinal Martini

Del cardinal Martini ho letto parecchie cose, ma confesso che non avevo colto il filo conduttore del suo pensiero, le sue convinzioni profonde le tesi di certo non eterodosse, ma non sempre condivise dalla Chiesa ufficiale. In occasione della sua morte è venuto a galla un mondo sommerso che mi era rimasto sconosciuto e che ho colto con tanta gioia interiore.

La stampa cattolica ha inquadrato questa splendida figura di studioso e di pastore evidenziandone lo stile, le doti, la ricchezza interiore. L’ha fatto con ammirazione ed entusiasmo, cosa che mi ha edificato e reso orgoglioso che pure la Chiesa del nostro tempo continui ad esprimere figure così belle di testimoni e di profeti. Confesso però che il cardinal Martini, visto “da sinistra” mi è piaciuto e mi ha fatto del bene ancor di più.

E’ vero che se da un lato il mondo cattolico ufficiale gli ha creato un bel monumento che ha coperto un po’ tutte le sue divergenze sotto la lapide tombale del bene della Chiesa, quello laico ha accentuato gli aspetti più critici del pensiero e del messaggio del presule ambrosiano. Forse li ha accentuati fin troppo e ha visto solo quelli; ma pur essi c’erano! Ad esempio mi fa bene quella frase con cui Martini dice che la nostra Chiesa è indietro di almeno duecento anni sullo sviluppo del mondo.

Questa critica per me è un dono, è affermazione stimolante per cercare, per buttar ponti, per dialogare con l’uomo di oggi, per guardare avanti. Oppure quest’altra affermazione:

“Mi angustiano le persone che non pensano, che sono in balia degli eventi. Vorrei individui pensanti. Questo è l’importante. Soltanto allora si porrà la questione se siano credenti o non credenti”.

Mi pare sacrosanto questo invito alla libertà della mente che ha fatto di Martini una voce fuori dal coro nell’ordinato gregge dell’episcopato italiano e ha inquietato ancora oggi il potere ecclesiastico.

Infine scelgo un’altra affermazione che ha sapore di “lievito di sale” di tipo evangelico:

“Né il clero né il diritto ecclesiale possono sostituirsi all’interiorità dell’uomo. Tutte le regole esterne, le leggi, i dogmi ci sono dati per chiarire la voce interna e per il discernimento degli spiriti^ È questo il metodo-Martini, è questo l’insegnamento del Vaticano II, è questo il nucleo del Vangelo cristiano, ed è paradossale pensare a quante critiche Martini abbia dovuto sostenere nella Chiesa di oggi per affermarlo.

Credo che soltanto accostando i giudizi e le valutazioni di “casa nostra” con quello del “mondo laico” si possa avere una visione equilibrata e reale di questo profeta del nostro tempo. Guai però tacerne per opportunismo o per faziosità una di queste componenti.

L’uomo, questo sconosciuto

Tanti anni fa mi capitò di leggere un volume di un famoso scienziato, Alexis Carrel, volume che aveva per titolo “L’uomo, questo sconosciuto”. Non ricordo granché del contenuto di questo libro, perché l’ho letto mezzo secolo fa, però m’è rimasta l’idea di fondo che dietro il termine “uomo” ci sono mondi infinitamente diversi e così vale per tutte le parole.

Monsignor Vecchi, quando ci insegnava filosofia, ribadiva con decisione di diffidare dei nominalismi perché spesso inducono a pensare che dietro ad un certo termine ci sia sempre la stessa realtà. Solamente le etichette che sono apposte sui vasi di piselli o di carciofi indicano che ci sono dentro piselli o carciofi, però quando si tratta di un uomo e dei suoi problemi, il termine è generico, indica qualcosa, dietro questa parola ci sono mille mondi diversi.

Qualche tempo fa una giovane signora m’ha chiesto di fare un funerale per il marito che aveva posto fine alla sua vita. Questa realtà si chiama comunemente suicidio.

Ebbi modo però di conoscere, in un lungo colloquio, la storia di questo dramma. Ammalatasi ella di tumore, lo sposo aveva chiesto ardentemente a Dio la guarigione, cosa che è avvenuta. Colpito anch’egli dallo stesso male, che poi si è trascinato dietro per molti anni, ella era convinta che non abbia avuto il coraggio e non abbia ritenuto giusto insistere nuovamente per sé perché aveva, secondo lui, già ottenuto tanto per la moglie.

Sopraffatto dalla sofferenza ed essendogli tolta la speranza da un medico freddo e disumano che gli aveva pronosticato una fine angosciosa, egli non ha retto ed ha chiesto alla medicina di porre fine al suo dramma, e a quello della sua famiglia, in modo indolore. Apparentemente fu un lucido suicidio, in realtà era stato un dramma terribile che l’aveva travolto, non lasciandogli scampo alcuno.

Volete che io non l’abbia a benedire ed affidare alla Paternità di Dio? Il cuore mi assicura che Cristo avrà ripetuto a lui quello che disse a chi era in croce con lui: «Ti assicuro che oggi sarai con me in Paradiso».

Le cresime

Della mia cresima non ho un gran ricordo. Ai tempi della mia infanzia la cresima era temporalmente legata alla prima comunione; normalmente la si faceva la domenica dopo di essa. Penso di aver ricevuto questo sacramento in terza elementare.

Poi invalse nella Chiesa l’usanza di portare la cresima al tempo dell’adolescenza, affermando che essa rappresenta la scelta personale di diventare discepoli di Gesù e confermando così la decisione dei genitori di battezzare i loro neonati.

Il motivo per cui la ricordo bene è dovuto al fatto che quando il parroco mi fece l’esame per l’ammissione – un tempo, intelligentemente si usava così – mi inceppai sul credo, tanto che fui rimandato e dovetti ripetere l’esame una settimana dopo.

Per tornare alla tempistica della cresima a me viene però il sospetto che i parroci responsabili e saggi abbiano tentato in questo modo di approfondire la formazione cristiana dei loro ragazzi, dato che le famiglie ci tenevano che i loro figli passassero questa tappa. Poi si sa che nella maggioranza dei casi lanciavano tacitamente l’ammonimento: “Si salvi chi può!” e ritenevano che tutto sommato avevano fatto il loro dovere e perciò i loro ragazzi potevano assumersi personalmente le loro responsabilità. Io, da parroco, ho adottato questa dottrina e perciò fissavo la cresima al tempo della terza media.

Ora le cose stanno andando diversamente perché la nuova moda ecclesiastica è di fare la cresima prima della comunione. Non ho capito il perché e le motivazioni addotte mi paiono stupide; d’altronde la moda non è preoccupata d’aver supporti razionali.

Ai miei tempi cresimava solamente il Patriarca, mentre in questi ultimi anni questo compito è stato demandato a preti di prestigio, ma di poco spessore pastorale.

Ho letto con molto piacere su un bollettino parrocchiale della nostra città, che il nostro nuovo Patriarca, Moraglia, desidera impartire lui la cresima. Mi pare una scelta saggia ed importante per due motivi. In primo luogo mi piace che il responsabile primo della Chiesa accolga personalmente la richiesta dei giovani della nuova generazione di diventare discepoli di Cristo, poiché questa è una scelta decisiva. Poi perché i fedeli di tutte le parrocchie del patriarcato, almeno una volta l’anno, si possano incontrare col loro Pastore e padre nella fede.

Una volta all’anno è poco, ma sempre meglio che una volta in vita come avveniva in questi ultimi anni.

Le verità sopravvivono

Mi si è incisa nella memoria una frase pronunciata, di fronte al plotone di esecuzione, da un uomo di governo profondamente religioso, durante l’ultima persecuzione avvenuta in Messico: «Voi potete spegnere la mia vita ma non il mio pensiero».

Ultimamente mi sono tornate in mente le parole di questo martire cristiano in occasione della morte e dei funerali del cardinale Martini. Una folla di popolo ha partecipato alle esequie del presule ambrosiano, la stampa di tutti gli indirizzi ha incorniciato la sua testimonianza e il suo pensiero, gli uomini di Chiesa hanno tessuto grandi elogi, nonostante in passato ci siano state posizioni di pensiero ben diverse e non condivise.

Guai però se qualcuno si illudesse che questa splendida pietra tombale possa seppellire per sempre la testimonianza di questo grande vescovo che ha contribuito e può contribuire ancora alla crescita spirituale della Chiesa alla quale ha dedicato la vita.

Il messaggio del cardinal Martini sopravvive di certo alla sua morte fisica. Io ritengo doveroso facilitare il dono che questo vescovo ha offerto e può ancora offrire alla comunità cristiana riproponendo alcune sue riflessioni.

Riporto un passaggio di un articolo del Corriere della sera che può offrire al mondo ecclesiastico e a quello che gli è vicino, un’occasione per un serio e positivo esame di coscienza.

Martini durante un corso di esercizi spirituali nella casa dei gesuiti di Galloro nel 2008: “Certe cose non si dicono perché si sa che bloccano la carriera. Questo è un male gravissimo della Chiesa, soprattutto in quella ordinata secondo gerarchie, perché ci impedisce di dire la verità. Si cerca di dire ciò che piace ai superiori, si cerca di agire secondo quello che si immagina sia il loro desiderio, facendo così un grande disservizio al Papa stesso”. E ancora: “Purtroppo ci sono preti che si propongono di diventare vescovi e ci riescono. Ci sono vescovi che non parlano perché sanno che non saranno promossi a sede maggiore. Alcuni che non parlano per non bloccare la propria candidatura al cardinalato. Dobbiamo chiedere a Dio il dono della libertà. Siamo richiamati a essere trasparenti, a dire la verità. Ci vuole grande grazia. Ma chi ne esce è libero”.

Almeno da parte mia ringrazio di cuore il cardinale Martini e mi impegno a far tesoro delle sue parole sperando che molti altri ecclesiastici più “tentati” di me e facciano altrettanto.

I miei Padri spirituali di carta stampata

Di primo mattino, mentre mi sto preparando per il nuovo giorno, la Rai trasmette una rubrichetta nella quale un giornalista intervista il sindaco di un piccolo paese d’Italia che si sta impegnando in una iniziativa particolare che merita di essere conosciuta da tutti i concittadini. Mentre mi faccio la barba ascolto con qualche curiosità su come “gira questo mondo”.

Questa mattina mi si sono drizzate le orecchie sentendo che invece del sindaco l’intervista era rivolta ad un parroco di un piccolo paese del Friuli di cui qualche mese fa ho letto un volume, “Fuori dal tempio”. Siccome dalla lettura ho capito quanto intelligente e quanto questo prete si prendesse a cuore in maniera appassionata le problematiche della Chiesa e della società, ho ascoltato con estremo interesse l’intervista.

In sostanza questo sacerdote, che si rifà al messaggio di Padre Balducci, morto vent’anni fa, ha aperto una casa di accoglienza per rifugiati politici di ogni Paese e ora organizza un convegno internazionale su Padre Balducci per incorniciare la sua testimonianza e il suo messaggio che egli ritiene attuale e quasi profetico.

Padre Balducci è il prete scolopio, pure a me caro, perché libero, di pensiero, critico nei riguardi degli apparati, in dialogo con la società e teso a scrutare il futuro. Diresse la rivista “Testimonianze”, rivista che ha avuto un ruolo importante nel mio pensiero, a cui sono stato abbonato e che ho letto fin dal suo inizio.

Padre Balducci è anche per me un testimone e un profeta del nostro tempo che, pur divergendo spesso dal pensiero ufficiale della Chiesa, amò e la servì offrendole il suo contributo intelligente.

In questa occasione ho avuto modo di ricordare con riconoscenza le riviste che sono state determinanti nella mia formazione: da “Adesso” di don Mazzolari a “Testimonianze” di Padre Balducci, dal “Gallo” di Genova al “Nostro tempo” di Torino, dal “Molino” di Bologna a “La rocca” di Assisi. Una volta ancora ho capito quanto debbo a questi miei maestri e padri dello spirito. Cosicché sento il dovere di consigliare i miei amici di scegliere dei periodici che esprimano ricerca, che non si accodino al pensiero dominante, che abbiano il coraggio di andare controcorrente e amare la Chiesa anche denunciando i suoi limiti, le sue contraddizioni e le sue lentezze.

Le testimoni dell’assoluto

Ieri ho sentito il bisogno di spezzare una lancia a favore delle claustrali ed oggi ci ritorno perché ripeto che si può trovare nei loro conventi, un po’ tetri ed incorniciati di passato, una sorgente di vita fresca e pulita.

Per trentacinque anni sono vissuto a ridosso di una piccola comunità monastica; soltanto una strada divideva la mia canonica, settecentesca e tirata a lustro, dal loro convento che era più bello e più antico, ma che una tradizione monacale assai discutibile ed un geometra di pochissimo ingegno hanno oscurato con un gran muraglione, quasi fosse necessario perché qualcuno non rubasse qualche monaca o non ne turbasse la sensibilità, come avvenne per la monaca di Monza.

L’alta mura io però non l’ho mai letta come una difesa di una comunità di vergini, ma ai miei occhi è sempre sembrata uno sgorbio che impediva di vedere le belle linee della villa patrizia del nobile Michiele. Ripeto: nella mentalità ufficiale di certi conventi ci sono purtroppo rimasugli di un mondo fortunatamente scomparso che bisognerebbe rimuovere.

Un giorno chiesi alla badessa di poter celebrare un matrimonio nella loro chiesa, ma essa mi rispose che non era possibile se non con un permesso particolarissimo della curia. Cercai le origini di questo divieto e mi fu detto che era proibito perché le giovani monache non ne fossero turbate vedendo la bellezza dell’amore umano e non rimpiangessero d’essere entrate in convento. In realtà, fortunatamente, ora le cose non stanno così. In questi vecchi conventi ci sono anime belle e preziose.

Ricordo una famosa intervista di Sergio Zavoli ad una monaca di clausura di un monastero di Bologna. Quando Zavoli chiese se non si sentissero isolate, fuori dal mondo, essa rispose con voce calda e convinta: «Noi vogliamo avere il cuore aperto, disponibile ad accogliere l’ultimo naufrago della vita per dirgli: “entra, tutto è pronto per te, ti abbiamo aspettato con amore”».

Nei vecchi conventi ci sono anime sublimi come questa sarebbe vantaggioso frequentarle un po’ di più, perché ci offrirebbero sempre qualcosa di essenziale e di genuino.

Un mondo prezioso ma poco conosciuto

Tante volte nella mia lunga vita ho preso la penna per dare un significato comprensibile, anche per gli uomini di oggi, alle monache di clausura.

Non sto qui certamente a criticare la scelta della segregazione, delle sbarre, della ruota e di quant’altro è rimasto di quell’armamentario di regole e di strutture che spesso ancor oggi inquadrano le religiose claustrali. Anche in questo settore c’è molto da sfrondare e da rimuovere. Ritengo però che per un vecchio prete sia doveroso dire alla comunità che i conventi di clausura non sono come i soldi scaduti o le foglie secche, e che le ragazze che han scelto di chiudersi dentro non hanno sprecato la loro vita.

Più volte ho ripetuto che le suore di clausura, che taluno vorrebbe che almeno si occupassero dei vecchi e degli orfani invece che disinteressarsi della terra, nell’escosistema spirituale son lì puntigliose e decise ad affermare che la medaglia della vita ha anche una faccia nascosta o in penombra che pochi conoscono.

Le suore rimangono tuttora testimoni dell’Assoluto, del silenzio, della meditazione e della preghiera. Se si togliesse completamente questa componente della vita, essa diventerebbe presto insapore, acida e stomachevole. Le suore di clausura sono a ricordarci la verità di Gesù: “L’uomo non vive di solo pane, ma ha anche bisogno di qualcosa di assoluto che ha dimenticato o perduto”.

La nostra società, della quale ogni giorno scopriamo una magagna ed una miseria in più, è tale perché ha smarrito quei valori dei quali queste suore sono assai ricche. Esse testimoniano in maniera forte con il loro silenzio e la loro preghiera Colui che è la sorgente dell’amore e della vita.

Le prediche e l’eloquenza

Ai miei tempi nel corso di teologia c’era una materia che ora, di certo, è scomparsa dai programmi, cioè l’eloquenza. Questa materia doveva insegnare ai nuovi preti l’arte di parlare ai fedeli. A quel tempo ci si rifaceva ai grandi predicatori: La Cordaire, Bossuet, Semeria; quindi si offriva una vecchia metodica con cui doveva essere impostata la predica. Ora tutto questo è scomparso, perfino il termine con cui era definito questo insegnamento; infatti oggi questa materia è definita omiletica.

Allora il vescovo nominava una commissione, i cui membri restavano anonimi, perché in incognito dovevano andare ad ascoltare le prediche dei preti per valutarne i contenuti e il modo di porgere la dottrina.

Ripeto che tutta questa impostazione è completamente scomparsa; lo stile e le modalità giustamente devono rifarsi al mondo contemporaneo. Oggi ci sono degli ottimi oratori, capaci e brillanti, basta sentir parlare i nostri parlamentari. Non so se nella sostanza, e fatte le doverose trasposizioni di tempo, le cose siano migliorate per quanto riguarda le prediche, tanto più che la “concorrenza” del mondo laico è quanto mai più agguerrita in confronto al passato. Per migliorare questo settore della pastorale, che lascia tantissimo a desiderare, basterebbe perlomeno un rimedio alla portata di tutti, per il quale non sarebbero necessarie doti particolari: l’impegno!

Sto leggendo il volume che raccoglie le ultime prediche del compianto cardinal Martini, ove mi ha sorpreso ed incuriosito un passaggio. Confratelli e fedeli, tentando di incoraggiare il prelato, ormai stanco e logorato dalla malattia, gli facevano osservare che una folla di fedeli gremiva la chiesa ove lui celebrava, per poterlo ascoltare. Il cardinale, in maniera sorniona, commentò: «Forse vengono soltanto perché le mie prediche sono brevi!».

Il requisito perché il sacerdote possa passare il messaggio di Gesù non è solamente la brevità, però anche questa è una componente importante e, almeno, è alla portata di tutti.

La rassegnazione: virtù o vizio?

Credo che nei libri di spiritualità e di ascetica la virtù della rassegnazione trovi posto tra le virtù morali, ossia tra i comportamenti positivi del cristiano. Rassegnarsi voleva dire accettare la volontà del Signore, gli eventi che ci superano senza che ci avviliamo e ci ribelliamo.

Ora non sono assolutamente certo di mettere nel mio codice morale positivo questa parola e il comportamento che essa esprime, anzi sarei portato a leggere questo termine e questo comportamento come una variante dell’ignavia, della pavidità e del quieto vivere ad ogni costo.

Tanti anni fa mi capitò di leggere un bel volume di un autore che allora era abbastanza conosciuto sotto lo pseudonimo di “Pittigrilli”. Questi affermava che spesso la viltà si veste con gli abiti più nobili ed apprezzati della prudenza. Nello stesso volume, diceva pure che certe parole nobili come: democrazia, libertà, pace, sono spesso una specie di paravento dietro cui c’è solamente sporcizia e meschinità.

In uno degli ultimi numeri di “Lettera aperta”, il periodico della parrocchia di Carpenedo, don Gianni, l’attuale parroco, di ritorno dal campo scout, ha pubblicato la foto di gruppo dei suoi ragazzi in pantaloncini corti e col cappellone scout. Avevo già detto che questo gruppo della mia vecchia parrocchia conta 200 elementi e che al campo in Trentino vi avevano partecipato in 180. Bene: altro è leggere 180, che è un bel numero, altro è vedere la foto panoramica con ben 180 giovani. Impressionante!

Don Gianni non è un rassegnato, ma quanti preti si nascondono dietro a certi paraventi come dietro alle foglie di fico, e dietro a certe parole pie come “santa rassegnazione”, che in realtà sono solo ignavia, quieto vivere, poltroneria.

Per questi motivi ho poca simpatia per la virtù della rassegnazione.

Don Didimo

Da poco è uscito ed ho letto il diario di don Didimo Montiero, il prete vicentino del secolo scorso che, dopo una girandola di parrocchie come cappellano, finì la sua “carriera ecclesiastica” come parroco di Bassano, ove divenne celebre per aver fondato “Il Comune dei giovani”.

Ho letto d’un fiato il diario di questo collega molto buono, un po’ ingenuo ma soprattutto pio ed amante della gioventù. Questa lettura di una vita pulita, fresca, piena di entusiasmo e di fede m’ha fatto bene, tanto che mi riaffiora sovente la sua immagine, come m’ha colpito la meschinità e la pochezza della “piccola gerarchia ecclesiastica” ottusa, arrogante ed invidiosa che a quel tempo era ben presente nel nostro territorio.

Questa storia di prete si abbina ad un’altra storia di un prete friulano del nostro tempio, don Piazza, che ha scritto un altro splendido volume “Fuori dal tempo”. Due preti tanto diversi, forse diametralmente diversi, ma ambedue veri preti. Quanto il primo era ingenuo, remissivo, dottrinalmente allineato, altrettanto il secondo è lucido, critico, problematico, sensibile alle tematiche religiose e civili del nostro tempo ed un pizzico contestatore, ma soprattutto espressione di una religiosità nuova e d’avanguardia,

Un tempo avevo letto molto sui preti, perché fino a quaranta, cinquant’anni fa essi interessavano l’opinione pubblica, poi il prete scomparve di scena. Ora mi fa piacere di aver incontrato queste due figure di certo minori, ma belle e capaci di far pensare.

Prete in pensione!

Otto anni fa, quando con la pensione il mio apostolato cominciò a svolgersi esclusivamente in cimitero, impegnato in una pastorale che si svolge prevalentemente sulla corda del dolore e del lutto, nella prospettiva dell’aldilà, mi sentivo un po’ mortificato e menomato perché mi sembrava di dover impegnarmi in un servizio pastorale ridotto, quasi monco, perché non potevo più spaziare nell’ampia gamma di valori umani: nascita, amore, famiglia, gioventù, società. Mi rimaneva solamente il compito di aiutare a buttare lo sguardo verso il domani per intravedere i primi tenui albori del “giorno nuovo”.

Ora non è più così, mi sento pago della mia missione, pienamente realizzato nel mio sacerdozio, non solamente perché conto su una bellissima comunità, numerosa, affiatata, coesa e viva, ma perché mi inebria il fatto di poter seminare a larghe mani speranza a gente disorientata, attonita e smarrita di fronte al mistero della morte, ma soprattutto ancora legata ad una visione di un Dio piccolo, vendicativo, pignolo.

Il mio popolo della domenica è quanto di più bello un prete possa sognare, ma pure mi è tanto caro anche “il popolo del funerale” al quale posso parlare del cuore del Padre, della meta che ci aspetta, della risposta a tutti i perché, della vita nuova.

Il lavoro pastorale della mia vecchiaia non è meno bello ed esaltante di quello della mia giovinezza.

La figlia della Chiesa

Questa estate sono state a visitare la mia “cattedrale tra i cipressi” tre suore delle “Figlie della Chiesa”. Questa congregazione è nata mezzo secolo fa e si dedicava, al tempo in cui ero giovane sacerdote a San Lorenzo, alla diffusione della buona stampa. Attualmente queste suore gestiscono la chiesa di San Girolamo ove, alcuni giorni alla settimana, organizzano l’adorazione dell’Eucaristia.

Avendo sentito che in quella chiesa per un paio di mesi non si diceva messa la domenica, ma che soprattutto durante il mese di agosto la chiesa era rimasta chiusa per tutto il giorno, mi permisi di dire: «Birbanti, come mai?» Ad una di loro, una spagnola di mezza età, scappò detto: «Dobbiamo pure fare un po’ di vacanza anche noi!».

A parte il fatto che aprire il mattino e chiudere la sera la chiesa, non credo infranga il “precetto del riposo estivo”, dapprima mi è venuto da pensare che io mantengo aperta ininterrottamente la mia cattedrale senza sentirmi un martire, poi avrei voluto ricordarle che il nostro Maestro Gesù morì in croce, nonostante in Palestina fosse caldo. Questo però lo tenni solamente per me.