Più monologhi che dialogo

Un mio caro e nuovo amico che si è offerto di darmi una mano come “ministrante” durante i riti che celebro nella mia “cattedrale fra i cipressi”, si intrattiene spesso con me in discorsi che riguardano i problemi religiosi e la vita della Chiesa sul nostro territorio. Questo signore è sensibile a questi problemi, avendo appena concluso il percorso di ricerca religiosa EVO, promosso sulla falsariga degli esercizi spirituali di Sant’Ignazio proposti dai padri gesuiti. Inoltre, essendo un suo figlio, giovane avvocato, entrato da poco in seminario, durante l’attesa delle celebrazioni liturgiche, parla volentieri con me anche di ciò che avviene nel nostro piccolo mondo della diocesi.

Man mano che egli si addentra in questa realtà, per lui nuova in quanto nel passato – pur essendo un cattolico osservante – visse una vita intensa da imprenditore, gli piace riferirmi le sue nuove esperienze ecclesiali. Io gradisco quanto mai questo rapporto perché mi dà modo di confrontarmi su discorsi e problemi di carattere religioso sui quali, purtroppo, data la vita che faccio, a me capita quasi sempre di relazionarmi solamente a senso unico. Lo faccio, di solito, attraverso la lettura dei periodici di ispirazione religiosa, ma quasi mai mi capita di parlare con i colleghi e con i cristiani comuni che pare siano molto indifferenti a questi problemi. Dall’altro lato le informazioni minute e specifiche di quest’uomo sulle iniziative diocesane mi aiutano ad essere più idealmente partecipe alla vita della mia Chiesa locale.

Spesso mi sono domandato come mai nella nostra Chiesa il confronto e il dialogo di carattere religioso e spirituale sia così scarso, poco vivace ed appassionato tra i cristiani del nostro tempo. Ho la sensazione che da un lato la gerarchia ecclesiastica si sia quasi arrogata l’esclusiva di trattare questi problemi e, dall’altra parte, i cristiani comuni abbiano passivamente delegato il loro compito di partecipazione e di contributo.

Credo che sia giusto e doveroso premere perché la Chiesa di oggi diventi sempre più la “nostra Chiesa”, non solo nella dimensione di appartenenza, come avviene ora, ma anche nel senso che la Chiesa deve avvalersi dell’apporto di tutti e sia quasi la risultante di questo apporto, perché è assurda una Chiesa in cui ci sia il predominio assoluto di pensiero e di scelta da parte di qualcuno o di qualche ceto ecclesiale.

Parlare di “Chiesa di popolo” comporta il coinvolgimento attivo e lo stimolo perché ogni cristiano, anche il più umile, diventi partecipe, anzi protagonista, del pensiero e delle scelte del Popolo di Dio.

Ripetitività nei sermoni

Ci sono nel calendario della Chiesa delle feste che ricorrono puntualmente ogni anno. Queste celebrazioni ripetitive mi mettono in crisi fin da sempre perché un anno fa presto a passare ed io mi ritrovo a dover fare la predica sullo stesso argomento che ho fatto per ben 56 volte – tanti sono gli anni che faccio il prete! Il disagio poi aumenta perché io ricordo bene quanto ho detto l’anno o gli anni precedenti sullo stesso argomento ed ho quindi il timore che anche i miei fedeli abbiano buona memoria e possano dire: «Che ripetitivo è questo vecchio prete, che fa ogni anno la stessa predica!».

Fortunatamente il mio vecchio parroco, monsignor Aldo Da Villa, che era un predicatore di prim’ordine, un anno in cui gli confidavo questo mio tormentone, mi rassicurò dicendomi di non preoccuparmi perché, anche dovendo parlare dello stesso argomento, c’è ogni volta un’altra atmosfera e soprattutto cuore e mente suggeriscono qualcosa di diverso e di più vivo,.

Aveva ragione! Io da sempre, quando mi preparo il sermone, mi faccio degli appunti che un tempo conservavo, tanto da averne raccolto mezzo cassone. Quando però talvolta, trovandomi alle strette, andavo a ripescare le vecchie prediche, avvertivo che erano come le vecchie foglie gialle che cadono in autunno: smorte, fredde, superate. E perciò sempre sono stato e sono costretto a mettermi la testa fra le mani a pensare e pregare che il buon Dio mi illumini per trovare pensieri che mi facciano bene.

Quest’anno però, per la Madonna della Salute, ho pensato qualcosa che mi ha convinto e penso abbia convinto anche i fedeli che hanno partecipato alla celebrazione. Eccovi lo schema, se il prossimo anno vorrete verificare se sarà lo stesso:

  1. La salute è un dono esclusivo di Dio, nessuno ha titoli per chiederne tanta e per tanto tempo; tutto quello che ci è donato è assolutamente un dono.
  2. Iddio ci dà questo dono perché lo godiamo; non possiamo essere gli eterni brontoloni che smaniano anche per deficienze marginali.
  3. La salute ci è data perché non la sprechiamo e la usiamo per il bene degli altri.
  4. Possiamo chiedere il dono solamente quando osserviamo le regole di vita che Dio ci ha dato.
  5. Un tempo il Signore intervenne direttamente, mentre ora lo fa tramite la sanità, che diventa così la mano provvida di Dio.
  6. La salute vera è quella che non si riduce al benessere fisico e psichico, ma comprende anche l’aspetto spirituale.

Questa meditazione mi ha fatto bene. Spero che così sia avvenuto anche per i fedeli che hanno pregato con me la Vergine Santa.

Le scarpe del Papa

Ho confessato più volte che io sono un uomo passionale e mi lascio coinvolgere in maniera viscerale dai drammi in cui mi imbatto. Confesso pure che quando leggo testimonianze di uomini del nostro tempo, sento il bisogno profondo – specie quando queste persone sono di notevole spessore umano – di indagare sul loro rapporto con la fede e con la Chiesa.

Oggi ritorno ancora sul discorso che ieri ho appena abbozzato, circa la morte tragica del giovane Vittorio Arrigoni, volontario nella striscia di Gaza. Sua madre, autrice di questa particolare biografia e che si dichiara cattolica praticante, parla dell’infanzia di questo suo figliolo che da bambino aveva fatto il chierichetto e che da adolescente s’era allontanato dalla pratica religiosa anche se lei rimane convinta che, a modo suo, fosse ancora credente.

Dagli scritti di Vittorio a me pare, almeno a livello formale, che non sia così, anche se l’amore materno interpreta certi accenni religiosi come una prova di questa fede sopravvissuta alle scelte e alle tristi esperienze fatte da suo figlio. Comunque sono personalmente convinto che persone come Arrigoni che sognano “il Regno di giustizia e di pace”, abbiano comunque un accesso più facile al Cielo che i fedeli alle messe e ai rosari che però non si sporcano mai le mani per la causa dei poveri, dei derelitti e degli oppressi.

Mi ha colpito una frase, quasi buttata giù per caso: la signora Beretta Arrigoni scrive che il figlio, avendo trovato su un giornale la foto del Papa che indossava scarpette rosse di Prada, la pubblicò accanto ad una immagine di Gesù in croce con i piedi trafitti e quella di un africano a piedi nudi, con la didascalia “Se solo con queste calzature è lecito intraprendere le vie del Signore, quanto sarà improbabile per gli scalzi miseri dell’Africa avere accesso al Paradiso?”

Quello delle scarpe del Papa è certamente un particolare di poco conto, però mi vien da osservare che chi abbraccia il Vangelo deve essere attento anche ai particolari, perché se questi sono divergenti dallo stesso, diventano “scandalo” per chi sogna un mondo veramente nuovo.

A questo riguardo dovrei aprire un discorso serio per una revisione di fondo su tradizioni, pratiche, riti, indumenti, dimore, parole e scelte che sono in manifesta dissonanza con il “manifesto” di Gesù.

“Agenzie di servizi religiosi”

Ogni organizzazione sociale finisce per adottare un suo gergo, il quale quasi sempre rimane pressoché incomprensibile a chi non è del mestiere.

Un paio di anni fa un impiegato di banca mi parlò dei “prodotti” che erano in offerta presso il suo istituto bancario.

Rimasi di stucco perché non avrei mai pensato che la banca producesse qualcosa di specifico; semmai sapevo che le banche offrono poco interesse quando tu le affidi del denaro e molto quando glielo chiedi in prestito.

Così capita per l’ambiente ecclesiastico: da qualche tempo va di moda e si va affermando tra i “preti progressisti” che la parrocchia e la Chiesa non possono ridursi a diventare delle “agenzie di servizi religiosi”. Io condivido questa affermazione per quello che afferma, ma ho il terribile sospetto che essa sia il solito paravento per nascondere pigrizia, mancanza di generosità ed assenza di spirito di servizio.

Quando qualcuno mi chiede il funerale per un povero vecchio ultranovantenne e a me sconosciuto, che ha passato dieci anni in casa di ricovero o con una badante moldava, oppure mi si domanda la benedizione delle ceneri o della salma prima della chiusura della bara, lo faccio volentieri e senza farmi pregare. Può darsi che questi gesti religiosi appartengano ad una categoria di “fede povera”, comunque li ritengo uno di quei “santi segni” che il teologo Romano Guardini riteneva, si umili, ma importanti per alimentare la fede.

Così per anni, imperturbabile, ho benedetto tutti gli anni le case della parrocchia, nonostante ì “colleghi” mi compatissero perché sorridevano di fronte ad un prete che ‘”bagnava d’acqua i muri”.

Ho letto qualche tempo fa un bel pezzo sul “recupero” delle parole e dei gesti più consueti e più umili delta vita, quali il saluto, il sorriso, il grazie, la stretta di mano. Di certo non mi sento di affermare che il processo di secolarizzazione, dell’abbandono della pratica religiosa, dipendano dal rifiuto di questi sacri segni, ma penso che esso sia di certo una concausa.

L’amore non consiste di certo in un bacio, in una carezza o in una parola gentile, però ritengo che non ci sia amore senza questi segni di affetto. La fede è di certo qualcosa. di alto e di sublime, però è ben difficile che resista senza questi piccoli gesti della religione. Anche il più umile, se fatto con partecipazione vera, alimenta sia l’amore che la fede.

“Mal comune…”

Una volta ancora ho modo di riscontrare che certi detti popolari che sono contenitori di saggezza ed anche di verità. In questa occasione sto registrando la validità della massima “mal comune mezzo gaudio” in merito al problema della predica.

Tante, forse troppe volte, ho ribadito che per me il sermone domenicale, nonostante predichi da 56 anni, costituisce ancora un dramma. Sono fortemente preoccupato su cosa e come dire e poi non sono mai contento di come ho offerto ai miei cari fedeli il commento al Vangelo.

Pure i motivi del mio scontento li ho più volte manifestati. 1: la parola di Dio è un qualcosa di talmente importante che chi la comunica deve farlo in maniera sublime. 2: la mia gente è tanto cara che meriterebbe che il dono del Signore le fosse offerto in un piatto d’oro. 3: mi piacerebbe essere all’altezza del compito che ho azzardato ad assumermi.

Il “mezzo gaudio” mi viene da una recente lettura di un’affermazione del compianto cardinale Martini. infatti in una sua conferenza afferma: «Mi ha confortato una lettera di un arcivescovo degli Stati Uniti perché mi ha detto “Eminenza sono preoccupato della qualità delle mie omelie e di quella esercitata da molti dei nostri pulpiti”». E il cardinale Martini aggiunge: «Mi ha consolato che abbiamo gli stessi problemi e le stesse difficoltà». Anche sant’Agostino però era sempre scontento delle sue omelie e ad un suo diacono che gli confidava di vergognarsi perché la catechesi del vescovo lo infastidiva, rispose: «Anche a me il mio parlare non piace quasi sempre, vorrei tanto esprimermi meglio».

Ora se gente di questo calibro fa queste confessioni ed è cosi preoccupata di non spiacere al sommo Iddio e al suo popolo, credo che io dovrò “tenermi la mia croce” e continuare a portarla confidando soprattutto sulla indulgenza di Dio e del suo popolo.

Qualche tempo fa mi è passata per la mente l’idea: “Chissà che non arrivi il tempo in cui sia dispensato dal predicare!”. Pero, dopo questa confidenza di così illustri personaggi, credo di non dover più coltivare questo desiderio.

Il punto ove trovare il cristiano

Qualche settimana fa il parroco di Tessera ha pensato bene, nel quadro dell’anno della fede, di organizzare un incontro nella sua comunità per evidenziare che la fede, per essere tale, deve sfociare nell’alveo della carità.

All’interno di questa paraliturgia ha ritenuto opportuno che io portassi la mia testimonianza per quanto s’è fatto a Mestre negli ultimi cinquant’anni a livello di solidarietà.

Nonostante la cosa mi risultasse gravosa, però a motivo della stima che nutro per questo parroco e della mia totale condivisione per questa linea ideale, ho accettato, pur con disagio per la preoccupazione di poter essere giudicato uno che si fa bello per aver tentato di fare quello che ogni prete deve fare.

Ho iniziato la mia testimonianza dicendo che se si vuole scoprire dove sta il cristiano, nel guazzabuglio di idee che spumeggiano in questo mondo, bisogna usare le famose coordinate: la longitudine e la latitudine. La prima: la longitudine, il cristiano è uno che crede in maniera totale a Dio, a Gesù che ci ha parlato in suo nome e nella Chiesa che custodisce e trasmette il messaggio di Cristo. La seconda: la latitudine è costituita dalla carità, “ama il prossimo tuo come te stesso”. Nel punto di incrocio fra queste due dimensioni si trova il cristiano.

Ho tentato quindi di parlare degli eventi di solidarietà in cui mi sono trovato coinvolto e a cui ho tentato di dare il mio apporto.

A San Lorenzo dal 1956 al 1971: la mensa di Ca’ Letizia con cena e poi colazione – il magazzino degli indumenti – docce – barbiere – vacanze estive dei vecchi e dei ragazzi – il mensile “Il prossimo” – i gruppi per la casa di riposo e per l’ospedale – il “Caldonatale” – gruppi caritativi nelle parrocchie di Mestre, il settimanale la Borromea.

A Carpenedo dal 1971 al 2005: il Ritrovo degli anziani – Villa Flangini, la Malga dei faggi e il mensile “L’anziano” per i vecchi e la rivista Carpinetum per le famiglie – radio Carpini – il gruppo “Il mughetto” per i disabili – il gruppo “San Camillo” per gli ammalati – i gruppi di adulti e di giovani della San Vincenzo – il gruppo per il terzo mondo – le prime residenze per gli anziani (Piavento, Ca’ Dolores, Ca’ Teresa, Ca’ Elisabetta e Ca’ Elisa).

Da pensionato dal 2005 al 2012: i Centri “don Vecchi” – due a Mestre, uno a Marghera e uno a Campalto. La fondazione del settimanale L’Incontro, Il polo solidale del “don Vecchi”, costituito da tre associazioni di volontariato:

  • “Vestire gli ignudi” (i magazzini dei vestiti cui convergono 30.000 persone l’anno);
  • “Carpenedo solidale” per il ritiro di mobili ed arredo per la casa e i supporti per gli infermi e il “Banco alimentare” con 2500 assistiti alla settimana;
  • “La buona terra” per la distribuzione di frutta e verdura (15 quintali al giorno).

In complesso più di 200 volontari sono impegnati in queste attività. Ora stiamo lavorando per il “don Vecchi 5”.

Guardando indietro devo constatare che il buon Dio mi ha donato una bella avventura, so bene che “tutto è grazia” e che basta lasciarsi condurre sempre dalla Provvidenza e divenirne l’umile braccio operativo.

Una decisione lucida

C’è anche chi mi rifiuta e parla male di me, ma per mia fortuna c’è anche chi mi stima e mi usa attenzioni che forse non merito ma che mi fanno piacere.

Quando s’è trattato di formare il consiglio della Fondazione Carpinetum che gestisce i Centri don Vecchi e per la quale il patriarca Scola m’aveva designato presidente, i soci fondatori della stessa – parrocchia di Carpenedo e diocesi – mi hanno cortesemente offerto di potermi scegliere i relativi consiglieri, che poi essi hanno nominato. Quando poi ho ritenuto opportuno di non accettare per un altro mandato la presidenza della Fondazione, il patriarcato mi ha chiesto di suggerire un nuovo presidente. E quando si è installato il nuovo consiglio, esso mi ha pregato di accettare la nomina a “direttore generale”. Non si pensi però che si tratti della direzione della Banca d’Italia! Comunque è stato un gesto di cortesia che ho quanto mai apprezzato e per il quale sono stato riconoscente ai membri di questa Fondazione.

Però in un recente consiglio di amministrazione ho fatto presente il mio desiderio di collaborare da semplice volontario e non più con alcun incarico ufficiale. Ho sempre approvato l’idea che ai giovani appartiene il futuro perché esso sorge ove loro puntano gli occhi. Sono pure convinto che la gerontocrazia, seppur fatta da gente preparata ed intelligente, finisce per rallentare la giusta evoluzione e quindi diventa fatalmente un ostacolo piuttosto che un vantaggio. Così in politica – io sono per Renzi – come nella Chiesa e così pure nelle strutture di minore entità, tifo per chi guarda al futuro piuttosto che al passato.

Non scelgo né la poltrona né la pantofola, ma penso di usare meglio i miei tempi residui come volontario piuttosto che da dirigente.

Fortunatamente, anche in questi tempi, ci sono state delle bellissime figure di vescovi che, una volta smessi la mitria e il pastorale, hanno scelto di fare i cappellani senza far mancare alla Chiesa il loro apporto. Io, pur conoscendo fino in fondo i miei limiti, sento di dovermi orientare con decisione verso una soluzione simile, servendo il prossimo come l’ultimo “manovale”, lasciando ai più giovani e più dotati, il timone della barca.

I preti che stimo

Una volta una buona signora, che mi stima e mi è affezionata, mi chiese candidamente come mai io ce l’avessi contro i preti.

Non mi è stato tanto facile spiegarglielo. Io ho un concetto molto alto del sacerdote. Di certo non sono un ammiratore dei curatini tutti Gesummaria, meno che meno dei preti “impiegati” dell'”azienda Chiesa”. Neppure mi esaltano i preti “allineati e coperti” preoccupati di eseguire ciecamente tutti i desideri del loro vescovo anche quando fossero insulsi e campati in aria. Detesto ancora i preti in carriera e quelli che vivono in combutta con i faccendieri e compatisco con fatica i “don Abbondio”.

Detto questo, confesso che ammiro quanto mai i sacerdoti credenti, quelli onesti, quelli liberi, quelli generosi e coerenti e “faccio le bave” per quelli folli, ossia quelli che si compromettono, che guardano con fiducia al futuro, quelli che vivono poveramente, quelli che rappresentano la testimonianza e soprattutto la profezia e nella società attuale e si sporcano le mani per gli ultimi. Non faccio nomi solamente perché li ho fatti già infinite volte.

Quando scopro poi dei “tesori nascosti” mi sento felice, mi ritengo fortunato ed entro positivamente in crisi perché essi mi sono di pungolo per la mia coscienza di cristiano e di sacerdote.

Già ho parlato con gli amici più intimi con i quali dialogo settimanalmente con questo mio diario, delle traversie per trovare un prete che dicesse messa nella nuova “parrocchietta” dei settanta anziani del Centro don Vecchi di Campalto, tagliato fuori dal consorzio civile dalla trafficatissima e pericolosa via Orlanda. Ho fatto tre tentativi che, per un motivo o per l’altro, sono andati falliti, tanto che non m’è rimasta se non la speranza che i cristiani copti egiziani, che abitano accanto al don Vecchi, costruiscano la chiesa in preventivo, per suggerire ai nostri vecchi di frequentare almeno la chiesa dei nostri fratelli vicini ma “separati”.

Sennonché un giovane parroco, che mi avevano descritto come un contestatore, si è offerto di farlo lui e quindi, in modo garbato e rispettoso, ho tentato di fargli accettare l’offerta “consacrata dalla tradizione”: l’ha prontamente e cortesemente rifiutata.

Vorrei spiegare quindi alla mia buona signora e a chi la pensa come lei, che questo tipo di preti fa più bene al mio spirito che la “summa teologica” di san Tommaso o gli scritti di mistica di san Giovanni della croce, mentre i primi, di cui ho parlato, li considero una delle cinque piaghe delle quali ha parlato Rosmini.

La tonaca

Ho letto qualche settimana fa, su un settimanale parrocchiale, una specie di elogio della tonaca nera del prete da parte di un giovane sacerdote di cui sono grande ammiratore.

Stimo quanto mai questo sacerdote perché zelante, pio e molto capace a livello pastorale e perché ho visto le opere alle quali questo parroco ha dato vita e il consenso che riscuote nella sua parrocchia; anzi, più di una volta, ho sperato che il Patriarca “lo scopra” e gli affidi incarichi di maggior rilievo perché di certo, non dico che li meriterebbe, ma li porterebbe avanti con competenza e bravura. Questo suo “inno” alla tonaca mi è però sembrato strano, mi è parso tanto fuori tempo. Io ho portato la tonaca per più di vent’anni ed oltre la tonaca avevo pure la chierica, il circoletto rasato dei capelli. Non mi è pesato, l’ho accettato serenamente senza disagio alcuno.

Pur essendo io un prete che veste in clergyman, sono ben contento che la Chiesa ci abbia permesso di smettere la tonaca, un abito ingombrante e soprattutto fuori tempo. Il distintivo del prete è per me la sua fede, il suo amore per gli uomini, la sua coerenza e il suo zelo pastorale. Credo che non abbiamo più bisogno di ulteriori diaframmi, di segni che ci collocano fatalmente nei secoli passati, che separano ulteriormente dal comune sentire. Il cristiano Diogneto queste cose le aveva capite e dette già venti secoli fa.

Per carità, si può essere ottimi preti anche con la tonaca, però mi pare che sia un indumento che sa di passato e sia un segno di sacralità, mentre la nostra gente ha soprattutto bisogno di quello della santità per cui non serve affatto la tonaca.

Il buon Dio continua ancora a far bene il suo mestiere

Confesso che io debbo ai radicali l’interesse per il problema delle carceri. La passione civile di Pannella, della Bonino e di quel piccolo drappello di loro seguaci hanno il merito di sottolineare in assoluto l’assurdità del carcere e, relativamente all’Italia, la barbarie di sovraffollare le celle con quasi il doppio di detenuti che erano destinati ad ospitare.

Quando penso ai radicali, che per tanti altri motivi rifiuto per via del loro esasperato anticlericalismo, concludo che stanno battendo una strada abbastanza praticabile per giungere al Regno dei Cieli, anche se non vengono a messa la domenica e detestano i preti, ma soprattutto il Vaticano.

Credo che in Paradiso ne vedremo veramente delle belle! Io e moltissimi altri colleghi, e i vescovi in particolare, siamo angosciati per il fenomeno della secolarizzazione, per l’abbandono della pratica della religione, per le convivenze e i matrimoni civili, mentre il buon Dio pare impegnatissimo ad aprire strade nuove che portano al Regno.

Per rimanere nel campo dei radicali, non volete che il buon Dio accolga in Paradiso Pannella e il suo seguito con tutti i digiuni quaresimali, con il loro diuturno ed appassionato impegno per la certezza del diritto, per la legalità, per l’umanizzare le carceri, per redimere l’individuo, per la libertà di coscienza e perfino per la libertà religiosa?

Ho l’impressione che, una volta ancora, noi cristiani del terzo millennio ci comportiamo come Giacomo e Giovanni, figli di Zebedeo, che dicono a Gesù: «Vogliamo che tu ci conceda quello che ti chiediamo!». Non capivano che non si insegna a Dio ma si va a scuola da Lui per imparare e prender ordini. Noi fedeli, nonostante siano passati duemila anni, continuiamo a fare gli stessi sbagli. Non ci accorgiamo che Dio è Dio, che al Signore non c’è da insegnare, che a Dio interessano i fatti e non le chiacchiere al vento, ma soprattutto che Dio sa fare il suo mestiere, non discrimina le persone, non si lascia condizionare dalle tradizioni, che rimane comunque padre di tutti, che accetta il prodigo pentito e rifiuta il perbenismo dell’egoismo del figlio maggiore.

Quando comincio a guardare la realtà confusa ed aggrovigliata di questo povero mondo, non è che mi venga la tentazione di abbandonare il grande patrimonio ideale che la tradizione cristiana mi ha trasmesso, ma mi incanto nello scoprire con quanta agilità, disinvoltura e fantasia Dio apre nuove strade di salvezza e mi meraviglia e mi confonde come i “lontani” le imbocchino con decisione e con passi da gigante.

Qualche addetto ai lavori afferma con preoccupazione che questa è una “religione civile”, mentre io sono propenso a credere che questa è: vita, provvidenza e salvezza.

Detto questo non ho ancora messo nel messalino il “santino” con il volto di Pannella, però non lo penso neanche infilzato nel forcone di Lucifero! E mi ricordo ancora una volta del detto del ramo che cade con fragore mentre però l’intera foresta cresce in silenzio.

Ben diverso dal prototipo

Ho già parlato in passato di questa iniziativa pastorale della parrocchia del Duomo (come lo si chiama oggi, mentre nel passato quella era definita come la parrocchia di San Lorenzo di Mestre).

Ritorno sull’argomento perché mi pare un evento poliedrico che presenta almeno due aspetti molto importanti: uno organizzativo ed uno di contenuto. Non nascondo però che ce n’è un terzo che credo mi riguardi, almeno indirettamente.

Veniamo all’evento. Con l’autunno che si è aperto al nuovo anno della pastorale, monsignor Fausto Bonini, arciprete del Duomo, ha fatto stampare il prontuario nel quale sono descritte tutte le attività promosse dalla parrocchia e si informano i fedeli circa date, luoghi, orari, numeri di telefono e di posta elettronica della parrocchia e dei responsabili dei vari settori della vita di quella comunità parrocchiale.

L’opuscolo, di formato dépliant, è quanto mai elegante, per impostazione grafica, per la sequenza delle attività e per l’assoluta completezza delle informazioni. Il fascicolo è composto di 50 pagine, tutte a colori e con foto inerenti l’argomento. Il parrocchiano che prende l’opuscolo, stampato in un numero veramente grande di copie, può trovare tutto, proprio tutto quello che concerne la sua parrocchia. Questo non è poco.

Vengo poi al merito. Da una lettura, anche superficiale di questo prontuario informativo, si evince immediatamente che quella comunità tenta di dare risposta a tutte le attese dei suoi membri: dalla liturgia alla formazione, dalla cultura allo sport, dalla ricreazione alla catechesi, dalla carità all’intrattenimento. La parrocchia di San Lorenzo non è monocorde o bicorde, ossia liturgia e catechesi, come purtroppo avviene in moltissime parrocchie, ma punta ad una visione globale dell’uomo, del cristiano; così si avverte immediatamente che il fedele può trovare tutto all’interno della sua comunità, perché essa, pur con stile religioso, ha una risposta per tutte le attese. L’iniziativa di monsignor Bonini è veramente lodevole, tanto che io gli consiglierei di mandare una copia dell’opuscolo a tutte le parrocchie della diocesi.

Il terzo motivo è di certo marginale: anch’io, da parroco, avevo avvertito questa esigenza e fin da trent’anni fa pubblicavo ogni anno sul mensile della parrocchia l’organigramma della comunità ma, al confronto del prontuario di San Lorenzo, il mio rappresenta un parente povero, un archetipo preistorico. L’esigenza però l’avevo avvertita fin da allora ed avevo tentato una risposta, pur primordiale.

Allergico al rosso

Ognuno, penso, che prima o poi scopra di avere le sue allergie.
Molti anni fa la Benita, la vecchia custode delle suore di clausura che aveva un rimedio empirico per tutti i guai di questo mondo, mi suggerì di fare una cura prendendo della pappa reale. Non l’avessi mai fatto! Dieci minuti dopo l’assunzione mi si arrossò e gonfiò il volto, tanto da diventare un mostro. Il medico sentenziò che ero allergico a quel prodotto delle api.

Da poco tempo invece ho scoperto che sono pure allergico ad un tipo di antibiotico. Ieri sera poi ho fatto un’altra scoperta. Già da anni provavo un certo disagio di fronte a certe scelte ecclesiastiche in genere, ora invece, al vedere alla televisione l’incontro di Assisi tra Napolitano, il capo dello Stato, che non mi era molto simpatico per i suoi trascorsi politici, e monsignor Ravasi, a cui avevo sempre pensato con ammirazione e simpatia per la sua brillante intelligenza, ho scoperto un altro tipo di allergia specifica a cui vado soggetto, ossia l’allergia al rosso e alla pompa.

Confesso che sono contento perché ora che conosco la mia fragilità in merito, ho almeno l’opportunità di curarla.

Veniamo al merito della mia recente e sorprendente scoperta. Napolitano ha tenuto una brillante conversazione e Ravasi altrettanto ha interloquito con la facondia e l’acutezza di pensiero che gli è propria. Però Napolitano vestiva in pantaloni e giacca sobri ed aveva una cravatta appropriata come tutta la gente di oggi, mentre Ravasi aveva la sottana nera filettata di rosso, la fascia più rossa ancora e la papalina dello stesso colore in testa. L’incontro avveniva in piazza, quindi non c’entrava per nulla la liturgia.

Quanto mi sarebbe piaciuto che il cardinale avesse indossato il clergiman, magari con la crocetta d’argento sul bavero; portare in piazza questo armamentario del passato m’è parso una cosa di cattivo gusto, ma soprattutto, una volta ancora, m’è parso quasi che egli, magari senza volerlo, abbia posto un diaframma tra la gente del nostro tempo e il ceto ecclesiastico, mentre in realtà il sacerdote, e più ancora il vescovo, dovrebbe essere un tutt’uno col popolo come il lievito, nascosto e non divisibile dal pane che si sta impastando.

Gli uomini di Chiesa a mio parere devono sempre più mescolarsi con lo stile, la sensibilità degli uomini del nostro tempo, facendo saltare anche gli ultimi steccati. La gran parte dei preti hanno “saltato il muro”, mentre ho la sensazione che i vescovi siano ancora titubanti e reticenti. E si che loro. La lettera a Dioneto la dovrebbero conoscere bene; in essa si dice, ormai da secoli, che il cristiano non differisce per nulla, anzi sposa tutto quello che è proprio degli uomini del nostro tempo, fuorché le miserie e le cattiverie.

L’esempio dei “Frari”

Sono tornato più volte su “L’incontro” a parlare di don Didimo Montiero, il prete vicentino che ha inventato, per la sua parrocchia di Bassano “Il Comune dei Giovani”.

Questo prete umile ma zelante, soprattutto nei riguardi della gioventù, ancora una quarantina di anni fa, ha compreso la necessità ed ha realizzato un grande centro giovanile a favore dei ragazzi, adolescenti e giovani di Bassano.

Caratteristiche peculiari di questo Centro sono quattro: 1) per struttura e dimensione il Centro è sovraparrocchiale e destinato a tutti i giovani della città pedemontana; 2) il Centro dà risposte alle attese diversificate del mondo giovanile: sport, musica, ricerca, cultura, spiritualità; 3) il complesso è governato da un “consiglio” eletto democraticamente fra i giovani che lo frequentano; 4) un giovane prete, sensibile alle problematiche giovanili è impegnato a tempo pieno per l’animazione del grande complesso.

L’intuizione di don Montiero è quanto mai intelligente ed anticipatrice di un bisogno ora avvertito da ogni comunità parrocchiale.

In uno dei miei interventi in proposito riferii dello stato di abbandono, di precarietà e di inadeguatezza dei nostri patronati che, assai di frequente, sopravvivono in maniera stantia e pressoché inutile. Riferii inoltre dei miei tentativi miseramente falliti, non essendo riuscito a convincere e coinvolgere i colleghi preti, rimanendo avvilito ed impotente di fronte a questa poca apertura, coraggio e lungimiranza pastorale.

Sennonché mi hanno riferito che a Venezia, nella parrocchia dei Frari, ove c’è un giovane parroco intraprendente, il relativo patronato funziona già come Centro giovanile a cui convergono i giovani di un paio di sestieri di Venezia. Infatti abbastanza di frequente la stampa parla di iniziative di questo Centro quanto mai intelligenti e che fanno presa sui giovani.

Tento di far rimbalzare questa notizia nella speranza che a Venezia e a Mestre ci sia chi prenda l’iniziativa e faccia tentativi analoghi.

La tassa sulla fede

Da parecchio tempo avevo sentito dire che il clero in Germania – sia quello protestante che quello cattolico – riceveva lo stipendio dallo Stato e lo Stato finanziava sia i preti che i pastori attraverso una “tassa sulla fede”. Ogni cittadino che si dichiarava credente, tra i vari contributi doveva versarne uno per il mantenimento del clero della Chiesa relativa. La notizia mi aveva lasciato un po’ perplesso, perché non “mi suonava bene” il prete stipendiato dallo Stato: la sua missione mi diventava così professione.

Poi anche in Italia, attraverso un marchingegno magari un po’ diverso, si è arrivati alla stessa conclusione con effetti non del tutto positivi. E’ avvenuto anche da noi quello che capitava nei regimi comunisti di un tempo in cui si garantivano a tutti delle risorse pur modeste, per sopravvivere, motivo per cui impegno o non impegno, a fine mese la paghetta arriva garantita e per tutti uguale, lavorino o battano la fiacca.

Seppi inoltre che molti italiani emigrati per lavoro in Germania, capito il meccanismo, credenti o no, aggiravano l’ostacolo della tassa dicendosi non credenti, pensando che questa dichiarazione formale non avesse nulla a che fare con la loro fede.

Si capisce che il cattivo esempio ha contagiato anche i tedeschi, tanto che qualche giorno fa ho letto una notiziola, non troppo evidente nel giornale perché per il redattore poco rilevante, ma per me invece quanto mai significativa. Si diceva infatti che la gerarchia della Chiesa tedesca aveva, non so bene se scomunicato o espulso o cancellato dall’anagrafe delle parrocchie, chi si comportava in tale maniera.

Onestamente disapprovo chi rinnega, almeno a livello formale, la propria fede per non “pagare il prete”, però mi lascia ancor più perplesso, anzi mi mette a disagio, una gerarchia che discrimina o che “butta fuori dalla Chiesa” il “fedele” che non paga la tassa per l’officiante: una impalcatura religiosa che si impelaga in provvedimenti del genere non mi pare proprio esaltante.

A me pare tanto più bello, ma soprattutto di sapore più evangelico, che le comunità provvedano spontaneamente e per amore ai loro sacerdoti; questa soluzione non solo è più nobile, ma mi appare più stimolante per i ministri del culto a fare bene il proprio dovere.

Pregi e limiti

Se qualcuno legge questi appunti e riflessioni varie che vado facendo di giorno in giorno mi potrà anche dire che queste sono cose da preti. E’ vero, ma io sono un prete e non posso parlare se non delle cose che riguardano e da cui sono interessati i sacerdoti. Qualche settimana fa ho riferito, ammirato, che la parrocchia di San Giovanni Evangelista, che è prevalentemente a conduzione neocatecumenale, ha portato al Family Day di Milano più di trecento sposi e che durante l’estate ben 150 fra adolescenti e padrini hanno partecipato in una casa di montagna ad alcuni giorni di spiritualità.

Tutto questo ed altro ancora sono cose quanto mai positive. Presso i neocatecumenali, quando “i catechisti” decidono qualcosa di buono, gli aderenti, come un solo uomo, partecipano obbedienti e disciplinati.

Riconosco, senza riserva, che gli aderenti a questo movimento, come gli aderenti al Movimento del Rinnovamento dello Spirito, quelli dell’Opus Dei o, ancora, i Pentecostali, o Comunione e Liberazione, sono le forze di punta della Chiesa di oggi. Però non posso non riscontrare che pure questi movimenti emergenti hanno limiti ben consistenti. In genere sono chiusi, come fossero asserragliati per difendersi dal “nemico”, guardando con sufficienza i cristiani senza qualifiche, non sono in dialogo col mondo, praticano un settarismo religioso sempre intransigente, non si fanno carico dei problemi sociali, vivono un cristianesimo elitario.

Io per indole, mentalità e scelta, mi sentirei soffocare all’interno di uno di questi movimenti. Nella parrocchia che avevo, nonostante loro ripetuti tentativi, per questi motivi non ho dato loro spazio. Ero convinto che gli appartenenti alla mia vecchia comunità erano una specie di esercito di Brancaleone, perché c’era dentro di tutto. Ciò nonostante nessuna delle parrocchie dominate da questi movimenti aveva il 42 per cento di presenti al precetto festivo come la mia.

Oggi l’uomo e il cristiano trova molta difficoltà a vivere come persona, cerca i gruppi, come gli “alcolisti anonimi”, che si sorreggono l’un l’altro, ma nessuno di loro sta in piedi da solo. Questa situazione non credo sia l’ideale.

Ho cominciato a provare questo sentimento fin dai primi anni del mio sacerdozio quando alcuni dei miei ragazzi e delle ragazze tra i più promettenti sono stati circuiti dai membri dell’Opus Dei, tagliati fuori dalla parrocchia, imponendo loro un confessore del movimento e condizionandoli con una pressione psicologica quasi ossessiva.

Padre Escriva, fondatore dell’Opus Dei, oggi è un santo, ma non credo che lo sia diventato per aver fondato la sua società segreta sia pure sotto il segno della croce.

“Libertà vo cercando”, diceva Dante. La libertà è per un uomo quello che è l’acqua per i pesci e l’aria per gli uccelli. Non per nulla il Signore ci ha creati unici, irripetibili e liberi!