La Marini

Ho confidato, anche nel passato, il mio sconcerto nell’apprendere che i giovani di oggi praticamente rifiutano il matrimonio.

Quando ho letto che anche nel patriarcato di Venezia ormai i matrimoni celebrati con rito civile superano di gran lunga quelli religiosi, sono stato pressoché interdetto, perché fino a trent’anni fa si contavano sulle dita di una mano quelli civili.

Ora, non so se per la moda, per paura di un vincolo stabile, per motivi economici, per rifiuto dei corsi prematrimoniali obbligatori o per assoluta indifferenza religiosa, stanno diventando mosche bianche i giovani che si sposano in chiesa. Ma da quanto ho potuto capire attualmente sono entrati in crisi anche i matrimoni celebrati in Comune da qualche funzionario munito di fascia tricolore.

L’ultima moda sembra essere quella della convivenza. Purtroppo constato che “saltano” in ugual misura sia quelli religiosi che i civili, ed ugualmente le convivenze. Anche le unioni nuziali e quelle similari sembrano galleggiare su “valori liquidi” estremamente mobili e di nessuna consistenza.

In una situazione del genere venire a sapere che una ragazza un po’ attempata e che non ha brillato proprio per moralità, si è sposata in chiesa, dovrebbe fare enormemente piacere ad un vecchio prete come me che, anche in queste cose, si rifà fatalmente al suo “piccolo mondo antico”. Invece no! Quando una mia fedele, avanzata negli anni – ma non troppo – mi ha chiesto: «Non ha letto, don Armando, che la Marini, quella dei film erotici di Tinto Brass, si è sposata?», ho risposto di no, perché certo io non leggo mai queste notizie di cronaca (non so se definirla rosa o nera). Lei soggiunse, scandalizzata ed indignata: «S’è sposata, e in Vaticano!» (penso abbia voluto dire “in San Pietro”, madre di tutte le chiese). E poi, con un affondo finale: «Dio sa quanto avrà pagato!».

Io devo essere l’ultimo a scandalizzarsi per la “pecorella smarrita” o per il “figliol prodigo”, però penso che un po’ di discrezione per queste cose e per questi personaggi ci vorrebbe proprio! Con tante chiese che si trovano ovunque, quel prete che l’ha preparata al sacramento nuziale penso che avrebbe potuto suggerirle di entrare in chiesa in punta di piedi e senza l’abito bianco.

Spero tanto che non c’entrino i soldi, però credo che il buon Orazio abbia ancora ragione, quando afferma che “ci sono certi limiti al di qua e aldilà dei quali non c’è il giusto”. Ora non vorrei proprio apprendere che ci sia anche di mezzo un vescovo o, peggio ancora, un cardinale!

La preghiera di un “miscredente”

Un magistrato in pensione, in onore della sua cara e calda amicizia, spesso mi passa libri, dischi e films che egli intuisce che mi possono interessare quanto mai. Essendo questo signore ormai in pensione, dopo essere stato presidente per il tribunale dei minori a Venezia e avendo perduto la sua cara consorte un paio di anni fa, si dedica ora alla lettura, alla musica e all’amato sport della bicicletta.

Laureato alla “Cattolica” di Milano, questo magistrato ha acquisito un sottofondo culturale di notevole spessore, che aggiorna costantemente seguendo la produzione letteraria contemporanea che affronta tematiche sociali e religiose, vedendo film di contenuto elevato e, nello stesso tempo, vivendo la vita religiosa con grande semplicità. Io, come con tutti, gli dedico poco tempo, ma egli, con grande discrezione, mi rende partecipe della sua ricerca spirituale.

Qualche settimana fa mi ha passato una bella preghiera, che pubblico in questo numero de “L’Incontro”, e con fare un po’ sornione mi ha chiesto che, dopo averla letta, gli facessi sapere chi io ritenessi ne fosse l’autore. Ho letto con particolare attenzione questa preghiera; notai che non aveva nulla del lagnoso che spesso hanno le preghiere, anzi intuii, specie nel finale, un lieve sapore critico per la religiosità ufficiale e di maniera.

Tentai, pur sapendo che non era credente e che si era suicidato, di attribuirla a Primo Levi, sapendolo un uomo che ha sperimentato tutta la meschinità dell’uomo sadico e prepotente. Sennonché il mio amico, con un altro sorriso sornione, mi disse che l’autore era Voltaire, il pensatore laico del secolo dei lumi. Al che obiettai: «Ma Voltaire non era ateo?». Il magistrato mi chiarì: «No, Voltaire era anticlericale, non ateo!». Capii subito che il pensatore francese ne aveva ben donde per essere anticlericale, dopo il comportamento dell’alto – ma anche del basso – clero dei suoi tempi.

Riflettei a lungo e seriamente su questo argomento, arrivando ad una conclusione quanto mai amara per chiunque, soprattutto per un prete quale sono io: l’anticlericalismo, piuttosto che un segno di areligiosità o di ateismo, credo che lo si debba considerare segno di una ricerca e di un bisogno di una religiosità autentica. Il discorso si farebbe lungo e triste su questo argomento; per ora mi limito a tentare di trarne le conclusioni per quanto mi riguarda.

Il contrappeso

Qualche giorno dopo l’incontro col Patriarca e i colleghi al “don Vecchi”, ho avuto modo di partecipare alla riunione del consiglio di amministrazione della Fondazione, che mi ha “ricaricato” di sogni, progetti, coraggio e di ottimismo.

Il consiglio di amministrazione della Fondazione si riunisce ogni due settimane ed è diretto da don Gianni, il giovane parroco di Carpenedo che sprizza scintille. A sentire questo prete, pare che nella vita non ci siano ostacoli o, quando si incontrano, sembra che faccia parte del gioco saltarli senza esitazione e senza paura, che anzi eccitino a pigliarli di petto.

Il Comune, dopo la sua resa di darci l’area di viale don Luigi Sturzo per l’opposizione di qualche cittadino tutto preoccupato del proprio benessere e per nulla attento e disponibile al bisogno degli altri, ci ha proposto l’assegnazione, in diritto di superficie, di un’altra area praticamente interclusa e gravata da un’infinità di problematiche a livello catastale e di legami legali. Anche le persone più coraggiose, di fronte a quella tela di ragno, avrebbero desistito, mentre don Gianni, con pazienza certosina e fine abilità, ha dipanato quella matassa quanto mai imbrogliata. Ma i suoi collaboratori diretti, il ragionier Rivola, il geometra Groppo e il geometra Franz non sono da meno. Lanfranco Vianello, pure lui consigliere, e il sottoscritto, invitato per cortesia, si sono riservati la funzione di pungolare questi “cavalli di razza”.

L’ultima riunione del consiglio mi ha, più che entusiasmato, letteralmente galvanizzato. E’ stato appena approntato il progetto e reperito il relativo finanziamento, mentre non è ancora partito il cantiere del “don Vecchi 5”, la struttura pilota per anziani in perdita di autosufficienza, che già s’è posto sul tavolo un ventaglio di proposte per una nuova struttura d’accoglienza per i mariti divorziati, i disabili che cercano una vita autonoma ed un ostello per operai ed impiegati fuori sede.

Mentre ascoltavo, deliziandomi, questo fuoco di artificio di progetti di persone che non temono il futuro, ma anzi lo sfidano e ne vanno all’assalto, m’è venuto da pensare che se il Patriarca fosse capace di reclutare una cinquantina di persone del genere che, nonostante la famiglia e la professione, sono disposte ad impegnarsi come volontarie per l’aiuto ai cittadini più fragili, potrebbe dormire sonni più tranquilli.

In passato ho letto una preghiera in cui si chiede al Signore di mandare “uomini folli” per salvare il nostro mondo. Io proporrei che alle preghiere dei fedeli se ne aggiungesse, in tutte le parrocchie e in tutte le messe, una per ottenere anche “preti folli” perché di prudenti, pii, equilibrati e benpensanti ne abbiamo fin troppi, nonostante la carenza del clero.

I miei colleghi

Dopo tanto tempo ho partecipato ad una riunione dei sacerdoti di Mestre, un po’ perché l’incontro s’è tenuto al “don Vecchi” ed un po’ ancora perché il nuovo Patriarca m’ha fatto osservare che sarebbe opportuno che partecipassi almeno alle riunioni più importanti.

All’incontro erano presenti una quarantina tra preti e diaconi, per la maggioranza parroci. Oggi la stragrande maggioranza delle parrocchie di Mestre può contare solamente sul parroco; infatti i cappellani, ossia i giovani preti, sono pressoché scomparsi. Un tempo ero fortemente preoccupato per questo fatto, ora sono più sereno perché ritengo che questa carenza stimolerà i laici ad assumersi quelle responsabilità all’interno della Chiesa che i preti sono stati sempre restii a delegare. Ora la Provvidenza sta costringendoci a fare quello che con un po’ di fiducia e di lungimiranza avremmo dovuto fare almeno da un trentennio.

Il fatto che almeno da un paio d’anni non facessi l’esperienza di queste “congreghe” m’ha reso particolarmente sensibile e reattivo. L’argomento verteva soprattutto sul tempo in cui conferire la cresima e sull’abbandono della pratica religiosa da parte degli adolescenti.

Più di una volta, davanti a certi discorsi accomodanti, vellutati e privati di qualsiasi angolo sarei stato tentato di intervenire con quella rude franchezza che mi ha creato tanti “nemici”, però fortunatamente mi sono trattenuto, ricordandomi che il Patriarca, nell’incontro di presentazione avvenuto qualche settimana fa, m’ha detto che sono vecchio. Non avendo ancora capito cosa volesse dirmi, perché sarebbe stato perfino banale che si riferisse solamente alla mia età anagrafica, mi sono limitato ad ascoltare.

A dire il vero i discorsi dei colleghi non mi sono parsi troppo esaltanti, m’è parso di avvertire tanta rassegnazione, atteggiamento di ripiegamento e di difesa, non ho avvertito un guizzo di ottimismo, di coraggio, un tentativo di balzare fuori dalla trincea per andare al contrattacco, di consapevolezza di avere un messaggio valido, anzi il più valido a rispondere alle attese vere dell’uomo di oggi. Troppe parole mi sono sembrate acquistate al mercatino delle cose usate o, al massimo, all’ipermercato. Ho sentito pensieri “stanchi” e soggezione per la cultura del nostro tempo.

Alla sera, facendo l’esame di coscienza, mi sono chiesto: “Io sono forse un don Chisciotte, o l’ultimo dei moicani?”. Comunque ho deciso di tenermi alla larga da simili incontri perché, almeno secondo me, non mi fanno bene.

“Redenta”

La settimana scorsa ho sentito il bisogno di presentare ai miei amici una rivista mensile che porta a conoscenza dell’opinione pubblica la singolare esperienza di suor Elvira, una suora a cui andava troppo stretto il convento “vecchio stampo” e quindi ne uscì per dar vita ad un’esperienza religiosa semplicemente meravigliosa.

Questa suora, sulla sessantina, senza una qualifica specifica, si è buttata a capofitto nella stupenda avventura del recupero dei giovani che si sono abbrutiti ed hanno tentato di evadere da un serio confronto con la realtà della vita, lasciandosi risucchiare dal terribile gorgo della tossicodipendenza o dalle varie devianze che inghiottono una falda tanto larga di giovani di oggi.

Ho parlato del fascino delle foto che ritraggono tanti volti puliti e sorridenti, intenti al lavoro o alla preghiera; mai avrei potuto immaginare che nel loro passato erano come quei gruppuscoli di “rifiuti d’uomo” che purtroppo si incontrano in determinati luoghi della nostra città. Ho pure riferito delle stupende testimonianze di giovani che raccontano le storie della loro redenzione e che ogni mese sono pubblicate nella rivista “Redenzione”.

L’avventura umana di questa suora e le comunità a cui ella è riuscita a dar vita, hanno qualcosa di miracoloso, per nulla confrontabile ai magri risultati che i vari “Sert” (organizzazione statale per il recupero) riescono a fare, che sono anzi spesso fonte di disagio per i cittadini che abitano vicino ai luoghi dove essi si trovano.

Qualche giorno fa al “don Vecchi” mi è capitato di incontrare due “ragazze di suor Elvira” che erano venute ad acquistare dei vestiti per una rappresentazione che avevano deciso di fare nella loro comunità. Erano talmente pulite e belle che pensai subito che fossero due religiose del nuovo ordine fondato da questa suora prodigiosa, ma loro mi dissero che erano due “redente”.

Ho ancora negli occhi quei bei volti sorridenti e puliti. I vestiti non erano alla moda: due sottane piuttosto lunghe e ruvide, però i loro occhi erano belli e pieni di fascino come due perle preziose.

La formula pedagogica che suor Elvira attiva per rigenerare questi poveri ragazzi e ragazze, caduti tanto in basso, è semplicemente carità e preghiera.

Una volta ancora ho capito che la verginità non ha nulla a che fare col nostro corpo, è lo splendore dello spirito che sprigiona dolcezza, soavità, armonia e bellezza.

Mi è amaro il pensiero che troppe donne meravigliose si inaridiscano e si sciupino dentro conventi o in organizzazioni religiose che in realtà non credono alla vita e all’amore.

Resurrezione

La comunità “Cenacolo”, che io ho conosciuto tramite una cara volontaria che presta la sua collaborazione presso il Banco alimentare del “don Vecchi”, mi fa pervenire mensilmente la bella rivista “Resurrezione”, che è l’organo di una Onlus che si occupa del recupero dei tossicodipendenti.

Questa comunità è stata fondata da una certa suor Elvira, una religiosa che una ventina di anni fa ha ottenuto il permesso di uscire da una delle tante congregazioni femminili ormai ammuffite e stantie e ne ha fondata un’altra che ha come scopo il recupero dei molti soggetti che sono caduti in una delle tante devianze del nostro tempo, ed in particolare il recupero ad una vita normale dei tossicodipendenti.

Questa suora, in un tempo relativamente breve, ha aperto più di una sessantina di comunità in Italia, in Europa e in tutto il mondo. Lo sviluppo di questo istituto religioso e delle case da esso aperte, ha veramente del miracoloso. Di lei e della sua opera ho parlato più di una volta su “L’incontro” e spesso ho pubblicato delle bellissime testimonianze che la rivista riporta in ogni numero nella rubrica “Testimoni di speranza”. Sono storie raccontate in prima persona da parte di ragazzi entrati in una di queste comunità fondate da suor Elvira e che hanno trovato qui la loro “resurrezione”.

Quando mi arriva la rivista, per prima cosa guardo le foto, poi leggo i titoli, perché sono immagini e parole che sempre sprizzano vita, gioia e ottimismo. Normalmente queste foto che riportano il volto dei “redenti” e delle religiose che si occupano di loro, sono immagini di ragazzi e ragazze che esprimono allegria, ripuliti dalla vita in comunità che ha adottato, come metro per il recupero, la proposta e la vita di un cristianesimo integrale.

Ogni volta che apro la rivista ho la sensazione che il vivere seriamente le proposte del Vangelo di Gesù porti ad essere felici e a servire in letizia chi ha bisogno di un aiuto fraterno. Quando poi comincio a leggere le varie testimonianze, respiro un’aria di entusiasmo, sento come la gente ha ritrovato la strada in una vita serena, aperta e felice, raggiunta attraverso la preghiera.

La rivista “Resurrezione”, che fotografa la vita di queste comunità di recupero dei “rifiuti d’uomo”, è qualcosa che mette ali al cuore e fa capire che il vivere seriamente ciò che Gesù è venuto a insegnarci, è il modo migliore per vivere una vita libera e bella.

Un’ottima “predica”

Qualche giorno fa un mio collega più giovane, – credo pur senza volerlo – m’ha fatto un’ottima “predica”, uno di quei sermoni che fanno pensare e mettono positivamente in crisi. Tutto questo non avviene facilmente, perché sono convinto che noi preti, predicatori di professione, siamo maestri nel trovare interpretazioni e scappatoie per cui “stiamo sempre a galla” e ci salviamo nonostante certe posizioni e certi comportamenti siano manifestamente poco conformi al Vangelo.

Vengo alla vicenda che mi ha portato ad ammirare e ad essere quanto mai toccato dal modo di pensare, ma soprattutto di agire, di questo mio confratello.

Gli anziani residenti al Centro don Vecchi di Campalto, dimorano, come qualcuno di loro ha felicemente affermato, “in una prigione d’oro”, ma sempre di prigione si parla perché a causa del traffico forsennato di via Orlanda, a mala pena e con pericolo possono muoversi solamente usando l’autobus; muoversi a piedi o in bicicletta sarebbe un suicidio certo.

Preoccupato anche per l’aspetto religioso, ho fatto due tentativi con due vecchi preti, però per motivi diversi sono andati male. Per grazia di Dio si è praticamente offerto un giovane prete della zona. Io, come comunemente si usa, gli avevo fatto avere una busta con l’offerta, che però egli ha respinto. Per Natale cercai di superare l’ostacolo facendogli avere “il panettone con un’offerta per la sua parrocchia”. Ma questo sacerdote, con una lettera quanto mai nobile ed edificante, mi rimandò l’offerta con queste parole che mi costringono ad una seria verifica personale. Spero di non essere indiscreto pubblicando il motivo del suo rifiuto, ma lo faccio solamente perché penso sia bene che i concittadini sappiano che ci sono anche dei preti di tale rigore, coerenza e delicatezza di coscienza.

Rev. Don Armando,
ho gradito il suo pensiero di riconoscenza, che un suo collaboratore mi ha consegnato la sera di Natale, ma ritorno indietro la somma che lo accompagnava. Non voglio essere scortese nei suoi confronti, e non metto assolutamente in dubbio le sue intenzioni, tuttavia io voglio essere fedele ad un principio che mi sono dato, quello cioè, per quanto è possibile, di fare qualsiasi servizio religioso, senza che esso sia “adombrato” da motivi economici, sia che figurino come offerta – compenso al celebrante o alla parrocchia o ai poveri o a qualsiasi altro scopo. Non entro qui nel discorso, che sarebbe lungo e complesso fare, sulla gestione economica delle parrocchie e sul sostentamento del clero. Sono sicuro che capirà questo mio desiderio.
Mi creda, quel grazie sorridente che gli anziani del Centro mi rivolgono alla fine della Messa, è per me più che sufficiente. A ben pensarci sono io che la devo ringraziare per l’occasione che mi ha dato.

Cordialmente,
29.12.12
(lettera firmata)

Un discorso del genere non può e non deve lasciarmi indifferente. Io finora mi sono comportato nella stessa maniera ogni volta che altri sacerdoti mi hanno chiesto qualche servizio religioso, né mai ho chiesto ai fedeli un centesimo per messe, funerali o matrimoni, però ho sempre accettato e accetto ancora ogni offerta che spontaneamente mi si dà in occasioni del genere, destinandola però interamente alle opere di carità.

Da queste offerte sono nati i Centri don Vecchi ed altre strutture di carità. Ripeto però che mi fa un immenso piacere e mi ha edificato quanto mai il discorso e il comportamento di questo mio confratello, offrendomi un’occasione per una verifica seria e rigorosa delle scelte che finora ho fatto.

Un altro problema

Quando ero nella mia vecchia parrocchia, per parecchi anni potevo contare sull’aiuto di due giovani preti come collaboratori; poi, a causa della crisi delle vocazioni, ne rimase uno solo. Ora don Gianni, attuale parroco a Carpenedo, è rimasto solo, senza alcun aiuto stabile.

Per Pasqua, il mio successore mi ha chiesto di aiutarlo per le confessioni, cosa che ho fatto molto volentieri. A motivo di questa recente collaborazione, ho avuto modo di constatare personalmente la “crisi” di questo sacramento. Già ai miei tempi avevo notato la progressiva diminuzione dei fedeli che si accostavano al sacramento della riconciliazione con Dio. Ora però, mancando da più di sette anni dalla parrocchia, mi sono reso conto del livello di minima raggiunto.

L’organizzazione delle confessioni per Natale è stata perfetta: incontro a scaglioni di età, preparazione prossima adeguata, lettura dei testi biblici sul perdono, foglietti per l’esame di coscienza, ingaggio di un numero adeguato di sacerdoti (per cui le attese sono state minime). Con tutto ciò, pur non essendo in grado di quantificare il numero esatto, credo che tra bambini ed adulti non si siano superate le due, trecento anime e, in aggiunta, ho avuto la sensazione che i parrocchiani ormai si accostino alla penitenza quasi solamente in occasione delle confessioni organizzate: due o tre volte all’anno.

Se confronto questa situazione con quella che ho sperimentato da giovane prete, c’è un abisso numerico, e pure qualitativo, tanto da farmi pensare che piuttosto che insistere su questo tipo di organizzazione – che raggiunge percentuali infinitesimali – sarebbe più vantaggioso puntare su una formazione che faccia prendere coscienza ai fedeli del bisogno di chiedere perdono di frequente a Dio per le proprie miserie, magari potenziando e valorizzando il momento penitenziale all’inizio della Santa Messa, pur offrendo ogni settimana sempre tempi e momenti ben determinati per la confessione personale.

Ossia, mi chiedo se sia più opportuno insistere su una formazione permanente al pentimento e alla richiesta di perdono a Dio, orientando i penitenti alla confessione solamente in momenti particolari di disagio interiore, piuttosto che alla organizzazione di queste penitenziali comunitarie con l’assoluzione personale che raggiunge un numero insignificante di Cristiani.

Io non so e non posso dare una risposta, però mi vien da pensare che anche questo problema si riconduca a quello più vasto ed incombente dell’evoluzione religiosa, che richiede un ripensamento delle formule religiose per confermare ed alimentare la fede.

L’uomo planetario

Padre Ernesto Balducci, il sacerdote dell’ordine degli padri scolopi, l’ho conosciuto tantissimi anni fa, quando ero appena prete. Il sacerdote fiorentino, morto una decina di anni fa in un incidente d’auto, l’avevo “incontrato” nella rivista “Testimonianze”, il periodico che mi ha accompagnato alla scoperta della fede e dell’uomo per più di vent’anni.

La rivista – ricordo bene – aveva la copertina di un rosso intenso, con la scritta lapidaria “Testimonianze”. A quei tempi era considerata, nel mondo ecclesiastico, una rivista di avanguardia che destava più di un sospetto e di una preoccupazione nelle alte gerarchie; comunque per me le tesi che portava avanti erano fresche ed esaltanti. Infatti mi accorsi poi che esse erano un rivolo di pensiero evangelico che ha ingrossato quel fiume salutare che è sfociato nel Concilio Vaticano Secondo, che per grazia di Dio accompagnò la Chiesa ad accostarsi con più fiducia al nostro mondo.

Il mio rapporto con questa rivista si interruppe, non ricordo più in quale anno. Ricordo che scrissi a padre Balducci: “Reverendo padre, per la stima che le porto, sento il dovere di dirle che le nostre strade ormai divergono; non sono più disposto a seguirla nel sentiero che lei ci indica”. Mi sembrava che lui condividesse troppo le tesi della sinistra. Poi ho capito che non era lui che camminava troppo in fretta, ma ero io ad avere il passo troppo lento.

In questi giorni mi sono “riconciliato” con padre Balducci leggendo un suo bellissimo ed illuminante volume: “L’uomo planetario”. Padre Balducci, con un’analisi quanto mai intelligente e profonda, legge in chiave di fede il fenomeno della globalizzazione, per quanto riguarda le grandi religioni, prevedendo uno smussamento progressivo della differenziazione tra le varie Chiese ed un movimento verso una comunione sempre più consistente.

Leggendo questa ricerca così illuminante, ho pensato prima alla parola di Gesù che auspica “un nuovo ovile sotto un solo pastore”, poi alle tesi del grande Teilhard de Chardin che legge il movimento cosmico tutto teso verso l’assoluto e al convegno Interreligioso voluto da Papa Wojtyla ad Assisi, sembrandomi di capire che “gli uomini non si muovono ma è Dio che li conduce” verso l’incontro risolutivo con il Creatore.

Anche il cammino procede con difficoltà; esso tende verso l’assoluto inglobando e stemperando differenze che ogni giorno di più sembrano marginali e fittizie.

I cari “nemici”

Del Cardinale Martini avevo una conoscenza abbastanza approssimativa. Lo conoscevo come biblista famoso e soprattutto per quella sua lettera pastorale alla diocesi di Milano che aveva come titolo “Farsi prossimo” e che è un testo veramente importante per chi, nella Chiesa, avverte il dramma dei poveri, ma non sapevo niente più di questo. Ora che è morto, Martini mi sta diventando più che mai un maestro di vita e soprattutto un testimone autentico di Cristo.

Per Natale amici cari mi hanno regalato una serie di volumi su questo vescovo gesuita, testi che mi stanno aiutando a sentire questo Cardinale come un caro e prezioso compagno di viaggio. Per un paio di anni ho materiale sufficiente a farmi conoscere questo uomo di Chiesa, ma soprattutto di Dio, che è quello che conta. Già ho parlato agli amici di quanto mi hanno fatto bene le sue “confessioni” sul passo lento della nostra Chiesa, sulle sue contraddizioni e sui suoi “peccati”. La “fragilità” spirituale dell’arcivescovo di Milano mi è quanto mai di conforto e mi sta aiutando ad accettare i miei limiti di fede e le mie “riserve” nei riguardi di quella Chiesa che amo e per cui voglio spendere pure i “tempi residui” della mia vita.

Uno degli ultimi volumi ricevuti in dono su Martini è una sua biografia. Oggi ho letto un capitoletto e ho trovato una sua affermazione che è stata per me come un raggio di luce che ha toccato il mio animo. Il cardinale “ringrazia” tutti i razionalisti, da Renan in poi, che hanno dato una lettura umana, oppure critica e scettica, delle Sacre Scritture, perché – dice il cardinale – l’hanno aiutato ad approfondire il suo studio, a documentarsi meglio, ad apprezzare di più il testo sacro.

M’è venuto da pensare: “A che cosa si ridurrebbe la Chiesa senza critici, atei, persecutori?” Già ora la Chiesa italiana, che da più di mezzo secolo tutto sommato ha avuto pochi nemici, anzi troppi privilegi, sta arrischiando di diventare flaccida, fideista, evanescente e confinata negli spazi siderali. Ho capito che i nostri “nemici”, e semmai i nostri persecutori, sono un autentico “dono di Dio” perché ci costringono all’autocritica, ad una revisione di vita, alla purificazione e ad una maggior coerenza.

Oggi quindi ho ringraziato il Signore per i radicali, i socialisti, i liberali, gli atei e l’intera sinistra, perché ho capito che in realtà sono una “benedizione” del Signore. Senza questi “nemici” solo Dio sa che cosa saremmo diventati!

Il banchetto a san Girolamo

La televisione locale, il giorno di Natale, ha dedicato qualche carrellata del telegiornale all’iniziativa della Caritas e della San Vincenzo mestrina che hanno organizzato per il giorno di Natale un pranzo per 200 poveri nella chiesa di San Girolamo. Ho così avuto modo di vedere il Patriarca e il suo seguito e i giovani e meno giovani camerieri con la casacca bianca con la scritta “Caritas” fatta confezionare per l’occasione.

Nella chiesa più antica di Mestre s’è celebrata, il 25 dicembre, una splendida eucaristia col “corpo visibile di Cristo” o, per essere intonati alla liturgia, col presepe con “il figlio dell’Uomo” rappresentato realmente dalla parte più fragile dell’umanità mestrina.

Finalmente si sono inverate, almeno parzialmente, le affermazioni di Gesù: “Avevo fame, avevo sete, era nudo, senza casa, ammalato e carcerato, e tu?” L’iniziativa m’è parsa il più bello e vero “pontificale” che si sia celebrato in occasione del Natale e sono stato felice di vederlo presiedere dal nostro Patriarca.

Tuttavia, di primo acchito, le immagini di San Girolamo mi sono sembrate una pallida fotocopia di quanto ha fatto, come ogni anno, la Comunità di Sant’Egidio a Roma e Padova e nel mondo intero. Il giornalista infatti diceva che i commensali di Sant’Egidio quest’anno hanno raggiunto i trecentomila. Ed io so che la “Tavolata di Sant’Egidio” è l’espressione di un impegno serio, quotidiano ed autentico che questa comunità porta avanti in tutti i settori della povertà.

Quella di San Girolamo mi sarebbe sembrata una parata di cattivo gusto e falsa se essa non fosse supportata dalle mense di Ca’ Letizia, dei Cappuccini di Mestre, di Altobello, del Redentore, della Tana e di altri conventi francescani. E se non sapessi che il Banco alimentare del “don Vecchi” offre generi alimentari per duemilacinquecento persone ogni settimana, quasi altrettanto la Bottega Solidale e un po’ di meno la Banca del Tempo Libero di Mestre e i frati di Sant’Antonio di Marghera.

Son felice che la carità della chiesa di San Marco sia fortunatamente presente e visibile a Mestre e Venezia. E ancora il pranzo natalizio di San Girolamo mi aiuta a sperare che il nuovo Patriarca elabori un progetto e dia un volto più organico ed efficace alla “carità” del popolo di Dio, in maniera che il “Cristo povero” presente nelle nostre città sia più amato ed aiutato e abbia almeno le stesse attenzioni che i cristiani riservano al Cristo presente nel pane eucaristico.

Cristo non è nato in chiesa

Uno dei più bei libri che ho letto lo scorso anno è stato quello di un vecchio prete del Friuli, parroco in un piccolo paese di collina. Il titolo è quanto mai significativo: “Fuori del tempio”.

Il volume rappresenta quasi una confessione pubblica di un cristiano onesto e radicale che sente amaramente le lacune, le incongruenze, le contraddizioni ed i ritardi sulla vita reale della Chiesa ufficiale del nostro tempo.

Tutto sommato l’autore è un prete che crede, che ama la Chiesa, ma che sente quanto sia urgente e pressante un rinnovamento forte, un ritorno al Vangelo ed un dialogo vivo e puntuale col modo di sentire e di pensare dell’uomo di oggi.

Questa lettura mi ha aiutato a mettere a fuoco le mie perplessità, le incertezze, i rifiuti e le speranze nei riguardi della mia Chiesa in cui credo e che amo, ma che vorrei più genuina e coerente nel suo essere ed agire, temendo che diventi una bella e consistente struttura, ma senza anima e vitalità.

Quest’anno, per Natale, m’è venuto da fare questo strano accostamento, riflettendo sul rapporto tra il Natale del Vangelo e le feste di Natale che mi accingevo a vivere come uomo del nostro tempo.

Già qualche tempo fa m’aveva un po’ stupito e turbato il pensiero che Gesù, così profondamente credente, non fosse appartenuto per nulla all’apparato religioso del suo tempo; infatti, nonostante avesse frequentato sia la sinagoga che il tempio, la sua testimonianza la offerse quasi sempre fuori dal tempio, quasi estraneo all’organizzazione ufficiale della gerarchia sacerdotale.

Ora constato pure che Gesù non è nato in chiesa, ma in una stalla, che i primi incontri li ha avuti con povera gente fuori dalle righe, con i pastori e i magi, mentre il sinedrio e le congreghe dei farisei, degli zeloti, leviti ed altri ancora, rimasero estranei, anzi gli furono nemici.

Ora, pensando alle solenni liturgie, ai sermoni pieni di frasi fatte, in chiese riscaldate ed illuminate a festa, alle opere buone natalizie che sanno di beneficenza, mi assale la paura che Cristo, la gente del nostro tempo, lo debba cercare altrove e comunque fuori dal tempio, pensando che il Gesù infreddolito e sulla paglia sta forse a Taranto, ove migliaia di operai sono in angoscia per il loro domani, o anche nel Veneto, ove tantissime piccole industrie chiudono o delocalizzano, piuttosto che nelle comunità cristiane.

La mia non vuole essere una critica esterna, ma guardo tutto ciò con l’angoscia di essere compartecipe e corresponsabile della differenza tra l’evento dell’incarnazione e la festa di Natale. Di fronte a questo pericolo non mi resta che trarre le conclusioni e prendere le decisioni che mi riguardano personalmente.

Parziale e caro ritorno

Don Gianni, il giovane parroco, mio “nipote” nella successione nella parrocchia di Carpenedo, è rimasto solo. Don Gianni è giovane, intelligente, pieno di risorse, ma solo ed impegnato su troppi fronti.

I preti della Chiesa veneziana, soprattutto i bravi preti, arrischiano di crollare sotto il peso di troppi impegni, a causa della scarsità di sacerdoti, finché il Vaticano non si deciderà a prendere delle decisioni. Per esempio consacrare preti anche gli uomini sposati e le donne, oppure accorpare le parrocchie dando incremento alle “unità pastorali” e creando così delle pur piccole comunità sacerdotali per evitare i doppioni e perché ogni sacerdote possa dare il meglio di sé nel settore che gli è più congeniale.

Finché non si darà fiducia reale e responsabilità ai laici assumendo a libro paga dei collaboratori pastorali, temo che i preti più generosi e più impegnati arrischino di fare la stessa fine del cavallo del bellissimo volume di Orwell “La fattoria degli animali”, un animale sempre disponibile a caricarsi di ogni impegno, ad aggiungere fatica a fatica, finché un brutto giorno crollò sotto le stanghe del carretto che tirava.

Don Gianni mi ha chiesto di aiutarlo a celebrare una delle cinque sante messe di orario alla domenica, quando poi non ci sono degli extra. Di buon grado ho accettato anche perché don Gianni si è reso disponibile a succedermi come presidente della Fondazione don Vecchi, perché amo ancora la mia vecchia parrocchia e perché ritengo giusto offrire la mia collaborazione. Ho scelto la messa delle otto perché la meno frequentata, e soprattutto frequentata da anziani, sperando che s’accontentino più facilmente delle omelie di questo vecchio prete.

Con tanto piacere constato che di domenica in domenica cresce l’intesa e spero di raggiungere il clima caldo, cordiale e fraterno che provo sempre quando celebro nella mia cattedrale fra i cipressi.

Le nenie natalizie e i poveri

Oggi è stata una giornata di nebbia: freddo, umidità, cielo cupo. E la serata è ancora peggiore. Quando ero bambino mio padre affermava che queste erano “sere da ladri”.

Me ne sto nel mio studiolo caldo, con la lampada da tavola che illumina il foglio bianco. Ho appena letto nel Vangelo di Luca la risposta che Giovanni Battista dà alla gente che gli chiedeva che cosa dovesse fare per trovare pace: «Chi ha due tuniche, ne dia una a chi non ne ha e chi ha da mangiare faccia altrettanto».

Fra pochi giorni pensai, sarà la festa di Natale: regali, pranzi con i fiocchi a casa, e nelle chiese dolci canti, ricchi di sentimento, di melodia, alleluja a non finire, pastorali e prediche sul presepe, il bambinello Gesù, la stella, i pastori e l’Incarnazione. Le donne in pelliccia, i bambini con giubbotti ben caldi e mariti messi a nuovo che per Natale non mancheranno alla messa di mezzanotte.

Però a questi suoni e a queste immagini romantiche nel mio animo si sovrapponevano quelle dei poveri della mensa dei frati, di Ca’ Letizia e di Altobello, gli ospiti dell’asilo notturno, la stazione sovraffollata di senzatetto, le prostitute discinte per le strade in attesa di offrire “amore a pagamento” e le donne dell’est in cerca disperata di trovare qualche vecchio a cui badare e, sia pure, una squallida stanza in subaffitto.

Avvertivo nell’animo uno stridore insopportabile. Si dica quello che si vuole, ma certi sermoni mi sembrano più bestemmie che atti di fede. La mia Chiesa non può continuare a vivere in questa terribile ipocrisia da farisei. Mi viene in mente l’augurio del defunto vescovo di Molfetta: «Vi auguro un Natale scomodo, un Natale da Cristo che turbi la coscienza dei benpensanti!».

Ho un bell’affermare che al “don Vecchi” si offrono ogni settimana generi alimentari a 2500 persone, che ogni giorno si rendono disponibili 15 quintali di frutta e verdura e vestiti a volontà per un euro (e talvolta anche solo 50 centesimi), che al “don Vecchi” hanno trovato rifugio quasi 500 vecchi poveri in 315 alloggi!

Questo non mi basta per mettere la mia coscienza in pace. Giovanni gridò : «Potrete scoprire e incontrare il Salvatore solamente se cederete una delle due tuniche e metà del vostro cibo!» Ho paura che noi cristiani corriamo il rischio, ancora una volta, di incontrare spesso solamente una bolla di sapone iridata, pronta a scoppiare al primo soffio di vento, piuttosto che Colui che può dare serenità all’oggi e speranza per il domani.

Anime morte

Non passa giorno che soprattutto qualche donna dell’est, moldava, rumena o ucraina, non venga al “don Vecchi” per chiedere di poter trovare un lavoro.

Una decina di anni fa, quando “inventammo” il “Senior Service” del don Vecchi, queste lavoratrici dell’emigrazione accettavano tutto. Non conoscevano quasi l’italiano, comunque tutte si presentavano dicendosi disponibili per le 24 ore, ossia per un’assistenza giorno e notte, tutti i giorni della settimana, per 600, 700 euro al mese. Le mettevamo a contatto con la coda di richiedenti e queste giovani donne si “seppellivano” anche in piccoli e poveri alloggi, condividendo con vecchi affetti dall’Alzheimer o dal Parkinson, la triste vita, lontane dalle loro famiglie.

Poi, pian piano, presero coscienza dei loro diritti e cominciarono a chiedere un giorno di libertà, due ore di riposo al giorno, un mese di ferie pagate, per rientrare nei loro Paesi lontani, la regolarizzazione sindacale, una stanza per conto proprio o qualche altra cosetta ancora, valutando il peso dell’assistito, e il tipo di malattia. Però la coda di richiedenti si è prima assottigliata e poi è scomparsa. La crisi raggiunse anche i ceti medi che un tempo potevano permettersi la badante.

Oggi le badanti mi appaiono come “anime morte” che vagano in città in cerca di un alloggio, di un lavoro, tra l’indifferenza e il sospetto di un popolo non ancora pronto ad accogliere il diverso e a condividere il dramma che ha colpito l’Europa e il mondo.

La crisi è per tutti, ma per il popolo delle badanti è doppia, forse tripla.
Qualche giorno fa una giovane donna moldava mi supplicava di indicarle un lavoro perché, per mangiare, si arrangiava in qualche modo andando dai frati o alla San Vincenzo, ma per dormire non c’era porta che si aprisse ed anche per una stanza condivisa con altre due o tre coinquiline le domandavano al minimo duecento euro.

Le ho chiesto il numero di cellulare, pur sapendo che non la chiamerò mai, perché da settimane e settimane si accumulano sulla mia scrivania numeri di cellulari con nomi di donne ed uomini stranieri, e pure italiani, che stanno cercando con angoscia un posto di lavoro a qualsiasi titolo e con qualsiasi remunerazione, però il cumulo di richieste continua a crescere piuttosto che a diminuire.

Mi duole il cuore pensando a questa donna che, come tante altre, continua a cercare invano nel freddo e nell’indifferenza, un lavoro, mentre nella mia Chiesa si continua a pensare quasi esclusivamente agli angeli del cielo!