Il miracolo inaspettato

Ho l’impressione che il nostro Papa voglia sbaraccare velocemente anzi, fin da subito, un apparato artificioso ed ingombrante, perché emerga da queste impalcature artificiose l’uomo vero, meglio ancora l’uomo e il discepolo pensato e voluto da Cristo.

E’ da tento tempo che, magari confusamente, avevo intuito che certe tradizioni, certe bardature e certi locali sfarzosi e fuori dalla tipologia della normalità, finivano per soffocare l’uomo, ma soprattutto il cristiano, mostrando una Chiesa sofisticata, vestita di una ricchezza da pataccaro, che aveva poco o nulla a che fare con la bellezza e la sovranità dell’uomo nuovo annunciato e voluto da Cristo.

Ogni giorno Papa Francesco ci offre una sorpresa ed una bella sorpresa! Ha cominciato a chiedere “la benedizione” del popolo di Dio prima di impartirla lui, ha offerto ai “Magazzini San Martino” le scarpe rosse di Prada, la mantellina rossa bordata di finto ermellino ed un sacco di altri indumenti che non sembra affatto intenzionato ad indossare, ha infranto con disinvoltura “il sacro protocollo” salendo e scendendo dalla “papamobile” per salutare infelici, amici, bambini, donne e uomini del popolo. Ha telefonato ai vecchi amici lasciati in fretta in Argentina; per andare al conclave ha abbandonato fino dal primo momento quei discorsi da iniziati, discorsi barbosi, noiosi ed incomprensibili che tutti dicevano, per consuetudine e per falsa riverenza, essere sublimi. Ha detto una delle prime messe per gli spazzini del Vaticano per continuare con il carcere minorile. Ora dicono che non vuole traslocare dall’appartamento provvisorio “per non perdersi” nei “sacri palazzi” che “potrebbero ospitare 300 persone”. Ogni giorno di più ci diventa facile coniugare le sue scelte, le sue parole e i suoi comportamenti con quelli dei primi discepoli di Gesù.

In questi giorni avverto sempre più la curiosità di immaginare che fine farà il piccolo esercito di guardie svizzere e l’ammucchiata di monsignori e vescovi che costituiscono la curia del Vaticano.

A Radio Radicale ho sentito che perfino Marco Pannella – che è tutto dire – è entusiasta del nuovo Papa. Chi mai se lo sarebbe aspettato un terremoto così forte, che improvvisamente fa recuperare alla Chiesa decenni e decenni su quei duecento anni di ritardo che il cardinal Martini aveva denunciato?

Solamente il buon Dio poteva fare un miracolo così grande e inaspettato! E noi ne siamo i fortunati spettatori.

Felice ma preoccupato

La sensibilità della gente è sempre stata in continua evoluzione. Oggi l’evoluzione è così veloce che quello che un tempo avveniva in secoli, ora avviene in meno di dieci anni.

Io, che ho più di ottant’anni, ho avuto modo di assistere all’elezione di tanti Papi – Pio XI, Pio XII, Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo I, Giovanni Paolo II, Papa Ratzinger – ma mai ho avvertito la curiosità, il tifo e la soddisfazione come mi è avvenuto per questo Papa, Papa Francesco!

Saranno i mezzi di informazione, affamati di sempre nuove notizie, sarà il fatto che la Chiesa rappresenta un punto fermo in questa società così irrequieta ed instabile, sarà forse l’evoluzione della sensibilità religiosa, che ormai non capisce e non tollera più una Chiesa pomposa, fuori dal tempo, legata a stili superati, comunque non solo i cristiani, ma il mondo intero ha seguito con vera passione l’elezione del nuovo Papa e i suoi primi passi. Le centinaia di migliaia di persone che in queste ultime settimane hanno gremito piazza san Pietro ne sono una prova incontrovertibile.

Mi hanno poi sorpreso altri due comportamenti. Il primo, la sensazione di scampato pericolo, perché non è stato eletto un cardinale dell’apparato vaticano, quasi che questa elezione rappresentasse un pericolo non solo per la Chiesa, ma per il mondo. Secondo, la soddisfazione, il compiacimento e la contentezza per l’elezione di Papa Francesco e l’ammirazione per i suoi primi passi di ministero pastorale.

Mi è sembrato che i cristiani, almeno nell’inconscio collettivo, sentissero il bisogno di un Papa semplice, alieno non solo da comportamenti ingessati dalla tradizione, ma pure non legato a discorsi teologici incomprensibili per i più, che finalmente rioffra un “Vicario Cristo” alla quotidianità, agli interessi ed attese di tutti e volti per sempre le spalle agli ultimi retaggi dello Stato Pontificio. Papa Francesco pare che abbia rotto, con un sol colpo, un mondo per certi aspetti misterioso, se non magico, avulso dal reale, per riportare il vescovo di Roma a parlare con le parole di tutti.

Tanta gente mi ha chiesto se ero contento, non aspettando quasi la risposta, per affermare la loro contentezza. Si, sono contento, tanto contento, ma ho pure tanta paura che troppi che finora avevano perseguito un cristianesimo diverso, si sentano mancare la terra sotto i piedi e che altrettanti, come me, non riescano a stargli al passo.

La tenerezza

Un paio di anni fa è morto uno dei direttori della nota rivista “Famiglia cristiana”, don Zega, un discepolo di don Alberione, che è stato il testimone e il profeta del nostro tempo, che ha insegnato ai cattolici della nostra nazione un uso più serio dei mezzi di comunicazione sociale. In quella occasione scrissi più volte di questo giornalista intelligente, brillante, ma soprattutto ricco di umanità e carico di messaggio cristiano.

Don Zega, come tutti gli uomini seri e coerenti, non ebbe vita facile neppure all’interno della sua comunità. Poi, come avviene quasi sempre, una volta morto, la sua rivista e pure i periodici di ispirazione religiosa, si diedero un bel daffare per erigergli un “monumento funebre” quanto mai specioso. Io però ho colto la solitudine, la sofferenza di questo discepolo di Gesù che ha tentato di essere fedele al Vangelo col cuore, con la testa e con la penna.

In uno dei tanti servizi di “Famiglia cristiana” che rendevano onori postumi a questo giornalista dal volto umano, ricordo di aver appreso che in occasione del suo cinquantesimo di sacerdozio era ritornato nel suo povero paese natio e durante il discorso delle sue “nozze d’oro” con la Chiesa, aveva affermato che noi preti dovremmo essere soprattutto testimoni della “tenerezza” di Dio.

Questa frase, che faceva brillare di luce splendida il cuore di Dio, mi aveva davvero colpito, tanto che vi sono ritornato più volte, leggendo nel Creato, ricco di bellezza sovrana, il tocco della “tenerezza” di Dio che ci raggiunge in ogni tempo e in ogni luogo per accarezzare con dolcezza il nostro cuore.

Cosa mi capita di vedere e di sentire in questi giorni? Il Papa che ripete con insistenza che dobbiamo credere nella tenerezza, non temerla, perché è un mezzo per far sentire il battito del cuore di Dio agli uomini del nostro tempo, così soli e bisognosi di un amore semplice e dolce. Ma soprattutto con stupore ho spalancato gli occhi vedendo Il Papa che dà un bacetto sulla guancia alla presidentessa dell’Argentina che, da quanto so, è una “grimetta” di donna non facile. Quella lady dal cappellino sulle ventitrè in maniera un po’ spavalda e da primadonna, ha detto che pensa di essere la prima donna ad essere baciata da un Papa. Io penso che quel bacetto inaspettato e forse – anzi senza forse – immeritato, non le permetterà mai più di immaginare la Chiesa come una suocera impicciona, ma la farà sentire come una madre buona che tutto sa comprendere e perdonare.

Ora tocca a noi!

Assai di frequente da qualche tempo faccio fatica a trovare temi convincenti su cui riflettere, tanto che confidai alla mia “Beatrice” che se non avessi trovato argomenti per me validi, e capacità di esprimerli in maniera decente, avrei chiuso con questo “diario” che ogni settimana mi sembrava sempre più logorroico e pedante.

La signora Laura, mia “maestra” di sempre, che ha la bontà di non fare segnacci con la matita rossa o blu, ma che si dà invece da fare per tentare di riordinare i miei scritti selvaggi, è stata quanto mai materna in questi ultimi tempi, dicendomi, con una graziosa bugia, che anche le ultime pagine le erano piaciute, mentre a me destavano angoscia e repulsione.

Ebbene, vi confesso, amici cari, che questo Papa ha messo le ali al cuore a me ed anche alla mia povera penna biro, tanto che mi trovo in difficoltà a scegliere i migliori tra i suoi gesti veramente profetici. Erano davvero decenni che sognavo l’arrivo di qualcuno che inverasse il discorso del Concilio Vaticano Secondo, qualcuno che indicasse, come obiettivo assolutamente necessario, quello della “Chiesa dei poveri”.

Papa Francesco ha aperto il suo discorso con i fedeli della sua diocesi e con i cristiani del mondo intero, dicendo che sognava e si impegnava per una “Chiesa povera” che cammini con i poveri e per i poveri. Questo discorso è stato delizia per il mio animo, perché non riuscivo proprio a capire chi potesse ancora credere ad una Chiesa opulenta, amica dei ricchi, che vestiva “di porpora e di bisso” come nella parabola di Lazzaro e del ricco epulone, che trafficava con operazioni speculative e spericolate con denaro di dubbia provenienza e di ancor più dubbia destinazione.

Ora almeno so, con certezza, che sono almeno dalla parte del Papa e che le scelte che ho tentato di fare finora non sono state del tutto sballate. Credo che ora nessuno mi potrà più fare osservazioni quando continuerò a ripetere quello che sono andato dicendo spesso in tanta solitudine: che la comunità parrocchiale non può illudersi di essere una comunità cristiana se non si attrezza ad aiutare in maniera seria i poveri, e così una diocesi se non impegna uno dei suoi membri migliori per stimolare, ordinare e metter in rete la carità; che un cristiano non ha diritto di arrogarsi di questo nome se non si dà da fare ad ogni livello per farsi carico dei fratelli più fragili.

So che non ho diritto di “scagliare pietre”, però spero che non ci sia più alcuno che tenti di nascondere “le sue vergogne” dietro una foglia di fico che il Papa ha eliminato fin dal suo primo giorno di ministero.

La predica del nuovo Papa

Il 19 marzo, giorno in cui Papa Francesco ha inaugurato ufficialmente la sua missione di vescovo di Roma e di vicario di Cristo per la Chiesa universale, ero costretto a casa per un attacco influenzale. Suor Teresa, forte del fatto che per una vita mi ha fatto da infermiera, mi aveva vietato, in maniera assoluta, di prender aria, perché per la mia età e per i miei trascorsi a livello di salute, uscire, a parer suo, era assai pericoloso.

Una volta tanto fui felice di avere l’influenza e del divieto di uscire per assolvere i miei impegni pastorali. Questo incidente di percorso mi ha permesso infatti di poter seguire dall’inizio alla fine l’intero servizio televisivo della prima messa, per Roma e per il mondo, del nuovo Pontefice.

Non vi sto a raccontare quanto sono stato felice di non riscontrare, una volta ancora, il “sacro folklore” in uso dal Vaticano, di scoprire che il Papa non indossava le scarpe rosse di Prada, “segno della disponibilità a versare il suo sangue per Gesù”, né la croce d’oro e tante altre coserelle del genere che, secondo alcuni, esprimerebbero la sensibilità del momento e della sua persona, affidando invece al suo sorriso, alla sua tenerezza e alla sua calda umanità il compito di mostrarsi un discepolo autentico di Gesù.

Non insisto su questi particolari perché i giornalisti sono stati tanto zelanti da sembrare persino pedanti nel sottolineare questi aspetti. Mi soffermo invece su un altro particolare, lasciandomi andare ad una confidenza che riservo solamente ai miei amici. Vi confesso, cari lettori, che è stata una delle poche volte che ho ascoltato con piacere ed ho capito la predica di un vescovo e di un Papa. Di solito mi rassegnavo a “far penitenza” per certi discorsi astrusi, preparati dagli “esperti”, che questi celebranti fanno perfino fatica a leggere, quando non mi appisolavo o pensavo ai fatti miei.

Finalmente ho capito quello che questo “prete” voleva dirci, ho condiviso il discorso e sono rimasto convinto che esso era il messaggio che interpretava il cuore di Gesù.

Se la prossima volta poi il Papa terrà in tasca gli appunti, come son solito fare anch’io, andrà ancora meglio, perché ho osservato che quelli che teneva in mano gli hanno creato una qualche difficoltà.

Una scelta provvidenziale

E’ il primo marzo. Mentre sto scrivendo questa pagina di diario non so quando sarà pubblicata. Il Papa, neanche da 24 ore, non è più Papa.

In questi ultimi giorni non si contano più gli amici, i lettori de “L’incontro” e i concittadini che mi han chiesto un parere sulle dimissioni del Pontefice. Su questo argomento hanno parlato talmente in tanti, tanto esperti e da tante angolature. Anch’io sono intervenuto ben due volte, la prima con la didascalia sulla facciata de “L’incontro” che abbiamo dedicato a papa Benedetto, e la seconda volta con una pagina di diario.

Ho già detto con chiarezza e convinzione la mia ammirazione e la mia gratitudine per quanto questo Papa ha fatto per la Chiesa e pure per la decisione di concludere in maniera diversa dai Papi degli ultimi secoli, il suo ministero di successore di san Pietro e di vescovo di Roma.

Già nei precedenti interventi ho accennato ad un aspetto particolare che a me pare quanto mai provvidenziale, ma sento il bisogno di ribadirlo, anche se mi rendo conto che è un discorso un po’ difficile da fare e più ancora difficile da ritenere positivo per Papa Benedetto.

A me è piaciuto che il Papa, come tutti i comuni mortali, abbia lasciato capire: “Sono vecchio, sono stanco, non ce la faccio più, desidero vivere in pace i miei ultimi giorni, sono nauseato ed impotente di fronte a tutti gli intrighi che ci sono in Vaticano, le cose mi scappano di mano, desidero leggere gli autori che mi sono cari, suonare un po’ l’armonium ed essere libero di fare qualche passeggiata in santa pace. Anche perché ci sono vescovi più giovani che possono fare meglio di me”.

M’è parso che con questa scelta il Papa sia voluto tornare ad essere uomo, uscendo da quel mondo in cui tutto è chiamato sacro, dal modo con cui ci si rivolgeva a lui (Sua Santità), al luogo ove abitava (i “sacri palazzi”), al modo in cui era costretto a vestirsi.

M’è parso tanto saggio che egli abbia voluto uscire da tutto quel marchingegno di tradizioni, di formalità e di ritualità sempre un po’ magiche, per reinserirsi finalmente nei ritmi normali di tutte le persone di questo mondo. Tutto questo l’ha capito anche il presidente Napolitano dicendo che la data di nascita conta.

Ben s’intende Papa Benedetto non riuscirà ad infrangere tutto quel mondo sacrale; ci sono infatti troppi interessi, troppe ambizioni, troppe consuetudini perché la sua scelta produca una svolta definitiva di umanizzazione. Comunque credo che lui abbia il merito di aver fatto la sua piccola grande parte.

A dire la verità fino in fondo, io avrei sognato che avesse preso in affitto un appartamento in una delle tante borgate di Roma dicendo al parroco relativo, che probabilmente è senza cappellani: «Vengo a dirti una messa alla domenica e se hai bisogno che io ti dia una mano per le confessioni dei bambini della prima comunione, lo faccio volentieri». Questo lo avrei più apprezzato che il suo ritirarsi a Castel Gandolfo ancora con guardie, dimora principesca, saloni e giardini favolosi.

Papa Benedetto ha fatto un passo verso lo stile di Gesù, ma credo che nella nostra Chiesa ci siano molti passi del genere ancora da fare.

La crisi economica ha raggiunto anche i preti

Da quando ho raggiunto una certa maturità – si parla di venti, trent’anni fa – ho fatto il proposito di non leggere mai le notizie di cronaca nera, le notizie scandalistiche o comunque gli articoli dei quotidiani che riportino titoli ad effetto. E questo perché essi sono perditempo e inducono ad avere una mentalità frivola e marginale. Talvolta però, quando le notizie riguardano “la mia categoria” o le realtà di cui mi occupo, allora mi lascio “indurre in tentazione”.

Qualche tempo fa un titolo a quattro colonne comparso sul Gazzettino nelle pagine regionali, diceva che la crisi economica aveva raggiunto anche i preti e questi stavano prendendo provvedimenti per arginare gli effetti negativi.

Come sempre, i giornalisti che hanno bisogno di avere qualche notizia che sia fuori mazzo dagli eventi normali, riportava notizie di un parroco che apriva la chiesa solamente alla domenica per risparmiare sul riscaldamento; di un altro che denunciava che le offerte della questua erano diminuite di più di un terzo; di un altro ancora che aveva dovuto rinunciare alla perpetua pure a part-time!

Di certo ci saranno pure dei casi così, di certe realtà in cui c’è qualche sofferenza, comunque oggi tutti i preti hanno uno stipendio garantito che si rifà alla paga medio-bassa degli operai, perciò possono campare come fan tutti, anzi leggermente meglio non avendo moglie, figli ed affitto da pagare.

Per quanto riguarda la parrocchia, sono convinto che per “chi lavora realmente” le cose non vadano peggio e per chi poi è impegnato a prodigarsi per i poveri, la gente non lasci loro mancare ciò di cui hanno bisogno.

Di certo credo che la crisi suggerisca in maniera più efficace della Quaresima: una vita sobria e impegnativa, meno spreco per automobili, meno perditempi col computer, meno porte chiuse e più disponibilità “fuori orario”.

Credo che se anche la crisi non è stata provocata dai preti, essi debbano essere in prima fila per combatterla e per non permettere che i più deboli vi soccombano.

Per quanto mi riguarda, devo dire che la gente continua ad aiutarmi come prima, anzi più di prima, però mi ritengo “assunto a tempo pieno”, anzi con estrema disponibilità a fare “gli straordinari” e a passare ai poveri quello che san Basilio dice di proprietà loro, perché tutto quello che è superfluo ad una vita sobria è certamente di chi ha bisogno, non mio.

Una scelta obbligata

In clinica a Padova, purtroppo, sono diventato, un po’ alla volta, uno di casa. Credo che non capiti troppo spesso, neanche nella celebre clinica patavina, di ricoverare un vecchio prete dalla capigliatura folta, bianca e scapigliata, che entra ad intervalli abbastanza regolari.

Per i “compagni di sventura” sono sempre un illustre sconosciuto perché, specie nel reparto in cui mi ricoverano, c’è un rapido turn over di pazienti, ma medici, infermieri, inservienti e volontari ormai mi considerano uno di famiglia e mi trattano con bonomia ed affetto, cosa che mi fa sempre molto piacere. Sono arrivato, pian piano, anche alle confidenze.

Nell’ultimo ricovero ho incontrato di nuovo una signora che ha la mansione di rifare i letti: è una signora cordiale, espansiva e soprattutto “di chiesa”. Mentre in occasione dell’ultimo ricovero cambiava le lenzuola e riassettava il letto, ha cominciato ad informarsi sulla mia vita di prete e a parlarmi della sua, di semplice fedele. Mi disse che mentre a casa cucinava, partecipava al rosario o leggeva i messaggi aggiornati della Madonna di Medjugorje. Trasse di tasca un telefonino di ultima generazione e con rapidissimi tocchi dell’indice mi mostrò una “brutta” immagine della Madonna col rosario al collo e mi fece sentire sottovoce – perché altri non udissero – la preghiera mariana, soggiungendo, da esperta: «Il rosario lo si può sentire recitato con la voce di bambina, di uomo o di donna!». Poi, sempre toccando leggermente altri due o tre tasti, ne venne fuori la parola “preghiere” e scorse un elenco infinito di preghiere di tutti i santi e di tutti i gusti.

Mentre assistevo a questa testimonianza di semplice, ma calda fede popolare, mi venne da pensare al nuovo volume “Sole sul nuovo giorno” che sto dando alle stampe: una raccolta di pensieri e di preghiere che ho raccolto con fatica e pubblico con una spesa non lieve. Pensai: “Scopro adesso un’America che tutto il mondo, aggiornato e giovane, ha ormai scoperto da tempo”.

Dapprima rimasi un po’ stupito e sconcertato, poi mi sono consolato ricordandomi una lettura di tanti anni fa. Due amici si incontrano e uno dice all’altro: «Di che cosa ti occupi?» e l’altro risponde: «Organizzo spettacoli da circo equestre». Il primo osserva: «Si tratta di un divertimento popolare per gente poco colta». Al che il secondo risponde: «Che percentuale di persone intelligenti e colte pensi ci sia nella nostra società?». E l’altro: «Forse il dieci o il venti per cento». «Ebbene, riprende il primo, io ho scelto di rivolgermi a quell’ottanta, novanta per cento non troppo colto!».

Forse è una magra consolazione, ma alla mia veneranda età non mi resta che rivolgermi al mondo dei tanti non aggiornati. Perciò pubblico il nuovo volume “Sole sul nuovo giorno”, anche se non rappresenta la novità e la “scoperta dell’America”.

La “mendicità” del sindaco e le carenze del parroco

Qualche settimana fa ha tenuto banco sulla stampa e nelle televisioni del Veneto (ma so che pure ha fatto una puntatina fuori dalla nostra regione) una notizia di carattere ecclesiastico del tutto insolita.

Il Gazzettino, e anche Rai Tre Regione, parlando dello stato attuale dell’economia, che sta mettendo in crisi e facendo fallire molte piccole imprese, creando difficoltà alle famiglie e perfino alle parrocchie, ha informato la cittadinanza che un sindaco di un piccolo comune del padovano, non riuscendo più a rispondere alle richieste di aiuto da parte dei suoi concittadini, ha chiesto al suo parroco di poter fare un appello in chiesa, durante la messa festiva, per ottenere almeno un euro da ogni fedele per soccorrere i cittadini in difficoltà.

Non sono riuscito a capire come si sia svolta la richiesta comunale di elemosina, immagino che il sindaco sia andato sul pulpito all’offertorio per fare la singolare richiesta e poi, al posto del sagrestano, abbia fatto il giro tra i banchi della chiesa per raccogliere con la borsa le offerte.

Plaudo a questo sindaco intraprendente e fiducioso nella sensibilità dei suoi cittadini praticanti; sono però molto meno ammirato dal comportamento del parroco di quella comunità cristiana. Di certo quel prete dice messa, battezza, sposa, fa catechismo e predica, ossia ottempera al primo dovere di un cristiano, ma sospetto che ignori totalmente e non metta in pratica il secondo comandamento, che è simile al primo: “Ama il tuo prossimo come te stesso”.

Non s’è accorto, quel reverendo, che “Gesù aveva fame, sete, era senza vestiti, senza casa, ammalato e senza soldi?!”

Ritorno ancora una volta sullo stesso tasto che credo sia il “nervo scoperto” di moltissime parrocchie che praticano religiosità rituale ma hanno ormai, per tradizione, perduto coscienza di quello che è veramente “il cuore” del messaggio evangelico.

Negli Atti degli apostoli è scritto che a Roma i cristiani erano definiti dalla gente “quelli che si amano” e non credo che questo amore fosse “un amore soprannaturale” che non significa quasi niente, e neppure che questo amore consistesse nelle sequenze della parlata veneziana: “amor mio, tesoro, anima mia…” Le parrocchie se non praticano la carità e non si attrezzano ed organizzano per soccorrere i poveri, valgono ancor meno dell'”esercito della salvezza”. I sindaci, invece, devono munirsi di strumenti ben diversi da quello del mendicare in chiesa. Mi spiace che stampa e televisione non abbiano neppure accennato a tutto questo!

“vicini” e “lontani”

In che cosa consiste “la sostanza” del messaggio di Gesù? E’ questa una domanda che sempre più frequentemente e in maniera assillante mi pongo. Me la pongo non tanto per curiosità, o per avere una indicazione sicura che valga per me, perché a questo proposito mi pare di avere idee molto chiare e da molto tempo, ma perché non faccio altro che constatare che nella nostra Chiesa ci sono comportamenti che indicano direzioni diverse e talvolta perfino contrapposte.

A questo riguardo Gesù, già duemila anni fa, è intervenuto in maniera chiara ed autorevole quando disse: «Ama Dio con tutte le tue risorse ed ama il prossimo tuo come te stesso». Non credo però che questo sia stato ancora capito bene, benché siano passati duemila anni di storia cristiana.

Quest’anno, per la domenica delle palme ho trovato per la copertina de “L’incontro” una fotografia di frati e di fedeli che si avviano in processione con delle grandi palme verso il santuario di Padre Pio. Quando ho scelto quella foto non ho potuto fare a meno di chiedermi: “Rispondono meglio al richiamo di Cristo questi fedeli che adempiono a questo rito di pace o i radicali che digiunano e protestano a non finire sulle piazze per impedire che il governo spenda un sacco di soldi per comperare i cacciabombardieri ultima versione? Io confesso che sono più vicino ai radicali!

Ho sentito un tempo un prete che affermava con sicurezza: «I veri cristiani si contano alla balaustra quando fanno la comunione!», ma io credo che siano tali quelli che operano fattivamente per i poveri, si schierano per le classi meno abbienti, appoggiano le richieste dei diversamente abili. Sono arrivato alla conclusione che ogni rito cristiano diventa accettabile e valido solamente nella misura in cui è efficace a far dei cristiani solidali, che amano concretamente, e non con escamotages soprannaturali, il prossimo. Sono arrivato a concludere che non ho più dubbi sul fatto che Gesù è venuto a dirci soprattutto che “il Padre” vuole che ci vogliamo bene, che ci aiutiamo reciprocamente, che ci facciamo carico dei fratelli più fragili e più bisognosi d’aiuto.

Confesso che io, che faccio il prete da più di mezzo secolo, diffido alquanto di quella “Chiesa” preoccupata principalmente dei riti, delle cerimonie, delle novene e delle coroncine, o peggio ancora preoccupata di “consolare Gesù”. Preferisco un’organizzazione caritativa anche sgangherata ad una confraternita di pii oranti.

Il mio “Papa Benedetto”

Quando questa pagina del diario vedrà la luce, molto probabilmente il cardinale camerlengo si sarà già affacciato dal terrazzo della basilica di San Pietro annunciando alla folla: «Habemus Papam!».

Sulle dimissioni di Papa Benedetto, umile e coraggioso, non s’è detto tutto, ma più di tutto. Con l’immenso mondo degli addetti all’informazione oggi suonano superflui e scontati i pensieri di un povero diavolo di cristiano come me, eppure sento dentro il bisogno di mettere in ordine nel mio spirito tanti pensieri, spesso confusi, che mi sono nati dentro in occasione di queste “dimissioni”, nonostante tanti giornalisti abbiano già molto intrattenuto con le loro analisi, spesso acute ed intelligenti e, più spesso, gratuite e non giustificate e talvolta impertinenti e faziose.

Io ho sempre voluto bene a papa Benedetto, non solo per motivi di fede, perché per me, come per ogni cristiano, il Papa rappresenta “Il dolce Cristo in terra” – come lo definì santa Caterina da Siena, la persona che nel passato, ormai remoto, lo supplicò di tornare da Avignone a Roma, sua sede naturale.

Ho amato papa Benedetto per la sua fragilità, per il suo italiano stentato, per essere stato un papa tedesco che, nonostante tutto, si portava in qualche maniera addosso le colpe del suo Paese. Ho amato papa Benedetto per la lucidità, l’intelligenza e la costanza con le quali ha messo in guardia il mondo da quel nemico subdolo ed esiziale qual è il relativismo.

Ora amo ancor di più papa Benedetto perché, con la sua scelta nobile e coraggiosa, ha favorito in maniera decisa l’ingresso della Chiesa nei ritmi, nel respiro e nel cuore della società moderna liberando il papato, ma soprattutto il Vaticano, da quella cornice di sacralità che sa di passato, immettendo la vita della Chiesa nel corso di una normalità umana, rendendola evangelicamente “lievito” immerso nella “pasta” dell’umanità del nostro tempo.

Confesso sommessamente agli amici che a me non dispiacerebbe e soprattutto non mi mancherebbe il rispetto, la devozione e la fede nel ministero del Papa, se un giorno potessi vedere il successore di San Pietro vestito in clergyman, magari con una crocetta bianca sul bavero della giacca nera o su fondo grigio scuro.

Il Papa è Papa non perché porta addosso vesti fuori moda, pronuncia formule incomprensibili, ma soltanto perché crede alla Parola di Dio e cerca di testimoniarla il più fedelmente possibile con la sua vita.

Positivo accordo

Proprio in quest’ultimo tempo, grazie alla mediazione del dottor Blascovich, che è uno dei responsabili della “messaggeria” che distribuisce “L’Incontro” alla sessantina di postazioni presso le quali, fin dai primi giorni della settimana, è reperibile regolarmente il nostro periodico, si è giunti ad un concordato fra la redazione di “Comunità e Servizio”, che è la testata della rivista della parrocchia di San Giuseppe di viale San Marco e quella nostra. Il patto sancisce che “Comunità e Servizio” sarà esposto in una delle chiese del cimitero e “L’Incontro” sarà esposto nell’ultima chiesa di viale San Marco, che ha come santo protettore San Giuseppe.

Non nascondo che questo accordo mi ha fatto molto piacere perché dovrebbe sempre potersi trovare un punto di incontro anche se ci fossero stili ed indirizzi diversi, piuttosto che chiudere la porta al confronto, che è sempre un fatto positivo ed arricchente per tutti.

Questa volta la cosa è stata certamente possibile perché il parroco di San Giuseppe è una persona intelligente ed aperta al dialogo, ma soprattutto perché quella comunità esprime un “foglio parrocchiale” che ha un suo stile, una linea redazionale e dei contenuti, mentre questi accordi non si realizzano mai quando ci sono parrocchie con “bollettini” pressoché insignificanti, perché poveri di contenuti e malandati nella loro strutturazione. In questi ultimi casi è più che evidente che i relativi responsabili non riescono a sopportare “la concorrenza”.

Le due “riviste”, “Comunità e Servizio” e “L’Incontro” hanno poi in comune la rubrica “Il diario”: il primo di un giovane parroco zelante e pio, con uno stile affabile e conciliante, il secondo che porta il riflesso di un vecchio prete, quale io sono, angoloso, critico e particolarmente sensibile alle problematiche sociali e al confronto religioso.

Sono convinto che sia ai parrocchiani della parrocchia di San Giuseppe che ai fedeli del cimitero farà certamente bene cogliere la vita spirituale vista sia da destra che da sinistra, anche se questi termini sono assolutamente impropri. Il confronto farà bene perché chi vive la religiosità nell’intimo della sua coscienza avrà giovamento nello scoprire l’altro lato della medaglia e a chi è abituato a cogliere l’aspetto orizzontale della sua fede, farà bene cogliere anche quello verticale.

A parte il fatto che in tutti gli ambiti in cui vivono cristiani ci sono persone che per natura o per scelta prediligono una o l’altra chiave di lettura della religione, è cosa buona che ognuno possa conoscere e valutare il pensiero di chi non condivide il suo modo di ragionare, infatti il poter cogliere l’altro lato della medaglia, ossia di chi la pensa diversamente è sempre positivo ed arricchente!

Tardi, ma in tempo

Ormai sono giunto alle ultime pagine del volume di Andrea Tornelli: “Carlo Maria Martini, il profeta del dialogo”. Confesso che ho scoperto, con enorme piacere e nello stesso tempo con altrettanta amarezza, di non aver conosciuto il cardinale di Milano, questo grande testimone cristiano del nostro tempo, mentre era ancor vivo.

Già scrissi, più di una volta, del sussulto di sorpresa quando ho letto dai giornali alcune espressioni che mi sarei aspettato di cogliere dalle labbra di un prete contestatore o della teologia della liberazione, piuttosto che da un cardinale di Santa Romana Chiesa quale fu il cardinale Martini. Personalità di primo piano nel campo della biblica e vescovo della più numerosa ed importante diocesi d’Europa, scrisse frasi come questa: “La Chiesa è in ritardo sulla società civile almeno di 200 anni”, oppure “Ci sono prelati e vescovi che per motivi di carriera si defilano, non prendono posizione”, o ancora “Solamente nel rispetto della libertà delle coscienze crescono cristiani veri”, o perfino “Il dialogo e il confronto con i non credenti è assolutamente necessario per purificare e rinsaldare la nostra fede”.

Dapprima ebbi il sospetto che queste frasi fossero state estrapolate dal contesto del suo pensiero da parte dei laicisti. Ora però, che ho letto fino in fondo il volume di cui parlavo, che riporta il suo pensiero, piuttosto che la sua vita, sono ben conscio dell’onestà intellettuale, della schiettezza, seppur delicata e rispettosa, di Martini, che seppe prendere posizioni ben decise su problematiche che, a parer suo, hanno bisogno ancora di studio, di riflessione, di rielaborazione. Il cardinal Martini ha sempre detto, magari sommessamente, la sua, sui problemi della fede, della morale, dell’economia, del dialogo interreligioso e dell’attuale cultura.

M’è venuta voglia di scorrere l’indice del volume per riscoprire come egli abbia guardato in faccia tutti i problemi del nostro mondo e della nostra Chiesa, senza mai dimostrarsi un cattedratico onnisciente, ma manifestando con onestà i suoi dubbi, le sue perplessità, i suoi distinguo e perfino le sue non condivisioni del pensiero dominante.

Voi, miei amici, non potete immaginare quanto mi abbia fatto bene, mi abbia donato una sensazione di liberazione e di conforto, venire a sapere che per i miei dubbi, i miei rifiuti e le mie perplessità potevo finalmente non sentirmi un ribelle, un apostata, ma solamente uno che vive la condizione esistenziale da persona onesta.

Il cardinal Martini l’ho conosciuto tardi, ma fortunatamente non troppo.

Forse non ho sbagliato

Qualcuno, di cui non m’è dato sapere il nome, m’ha fatto avere una pagina di “Panorama” così simpatica ed interessante, almeno per me, che mi prendo la libertà di pubblicarla, così come sta, ne “L’incontro” del aprile 2013. Prima le caricature e poi il titolo dell’articolo che le accompagna, mi hanno quanto mai incuriosito ed ora dico il perché!

Il foglio della rivista riporta i volti di una decina di personaggi noti, con il cappellone e il fazzoletto tipici degli scout e l’articolo enumera una serie di altri personaggi assai noti nella categoria di quelli “che contano” nel panorama del nostro Paese.

Vengo al motivo del mio interesse particolare per questo discorso. Io sono diventato assistente degli scout fin dal 1954, quando allora ero prete di primo pelo, del gruppo 32° dell’Asci nella parrocchia dei Gesuiti a Venezia. Mi è parso subito di capire che il metodo scout era valido, aveva presa nel mondo giovanile e perciò rappresentava, a livello pastorale, un ottimo strumento da usare.

Quando fui trasferito a Mestre, mi accorsi che della “folata” di scoutismo ch’era sbocciata anche a Mestre con la liberazione, era rimasta ben poca cosa: due squadriglie a San Lorenzo, altrettante in via Piave e poco di più a Carpenedo. Sarà forse un altro peccato autoreferenziale di cui spesso mi si accusa, però col mio arrivo e soprattutto con la collaborazione dell’attuale novantenne Nino Brunello, che allora era giovane sposo con due bambini piccoli, abbiamo fatto esplodere la primavera scout.

Per fare un esempio, quando lasciai San Lorenzo nel 1971, in parrocchia si contavano tre reparti, tre branchi, un noviziato e due clan di maschi ed altrettanti di ragazze. Tentammo poi di seminare, talvolta con positivo risultato, lo scoutismo in molte altre parrocchie di Mestre con monsignor Giuliano Bertoli, allora assistente provinciale, del quale sono divenuto ben presto vice assistente. Fui tra i pochi preti che si lasciarono coinvolgere in questa avventura, tra il sospetto e l’indifferenza dei “colleghi”. Quando sono uscito, nel 2005, dalla parrocchia di Carpenedo, essa contava su più di 200 ragazzi scout.

Ora vengo ad apprendere che la “seminagione” dei preti che hanno creduto in questo movimento, sta raccogliendo risultati eccellenti. Almeno da quanto pubblica “Panorama” gli scout “riusciti a livello nazionale” sono sparsi su tutto l’arco politico e questo mi fa felice perché i pochi assistenti scout non hanno tentato di far crescere “sagrestani”, ma uomini che scelgono di servire.

Da quei pochi che ho riconosciuto, tra quelli segnalati dalla rivista: Renzi, Giletti, Pisapia, Passera, Ambrosoli, La Russa, ecc., credo che tutto sommato siano rimasti fedeli all’ideale del servizio al prossimo. Questo non è proprio poco!

Gesu’ a nozze

Quest’anno spero proprio che il mio sermone a commento delle Nozze di Cana abbia fatto centro. Durante la predica c’è stata un’attenzione perfino superiore a quella ottima che registro ogni domenica nella mia “cattedrale fra i cipressi”.

La mia chiesa, che a molti dà l’impressione di una calda ed intima baita di montagna in cui si trovano cari e vecchi amici, è quanto di meglio un prete possa sperare. A me il buon Dio ha fatto questo splendido dono, per cui lo ringrazio cento volte al giorno. Per un vecchio prete che si avvia velocemente verso la novantina, che è conscio dei limiti di sempre e pure di quelli aggiunti dall’età, incontrare ogni domenica una comunità così cara ed attenta, è quanto di meglio un sacerdote possa desiderare. Però devo ammettere che talvolta, in particolare, la parola di Dio sembra calarsi come una dolce carezza che scalda il cuore e che aiuta a sentire quanto il buon Dio ci vuole bene e quanto sia bello camminare tenendoci per mano verso la Terra Promessa.

Già dal momento in cui ho cominciato a riflettere sul sermone da tenere fui avvolto da un’ebbrezza interiore che spero di aver trasmesso ai miei fedeli, così da aiutarli a fare una bella esperienza religiosa come dovrebbe avvenire ogni domenica.

Il sermone si è sviluppato su questi tre argomenti:

1) Gesù, con la sua partecipazione a nozze, abbraccia anche gli aspetti più festosi della vita. Ho notato da sempre, con perplessità, che la religiosità dei cristiani mostra sempre qualche reticenza e preoccupazione nei riguardi della felicità, dell’amore e del sesso. Ho capito finalmente fino in fondo che Gesù non la pensa così, infatti disse: «Sono venuto perché abbiate la gioia e la vostra gioia sia grande». Non bisogna temere, anzi dobbiamo godere appieno delle cose belle della vita, perché esse sono un vero e grande dono di Dio.

2) Gesù comincia la serie dei miracoli apparentemente con un “miracolo superfluo”, non strettamente necessario, e quindi ho riflettuto con la mia gente che anche i nostri involucri multicolori che avvolgono certi aspetti della vita hanno la loro importanza, che non si devono guardare con superiorità, ma anzi usare abbondantemente.

3) Gesù dona non solamente del vino, ma dell’ottimo vino, anche quando avrebbe potuto offrire un vinello da supermercato. La carità va fatta e va fatta bene, senza tirchierie, senza musi lunghi, ma spontaneamente e gioiosamente e con generosità.

A pensarci bene questi discorsi non sono quanto mai impegnativi, ma sembrava, quando li ho fatti nella predica, che i fedeli avessero scoperto l’America, tanto si è abituati, nel pensare comune dei credenti, alla legnosità, al negativo e alla paura del bello e di ciò che rende felice e gioiosa la vita.