Don Gallo

Alla sera ascolto il telegiornale mentre ceno con la televisione accesa, così mi pare di essere in compagnia, perché cenare da solo mi porta sempre un po’ di tristezza. Nella mia infanzia a tavola eravamo sempre una brigata: papà, mamma, sette fratelli, ed un tempo c’era pure il nonno.

Le notizie del telegiornale non sono purtroppo mai belle, eppure sono la vita della nostra società ed ascoltandole mi pare d’esserne immerso. Penso che un prete, se vuol essere “lievito”, debba sempre e comunque immergersi, almeno idealmente, nelle vicende del mondo in cui vive.

Mentre mangiavo la ricotta fresca mandatami dalla signora Luciana, quella che tiene la rubrica “Giorno per giorno” de “L’incontro”, fui attratto dalla voce del giornalista che pronunciò un paio di volte il nome di don Gallo. Alzai gli occhi dal piatto e riuscii a vedere la rapida carrellata di immagini con cui la televisione ha inquadrato la vita e soprattutto la testimonianza di questo prete sempre in prima linea, anzi fuori dalla trincea quale fu il prete dei bassifondi umani del porto di Genova.

Don Gallo è un mio coetaneo e con lui ho “fatto amicizia” attraverso la lettura dei suoi scritti un paio di anni fa. Per molto tempo avevo pensato a lui come ad un prete sovversivo facente parte della fronda ecclesiastica; poi, conosciutolo un po’ di più, ho capito che era “un prete da Vangelo”: onesto, schietto, libero, anticonformista ed innamorato degli uomini, specie di quelli che il mondo ecclesiastico considera fuori dalle righe e che qualche anno fa le gerarchie avrebbero “sospeso a divinis” e qualche secolo fa mandato al rogo.

Fino a ieri i cristiani allineati, tra i quali ci sono stato per molti anni anch’io, l’hanno guardato con sospetto, ma ora sono certo che in meno di un paio d’anni lo presenteranno come una delle bandiere al vento di cui si fregerà anche la Chiesa ufficiale.

Per Pasqua la mia “Beatrice” m’ha regalato l’ultimo volume di don Andrea Gallo, dal titolo in linea col personaggio: “Come un cane in chiesa”. Credo che non avrebbe potuto descriversi in un modo migliore. La signora Laura mi ha allegato al volume il biglietto che trascrivo perché offre una giusta pennellata per definire la mia recente “amicizia” con questo prete di frontiera.

Caro don Armando, immagino che lei non sappia più dove mettere i libri che le vengono regalati e non so dove trovi il tempo per leggerli. Penso che stia ancora gustando i testi sul cardinal Martini, perciò non si affanni a leggere questo. Ma quando un giorno avrà dato una scorsa – e non solo un’occhiata alle figure di Vauro, che sono simpatiche ma “strampalate” come l’autore – mi sappia dire che cosa ne pensa.
Il libro è recente, parla addirittura del governo Monti e don Gallo ha anche lui la sua bella età, 84 anni. E’ un prete particolare e su alcuni temi ha delle idee discutibili, incomplete, certamente controcorrente e più o meno “ingenue”, però credo che sia veramente un uomo di fede e un innamorato dell’uomo, un tipo che, come lei, non ama le sacrestie e che lavora, giorno e notte, fuori dalle trincee.
A me è piaciuto, fino all’ultima pagina. Con affetto e buona lettura!

Confesso che la notizia di questa morte non prevista del collega – non mi piace definirlo confratello perché è un termine che odora di sacrestia – mi addolora alquanto, mi sento più solo, sento di aver perduto un punto di riferimento quanto mai apprezzato.

Sono convinto che per la Chiesa italiana questa morte sia una grave perdita. Confesso pure che provo un senso di invidia per questo prete che ha avuto il coraggio di portare fino in fondo il suo cristianesimo da Vangelo e non da manuale, mentre io sono sempre rimasto a mezza strada.

Mi ripropongo di leggere il volume appena iniziato perché sono certo che la parola libera e schietta di questo “prete amico” mi farà molto bene.

“Lettera alla mia Chiesa che ha dimenticato Gesù”

“Lettera alla mia Chiesa che ha dimenticato Gesù”

La mia “amicizia” ideale con Ermanno Olmi, il famosissimo regista italiano, dura da moltissimi anni, almeno fin dal tempo dell'”Albero degli zoccoli”. Recentemente si è ancora rinvigorita col suo “Villaggio di cartone” e per alcune interviste ai giornali, sempre su temi di fede.

La mia simpatia è determinata da una “sintonia religiosa” veramente forte, tanto che le sue dichiarazioni fatte a mezzo della stampa e, in maniera ancora più esplicita, attraverso i suoi film, mi sono state sempre di tanto conforto ed incoraggiamento. Avere “dalla mia parte” un intellettuale ed un credente del genere, mi ha sostenuto, liberandomi, in qualche modo, da una solitudine ideale che spesso mi preoccupa e mi addolora.

Qualche giorno fa un volontario mi ha regalato un volumetto di Olmi che, fin dal titolo, mi ha incuriosito in maniera quasi morbosa: “Lettera ad una Chiesa che ha dimenticato Gesù”. Sto leggendo il volume, però sento il bisogno di riportare integralmente, fin da subito, la sua presentazione scritta sulla spalla della copertina, perché posso ritenerla come “manifesto” del mio credere oggi. Quando avrò finito il volume, ci ritornerò, perché le argomentazioni di Olmi e le sue analisi sulle “piaghe” della Chiesa odierna, mi paiono valide almeno quanto quelle più che note di Rosmini.

“Attinge alle emozioni più profonde questa lettera appassionata, e il suo autore, fra i più grandi cineasti viventi, non nasconde che forse disturberà gerarchie e devoti benpensanti, ma nella sincera convinzione che il nostro Occidente e la nostra Italia – sempre più piccola e incapace di grandi slanci – abbiano bisogno di un supplemento d’anima.

La Chiesa dell’ufficialità è sempre più lontana dagli uomini di questo tempo, il suo apparato ha esaltato la “liturgia del rito” dimenticando la “liturgia della vita”, ha aperto sportelli bancari anziché combattere l’idolatria del superfluo, ha fatto di se stessa un dogma svilendo la sacra libertà della coscienza. Questa progressiva lontananza dall’umanità è coincisa con un allontanamento da quel falegname e rabbi di Nazareth che con la sua vita ha suggerito l’unica strada della gioia: spendere senza sconti il bene prezioso della propria esistenza.

Nel rivolgersi alla Chiesa, Olmi chiama in causa anche altre “chiese”, che con la loro supponenza si sono allontanate dalla realtà: le “chiese” dei potenti, delle lobbies, degli pseudo-intellettuali e di tutti coloro che vorrebbero condannarci a consumare in perpetuo per sostenere sistemi ed economie che hanno divorato il patrimonio di nostra madre Terra nell’illusione che le sue risorse fossero illimitate.

Da sempre attento ai temi della religiosità, Olmi non disdegna di dire che la sua è frutto più del sentimento che della dottrina, perché «i sentimenti sono misteriosi, e hanno dentro più verità di qualsiasi ragionamento»”.

Tentativo di messa in rete

Il mio tentativo di premere perché “la carità” della Chiesa veneziana sia messa in rete ad esprimere in maniera sempre più esplicita ed evidente il volto e il cuore di Cristo verso i fratelli in difficoltà, è ormai un fatto scontato, o quasi, che non fa purtroppo più notizia.

Debbo confessare che i risultati di questi tentativi sono pressoché insignificanti. Da anni insisto perché tra tutte le strutture, i movimenti e le iniziative benefiche, o meglio solidali, si dia vita ad una federazione che raccordi, faccia interagire e parli ad una sola voce alla città e ai suoi reggitori, di tutto quello che riguarda la solidarietà. Da anni sollecito la nascita di un periodico che maturi nella Chiesa veneziana e nella città la cultura solidale, faccia conoscere l’esistenza e promuova ciò che ancora manca.

E’ da anni che spingo perché si crei un centro di coordinamento di studio, di programmazione, che organizzi al meglio e in maniera moderna l’esistente, e promuova ciò che ancora manca, cosicché le risposte ai bisogni siano rapide, puntuali, appropriate ed esaustive. E’ da anni che insisto perché si dia vita alla “Cittadella della carità”, perché ci sia un Centro in cui convergano i servizi essenziali e sia presente “il cervello e il cuore” della carità della diocesi.

Forse il prospettare la nascita di un mondo nuovo mette paura, tanto che essendo venuto a conoscenza di una iniziativa di un’associazione che raccoglie e distribuisce indumenti a chi ne ha bisogno, mi è venuto da sperare che “la politica dei piccoli passi” possa essere la vincente.

L’associazione di volontariato “vestire gli ignudi” nell’Italia settentrionale è di gran lunga la più significativa; infatti conta trentamila visite l’anno e gestisce l’ipermercato solidale che forse è il più efficiente anche a livello nazionale.

Notando un rallentamento di offerte di vestiti usati a causa della crisi ed un aumento delle richieste, sempre a causa della stessa crisi, è stato chiesto al Patriarca di destinargli almeno una parte della raccolta della Caritas che praticamente ha l’esclusiva del settore e che probabilmente vende a prezzi irrisori gli indumenti raccolti ad industriali di Prato.

Mi auguro che una risposta positiva segni l’inizio di una nuova “politica” di integrazione che spezzi la forma di individualismo esasperato che caratterizza questo settore.

Sempre e comunque con la gente

Mi rendo perfettamente conto che la mia maniera di fare il cristiano e il prete è molto profana, infatti io mi lascio coinvolgere dalla politica, mi ribello alla burocrazia del Comune, mi indigno perché quattro gatti a Venezia starnazzano come le oche del Campidoglio per le “grandi navi” che entrano in punta di piedi in bacino San Marco per “versare” un sacco di dollari alla città (è facile immaginare quanto possano spendere tre, quattromila persone in crociera e quali vantaggi ne abbia la città), come posso accettare che sindaco, giunta e consiglio comunale si lascino condizionare da questa gente irrequieta e campata in aria?

D’altronde, come posso starmene zitto ed in pace quando, essendosi aperta una piccola voragine in “via dei 300 campi”, strada percorsa ogni giorno da centinaia di bisognosi che vengono al “don Vecchi” per chiedere aiuto, quando ho richiesto l’intervento del Comune (1° aprile 2013), mi sono sentito rispondere: “Il Comune non ha soldi, bisogna attendere fino al 25 maggio per vedere se possiamo racimolare qualche euro; a quella data vi sapremo dire se possiamo intervenire o no”.

A me pare che un cristiano, e soprattutto un prete, non possa starsene a giocherellare con qualche avemaria, o a filosofeggiare sul sesso degli angeli!

Talvolta mi capita di leggere il pensare dolce, soave e mistico di miei colleghi; di primo acchito quasi mi sento un pesce fuor d’acqua, però un momento dopo mi ribello al pensiero di un cristianesimo angelicale, avulso dai problemi reali della vita.

Il nostro nuovo Papa mi ha confortato alquanto quando disse che i preti devono “odorare da pecore”, perché devono essere totalmente coinvolti dalla vita e dalle vicende del loro “gregge”.

Talvolta sono un po’ preoccupato per la mia solitudine ideale, ma poi decido, ancora una volta, di essere cristiano e prete che “puzza” dei problemi della sua gente.

La carità non è un costo ma un ricavo

Quarant’anni fa, quando decidemmo di aprire la mensa di Ca’ Letizia, uno dei problemi che maggiormente ci preoccupò fu quello di trovare i soldi per pagare la cena ai cento commensali potenziali. Per attenuare la preoccupazione, decidemmo di richiedere un piccolo compenso da parte degli ospiti. Partivamo infatti dall’idea che i concittadini che avessero voluto aiutare un povero, invece di arrischiare che questi andasse a bersi l’elemosina, prepagassero una cedola equivalente ad una cena.

La trovata funzionò solo in parte. Pochi cittadini infatti, per i motivi più diversi, aderirono all’iniziativa, mentre alcune parrocchie – quelle di via Piave, San Lorenzo e Carpenedo – acquistarono ingenti quantitativi di “buoni cena” che poi distribuivano in giorni prestabiliti ai questuanti che non mancano mai alla porta delle canoniche.

Quando iniziammo a distribuire i mobili, i vestiti, la frutta e verdura, partendo da questa esperienza ed aggiungendovi le considerazioni che la beneficenza arrischia di produrre assuefazione alla mendicità cronica e che invece fosse educativo, per creare una città solidale, che anche i poveri aiutassero chi è più povero di loro, abbracciammo la dottrina che “magari poco, ma ognuno deve dare qualcosa in cambio dell’aiuto ricevuto”. Questa dottrina portò alla conclusione che il “polo della carità” del “don Vecchi” (distribuzione vestiti, mobili, arredo per la casa ed altro) non solo non è passivo, ma in realtà risulta una delle voci più consistenti della Fondazione Carpinetum a cui vengono destinati i proventi dei magazzini. Adottai la stessa logica per il Foyer San benedetto, con lo stesso risultato.

Ora pare che il Patriarca desideri che la Chiesa mestrina crei una struttura di accoglienza notturna per chi è in disagio abitativo e penso che ci sia grossa preoccupazione per reperire i soldi necessari per fare la struttura, ma soprattutto ci sia la grave preoccupazione per il costo della gestione.

Sono convinto che se si adotterà la dottrina del polo solidale del “don Vecchi”, non solamente questo “albergo” per i senzatetto non peserà sulla diocesi o su chi lo vorrà condurre, ma dovrà invece diventare una voce attiva.

E’ tempo che si esca dalla vecchia mentalità assistenziale per aiutare ogni cittadino, ricco o povero, a “farsi prossimo” del fratello che incontra bisognoso sulla sua strada.

La puzza delle pecore è il profumo del prete

Sto divertendomi alquanto immaginando le reazioni dei sottili ed acuti docenti di teologia, di pastorale, di psicologia e di tutte quelle discipline ecclesiastiche che attengono al rapporto fra il sacerdote e la sua gente quando sento il nuovo Papa auspicare che i “pastori” puzzino di pecora.

Molto probabilmente sarà difficile che queste reazioni vengano a galla in maniera manifesta, che i giornali e le riviste cattoliche le riportino all’attenzione dei lettori; di certo invece rimarranno al chiuso, nella penombra dei conciliaboli degli addetti ai lavori che la vita e la gente la conoscono solamente dai libri.

Il Papa non ha usato circonlocuzioni o discorsi complicati per affermare che i religiosi e chi si occupa dei cristiani e della gente del nostro tempo, devono calarsi dentro a queste realtà, e non possono vivere segregati da esse dietro la siepe dell’orticello dei devoti, ma devono riprendere a diventare lievito che fermenta dal di dentro la pasta umana adoperando le parole, le vesti, i modi di essere e di porsi che siano dello stampo di quelli adoperati dalla gente di oggi.

Il Papa sta tentando di far saltare gli steccati, le balaustre, le distinzioni. Le avanguardie cristiane tutto questo l’han capito da tempo. Ci sono infatti abbondanti testimonianze di “operatori pastorali” che hanno scelto di vivere “con loro, per loro e come loro” per tentare di far maturare le potenzialità della gente, far fiorire quelle sementi che il Signore ha seminato con abbondanza nella coscienza di tutti.

Il problema ora è far si che anche “il grosso della Chiesa”, in tutte le sue articolazioni, si lasci coinvolgere in questa scelta ed esca dal chiuso, non solo di una mentalità estranea al modo di pensare dell’uomo di oggi, ma anche da un certo appartarsi, quasi sia timorosa di farsi influenzare da quello che Gesù definiva “il mondo”.

Oggi la Chiesa, nella figura del prete e dei cristiani più impegnati, deve presidiare il territorio, dialogare soprattutto con gli uomini reali e non quelli delle definizioni libresche, vivere accanto, partecipare alle problematiche attuali, lasciarsi coinvolgere. La Chiesa non può rifugiarsi in un mondo elitario, isolato dal resto del mondo. Già la rivoluzione francese aveva scalzato “il terzo stato”.

E’ un po’ particolare, però è quanto mai efficace la richiesta del Papa che i cattolici, e soprattutto i preti, siano impregnati dall'”odore della gente reale”!

La Chiesa dei poveri

Ho letto su “Gente veneta” che il nostro Patriarca ha espresso l’intenzione di creare a Mestre una struttura ricettiva per i concittadini che dormono in stazione, negli ingressi dei condomini o per strada. Ora si trattava di reperire il luogo e i mezzi economici per dar vita a questa nuova struttura, che poi sarebbe la prima che la Chiesa apre a Mestre.

Già in una pagina di diario di qualche settimana fa non solamente ho espresso tutto il mio consenso, ma pure mi sono azzardato ad offrire, pur non richiesto, dei suggerimenti. Quello di un’accoglienza dignitosa, civile e cristiana, è un problema di un’estrema gravità e di un’estrema urgenza.

Qualche settimana fa due giovani signore che attualmente lavorano al “don Vecchi” e alle quali abbiamo offerto, oltre al lavoro, anche un piccolo alloggio, in un momento di confidenza mi hanno raccontato come si sono inserite nella nostra città. Una delle due è entrata in Italia con un permesso turistico e l’altra è arrivata a piedi in venti giorni di cammino, dormendo nei fienili e chiedendo la carità. Una volta a Mestre ambedue han dormito un paio di mesi presso la stazione ferroviaria e mangiato a Ca’ Letizia e dai frati finché non riuscirono a trovare un lavoro. Oggi la situazione è certamente ancora più difficile di qualche anno fa per le donne che giungono dalla Moldavia, dalla Romania e dall’Ucraina e cercano di inserirsi nella nostra città. Per questo motivo riterrei che sarebbero necessarie due strutture: una con caratteristiche particolari per i senza fissa dimora che, per scelta, per incapacità o per malattia, sono senza tetto, ed una invece per le persone che hanno bisogno di un ambiente di prima accoglienza per inserirsi poi nel tessuto civile, avendone essi la volontà e la capacità di farlo.

A quanto si dice, ho la sensazione poi che versando la diocesi in un momento finanziario difficile, ci sia una preoccupazione di imbarcarsi in nuovi debiti. Però, se questa situazione riguarda la diocesi, non è la stessa cosa per le parrocchie che, se invitate con la richiesta di quote ben precise da parte della Chiesa veneziana, potrebbero sobbarcarsi questo impegno. La Chiesa dei poveri o batte questa strada, oppure non va da nessuna parte e si riduce ad una farsa controproducente.

Quali sono le strutture religiose?

Recentemente ho sentito parlare di una struttura per anziani gestita da un ente religioso che si trova in grosse difficoltà. Si trattava di vedere come poteva essere salvata.

In quell’occasione ho riflettuto più serenamente del solito sui criteri per i quali una struttura merita di essere sostenuta dalla Chiesa, perché se un ente religioso si muove con gli stessi criteri adottati dallo Stato, dal Comune, oppure da una qualsiasi impresa e con cui essi perseguono le stesse finalità, credo che proprio non valga la pena di tentare il salvataggio.

Ha senso che la Chiesa si impegni solamente se riesce ad offrire servizi migliori con minimi costi, se è più attenta ai bisogni delle persone, se accoglie e garantisce anche ai più poveri un trattamento ottimale, se riesce a coinvolgere il volontariato, se offre soluzioni innovative, ma se il risultato fosse una casa di riposo come tutte le altre non varrebbe proprio la pena che la Chiesa impegnasse uomini e forze per fare una concorrenza assurda; peggio ancora non sarebbe giustificato alcuno sforzo se la gestione fosse claudicante, così da produrre debiti piuttosto che aspetti positivi.

Io ho sempre considerato la Chiesa come una mosca cocchiera che apre orizzonti nuovi e migliori, che trova soluzioni più economiche e più attente alla persona, che copre spazi scoperti e che quando ha dato la sua bella testimonianza di solidarietà si mette da parte passando la mano alla società civile rivolgendosi poi a settori in cui c’è bisogno che qualcuno con coraggio e generosità si impegni a favore di chi è dimenticato da tutti e che rimane in balia degli eventi.

Oggi, ma credo sempre, ci sono spazi abbandonati a se stessi; che non avvenga che pure la Chiesa e le sue articolazioni puntino solamente là dove si tratta di guadagnare più facilmente e con meno rischi.

Cattiva traduzione del messaggio

Nelle domeniche dopo Pasqua la Chiesa offre ai fedeli pagine del Vangelo di Giovanni. Io, che non mi muovo sulla stessa lunghezza d’onda di questo evangelista, sono costretto a riflettere in maniera più impegnata perché amo quanto mai la concretezza, mentre Giovanni è un mistico che si muove in altezze per me siderali.

Quest’anno, per la prima domenica dopo Pasqua, ho riflettuto più a lungo, ed in modo più faticoso, sulla pagina di Giovanni che riporta le parole di Gesù nel cenacolo: «Vi do un comandamento nuovo, che vi amiate gli uni gli altri». Sono arrivato, una volta ancora, alla conclusione che il cuore del messaggio di Gesù è la solidarietà, ossia un amore concreto, nonostante tutte le difficoltà. L’utopia di Gesù credo che abbia come obiettivo sostanziale la solidarietà; infatti Cristo afferma che dal modo in cui sapremo vivere questa virtù si potrà misurare la nostra adesione al suo messaggio.

Purtroppo l’interpretazione di questo discorso che s’è data lungo i secoli spesso è stata quanto mai svisata e difforme. Infatti anche oggi nell’opinione corrente, da un lato si è interpretato l’impegno alla solidarietà in maniera limitata, così da ridurre questa utopia angelica ad “elemosina”, ossia la destinazione ai fratelli di spiccioli del superfluo e, dall’altro lato, sempre per motivi di comodo, s’è praticamente fatta passare l’idea che la qualifica di discepolo di Cristo la si guadagni solamente con la partecipazione ai riti religiosi.

Certa casistica al riguardo è una riprova di questa pessima ed assurda interpretazione del messaggio cristiano. Fino a pochi anni fa si discuteva infatti sulla percentuale di superfluo dovuto ai poveri, tanto da arrivare a dire che il due per cento era la misura sufficiente, e dall’altro lato era aperta una discussione vivace sui limiti del tempo necessari per la validità della partecipazione al sacro rito dell’Eucaristia.

Credo che siamo ancora ben lontani da una seria traduzione pratica del “comandamento nuovo” datoci da Cristo.

“Piazza Maggiore”

Oggi qualcuno ha deposto sul “tavolo cortesia” della grande hall del don Vecchi una decina di copie di “Piazza maggiore” n° 43 del 23 aprile. “Piazza maggiore” è il periodico della parrocchia del duomo di San Lorenzo di Mestre, che passa contenuti e dialoga con l’intelligentia della città e la civica amministrazione. Il giornale-rivista, che esce periodicamente ma con una certa frequenza, è un periodico di grandi dimensioni, pressappoco ha il formato de “Il manifesto” di un tempo e per la maggior parte è dedicato ogni volta ad un tema particolare, senza però trascurare aspetti significativi della vita della comunità cristiana del duomo.

Il direttore è “don Fausto”, monsignor Bonini, che però si avvale sempre di firme di giornalisti seri o di personalità significative della città. La parrocchia del duomo pubblica anche un foglio settimanale, “La Borromea”, per l’informazione spicciola di questa comunità estremamente articolata; usa inoltre con disinvoltura quel vasto e variegato nuovo mondo del digitale che io, che appartengo ormai al “Piccolo mondo antico”, conosco solo in maniera approssimativa, ma del quale la parrocchia di San Lorenzo fa uso abbondante e con tanta dimestichezza.

La lettura dell’ultimo numero di “Piazza maggiore” mi porta a due considerazioni, di cui ho già parlato, ma su cui sento il bisogno di ritornare perché ritengo che la Chiesa veneziana e le relative comunità parrocchiali, come pure la direzione diocesana, non siano coscienti di avere in diocesi una comunità con una strutturazione pastorale e dei mezzi di comunicazione che sono in assoluto i più avanzati e i più rispondenti ad una impostazione pastorale moderna.

Io sono un prete fuori gioco e “vecchio”, come mi ha definito il Patriarca, quindi non ho alcun interesse da difendere e perciò per questo ritengo di essere credibile. Ebbene penso che l’impostazione pastorale della parrocchia di San Lorenzo sia in assoluto la più aggiornata e la più attenta alla nuova società che si affaccia alla ribalta del nostro tempo.

Conosco anche altre belle ed efficienti parrocchie, che però si rifanno ancora a vecchi schemi ormai usurati o perlomeno non aggiornati sui nuovi modelli di società organizzata. Ho l’impressione quindi che la diocesi di Venezia possegga una “fuori serie”, una “Fiat cavallino rosso”, che potrebbe essere punto di riferimento anche per tutte le altre comunità, mentre mi pare che rimanga isolata, ignorata e poco conosciuta.

Spero che queste umilissime note possano destare il meritato e doveroso interesse.

Un Papa troppo pastore

Il nuovo Papa sta riscuotendo, ogni giorno di più, la simpatia e l’entusiasmo dei fedeli per la sua semplicità, il suo calore umano e le sue scelte pastorali che si rifanno ad una Chiesa povera per i poveri. Le sue decisioni, il suo parlare semplice e comprensibile e i suoi gesti stanno smontando ogni giorno di più l’immagine di un Papa monarca, o di un Papa teologo che parla con parole e concetti assolutamente incomprensibili. Ho l’impressione che Papa Francesco scelga di fare il vescovo di Roma come fino a qualche giorno fa ha fatto il vescovo di Buenos Aires, la città caotica con le periferie povere e disastrate.

Già scrissi che ho sentito perfino Pannella parlare bene del nuovo Papa. Tuttavia questa mattina, mentre mi recavo con la mia Punto a celebrare nella “cattedrale tra i cipressi”, ascoltando Radio radicale, nel corso della rassegna stampa il giornalista ha riportato il pensiero di un teologo, che lui diceva essere un docente di una delle università cattoliche di Roma.

Il giornalista, che di certo era un laico, come lo è il corpo redazionale di questa emittente, riportava per filo e per segno una critica dura, puntigliosa e saccente con cui questo teologo condannava quello che, secondo lui, sapeva di pauperismo popolare ed era privo di contenuti teologici, come si conviene al capo di una delle religioni più importanti del mondo.

Me l’aspettavo che, prima o poi, saltasse fuori qualcuno di quei cristiani sofisticati che sono soliti discutere sul “sesso degli angeli” e che offrono un pensiero teologico avulso dalla realtà ed assolutamente incapace di trasmettere il messaggio cristiano che parli al cuore e alla coscienza dell’uomo della strada. Il giornalista riportava il nome e il cognome di questo “professore” che penso abbia la pretesa di insegnare anche a Dio.

Questa è la prima critica feroce che vengo a conoscere, però temo che ben presto vi saranno molti altri individui, che ora si sentono spiazzati dallo stile evangelico di Papa Francesco, che taglia loro l’erba sotto i piedi. A me il Papa piace così, spero che tutti i cristiani normali la pensino alla stessa maniera.

Preti in pensione

Io vivo, a livello formale, molto marginalmente la vita pastorale della città. In realtà però mi lascio coinvolgere fin troppo dalle vicende delle parrocchie, soprattutto di Mestre.

Ogni tanto mi giungono delle notizie veramente preoccupanti. Qualcuno mi ha informato che durante l’anno in corso dovrebbero andare in pensione, per raggiunti limiti di età, don Rinaldo Gusso, parroco di San Pietro Orseolo, don Franco De Pieri, parroco a San Paolo di via Stuparich, don Angelo favero e monsignor Fausto Bonini del duomo di San Lorenzo. Le prime due parrocchie che rimarranno presto vacanti potrebbero essere inglobate: alla comunità di Carpenedo o l’altra a quella di San Lorenzo, magari creando due piccole comunità di sacerdoti che si facciano carico anche degli spazi lasciati liberi dai neopensionati. Così facendo si renderebbe più razionale l’organizzazione parrocchiale, eliminando servizi doppi, utilizzando in maniera più razionale i sacerdoti, e creando un’organizzazione parrocchiale aggiornata con un maggior utilizzo del volontariato, magari assumendo qualche operatore pastorale che sbrighi tutte quelle pratiche e guidi quei servizi che sono inerenti ad una comunità cristiana.

Quello che invece mi desta maggiore preoccupazione è la sostituzione del parroco della comunità cristiana del duomo. San Lorenzo non è solamente la parrocchia centrale, a cui idealmente fa capo la città, ed è ancora una parrocchia particolarmente numerosa, ma soprattutto sono convinto che questa parrocchia sia attualmente il punto di riferimento per le altre comunità cristiane della città.

Monsignor Bonini ha creato, in non moltissimi anni, una parrocchia modello, come strutturazione parrocchiale ed ha posto in atto un tipo di pastorale di avanguardia che dà risposte globali atte a rispondere alle attese dei parrocchiani. Attualmente la parrocchia del Duomo penso sia l’unica comunità cristiana della nostra città capace di dialogare con la cultura, con la società civile, col mondo dell’arte, dello spettacolo, ed abbia approntato strumenti di comunicazione sociale quanto mai efficienti.

A questo riguardo, già qualche tempo fa ho presentato il prontuario che quella parrocchia pubblica ogni anno, per rendersi conto dell’estrema articolazione ed attualità delle sue proposte pastorali.

Qualche settimana fa ho visitato la canonica e mi sono reso conto di come il suo piano terra rappresenti il centro nevralgico estremamente moderno e funzionale della pastorale parrocchiale. Sono veramente preoccupato che venga a mancare la mente pensante di questa parrocchia che rappresenta la mosca cocchiera ed il riferimento stimolante per le altre parrocchie di Mestre.

Mestre, terra di missione senza missionari

Qualche settimana fa ho scoperto un nuovo settimanale di matrice cristiana: “A sua immagine” e l’ho presentato ai miei amici descrivendo i pregi e i limiti di questo periodico che calca le orme del più famoso e diffuso “Famiglia Cristiana”. In quella occasione mi sono permesso di aggiungere qualche nota sul primo e sul secondo settimanale.

Famiglia cristiana in questi ultimi anni ha avuto un calo considerevole di copie, si presenta con una veste tipografica e con un’impostazione redazionale più sofisticata e soprattutto s’è decisamente schierata a sinistra.

Il nuovo periodico invece è di taglia più popolare, presenta il commento della liturgia quotidiana, pubblica a puntate un romanzo di ispirazione religiosa e soprattutto presenta una serie notevole di testimonianze di persone del nostro tempo che parlano apertamente della loro fede. Un limite mi pare sia quello di presentare articoli un po’ prolissi e il “mistero” della dicitura sulla copertina della rivista: “La rivista ufficiale Rai 1”! Penso che utilizzi il materiale usato nella rubrica di carattere religioso che viene trasmessa ogni domenica da quel canale televisivo.

Questa settimana però è apparsa in edicola un’altra rivista: “Credere”. Stesso formato, stesso contenuto, anch’essa edita dalle Paoline, come Famiglia Cristiana.

Mi ha alquanto stupito questa sovrapposizione diretta alla stessa frangia di lettori. Quanto non sarebbe stato più opportuno che questi periodici si rivolgessero a pubblici diversi, o si accorpassero per abbattere i costi e migliorare i contenuti!

Purtroppo il mondo cattolico non pare avviarsi alla sinergia oggi estremamente necessaria. Ci sono mille ordini religiosi, talora sparuti, che si fanno concorrenza e sopravvivono stentatamente offrendo contenuti e proposte scadenti. La stessa cosa sta avvenendo ora per i settimanali.

Questa “scoperta” non esaltante mi ha portato a pensare ai periodici parrocchiali della nostra città, ove il degrado è desolante e la sovrapposizione ancora più assurda. La ventina di periodici parrocchiali a fatica può interessare, molto marginalmente, solo una frazione della stessa piccola parte di praticanti, offrendo loro informazioni e proposte di infima qualità e pochissimo appetibili.

Per me è angoscioso pensare che al massimo il 15 per cento dei concittadini vengono raggiunti o dalla predica domenicale del parroco o dal foglietto parrocchiale. Mi chiedo come si concilia il discorso di Gesù della “pecorella smarrita con l’85 per cento dei cristiani oggi assolutamente abbandonati a se stessi. Che non sia mai venuto in mente alla dirigenza di stampare un periodico, pur modesto, perché sia mandato, ogni settimana ad ogni famiglia della città! Spero che non si perda anche l’occasione dell’anno della fede per realizzare qualcosa del genere!

Scalfari e i cardinali

Il solito magistrato in pensione, che mi onora della sua amicizia e frequenta la mia chiesa, probabilmente vedendo quanto mi interessano i pensieri del compianto cardinal Martini e l’uso che ne faccio nelle mie omelie, recentemente mi ha regalato un altro volume che riporta alcune conversazioni tra il famoso giornalista, fondatore di Repubblica, Eugenio Scalfari e il cardinale di Milano. Queste conversazioni hanno avuto luogo nella casa di riposo dei Gesuiti di Milano, quando Martini era già in pensione da anni e il suo stato di salute era molto precario perché minato dal Parkinson.

Scalfari, che da sempre si dichiara laico ed ateo, pone delle questioni al cardinale su tematiche esistenziali, ecclesiali e sociali. Quello che mi ha alquanto sorpreso è la delicatezza, quasi la tenerezza con le quali interroga il cardinale, più giovane di lui di qualche anno.

Io ho conosciuto Scalfari leggendo i suoi editoriali: decisi, acuti, spesso taglienti e di una ironia sferzante, ma soprattutto in un dibattito, sempre su temi religiosi, che qualche anno fa questo giornalista ha avuto a Cortina su iniziativa di quella prestigiosa comunità montana. In quell’occasione Scalfari era stato impietoso, facendo degli “affondo” di una durezza spietata, tanto che non gli avevo perdonato di avere letteralmente umiliato il nostro Patriarca, non solo con la sua notevole bravura dialettica, ma usando perfino sarcasmo nei riguardi delle tesi portate avanti dal nostro cardinale il quale fu ridotto in visibile affanno, tanto da arrancare penosamente.

M’aspettavo qualcosa del genere anche con Martini, invece no: ha posto le domande con una delicatezza e con sommo rispetto, convenendo con lui su quasi tutto. M’è sembrato del tutto aperto al dialogo e in ricerca sincera di tutti gli elementi che potevano essere condivisi.

Di certo Martini si comportò con una calda ed umile umanità, mai impalcandosi a maestro, ma offrendo sempre le sue proposizioni, confessando le debolezze della Chiesa e i suoi dubbi, proponendosi come un umile ricercatore della verità. Mai una condanna, mai un’affermazione perentoria!

Leggendo questo volume mi è parso di capire che la cultura del nostro mondo non può considerarsi ostile e nemica del messaggio cristiano, anzi mi è parsa un filtro per purificare ed inverare il pensiero cristiano nel nostro tempo.

Papa Giovanni, che di saggezza ne aveva molta, aveva veramente ragione quando affermò che “sono molto più i punti che uniscono di quelli che dividono tra credenti e non!”.

Finalmente una buona notizia

“Gente Veneta”, il settimanale della nostra diocesi, arriva al “don Vecchi” il venerdì in tarda mattinata. Venerdì scorso, come sempre, l’ho sfogliato velocemente per apprendere le notizie di maggior rilievo ed anche per essere un po’ confortato: perché mentre sul Gazzettino non trovo che titoli che mettono in luce tutte le magagne della nostra città – che sono pressoché infinite – nel settimanale diocesano pare che le parrocchie, il vescovo e le associazioni cattoliche passino di trionfo in trionfo! “Gente Veneta” me lo tengo appresso perché mi è di conforto il poter apprendere che nel patriarcato di Venezia è eterna primavera.

Venerdì scorso dunque diedi un’occhiata ai vari titoli e mi soffermai un istante sul titolo a quattro colonne in prima pagina: “Il Patriarca: ricordiamoci i poveri!”. Ma soprattutto l’occhiello destò il mio interesse; diceva infatti: “per i senza fissa dimora un nuovo dormitorio a Mestre”. La cosa mi incuriosì quanto mai e andai immediatamente a pagina 10 alla quale rimandava il “titolo civetta”.

Sopra una foto a cinque colonne in cui è ripreso il Patriarca a Betania (la mensa dei poveri di Venezia) il giornalista riportava le parole del nostro vescovo: «Vorrei accrescere l’accoglienza che diamo in terraferma per quanto riguarda il dormitorio. Cercherò di fare in modo che nei prossimi mesi si individuino gli spazi e si reperiscano i fondi per realizzare una nuova struttura di accoglienza per la notte per una ventina di persone».

La mia prima reazione è stata: “Finalmente!” La seconda: “A Mestre non si farà una `nuova struttura’, perché quella sognata sarà la prima in assoluto! Perché al di fuori dei Centri don Vecchi, che attualmente mettono a disposizione 315 alloggi per gli anziani poveri, e la parrocchia di via Aleardi, che offre ospitalità per una settimana alle badanti che vengono dai Paesi dell’est, la Chiesa veneziana non offre nient’altro”.

Il mio terzo pensiero: “Speriamo non si pensi a un dormitorio come quello gestito dal Comune in via Santa Maria dei Battuti, perché quello, nonostante tutta la buona volontà di Chimisso e degli attuali gestori, è una struttura di stile ottocentesco assolutamente sorpassata”.

E ancora: “Speriamo che si riuniscano tutti gli esperti del settore, ma soprattutto coloro che si occupano positivamente di queste cose per sentire il parere di tutti”.

E non è finita: “Venti posti sono assolutamente pochi, bisognerebbe arrivare almeno a cinquanta”. “La struttura a cui puntare dovrà essere quella di un albergo, per quanto modesto”. “La gestione non solo non deve pesare sulla diocesi, ma anzi deve essere attiva se si vuole che essa continui. A questo riguardo noi del “don Vecchi” avremo più di un consiglio da offrire”.