Evoluzione positiva

A questo mondo ci sono stati i “Laudatores cantores temporis acti”, cioè chi loda, rimpiange il passato ed auspica che ritorni. Credo che anche i romani abbiano notato e certamente non approvato questo comportamento.

Il mondo religioso in specie, credo che sappia di questa sindrome del rimpianto della religiosità dei vecchi tempi. Ricordo un bellissimo passo di don Mazzolari che afferma che Dio non si incontra più neppure nelle bellissime cattedrali gotiche, nella religiosità di secoli passati in cui sembrava che tutto il popolo, nessuno escluso, fosse credente.

Ricordo di aver letto gli atti di una visita pastorale del cardinal Flangini nelle parrocchie veneziane; a parte che sembrava che al vescovo interessasse esclusivamente il numero di tovaglie e di che tessuto fossero, in ogni parrocchia i parroci riferivano che chi non faceva la Pasqua erano 10 o 14 cristiani. Comunque, tornando a Mazzolari, nel passo suddetto affermava che gli uomini possono incontrare Dio e suo figlio Gesù solamente nel futuro, nel mondo che si sta facendo.

Oggi i cristiani convinti, quelli solamente battezzati o comunque anche gli uomini di cultura cristiana, sono di certo sostanzialmente più religiosi di quelli dei secoli nei quali sembrava che il cristianesimo si imponesse in tutti gli ambiti.

RIcordo un episodio che la dice lunga al riguardo. Un uomo dice al suo nemico: «Bestemmia, altrimenti ti uccido». Una volta che costui cede alla violenza, lo uccide, pensando così di non avergli tolto soltanto la vita terrena, ma di averlo anche privato della vita eterna. Che cristianesimo è mai questo?

L’uomo di oggi, credente o meno, ha assimilato certi valori che sono essenzialmente cristiani, quali il senso della dignità, della libertà, della democrazia, della giustizia, della parità tra uomo e donna, della solidarietà e tanti altri valori che nel cosiddetto “popolo di Dio” descritto nella Bibbia sono assolutamente ignorati, ma anche nei tempi della cristianità erano meno presenti sia nei singoli che nella coscienza collettiva.

Certi preti, certi cristiani, cosiddetti “impegnati”, non hanno ancora capito che l’avvento del Regno non si realizza quando le messe sono più frequentate o più cittadini fanno la Pasqua, ma quando per motivi di fede, ma pure per qualsiasi altro motivo, altri – perfino gli indifferenti, gli agnostici o gli atei – aderiscono e praticano nella sostanza la proposta del Vangelo.

Per un prete è certamente confortevole vedere la chiesa piena, però se chi riempie la chiesa non è alla ricerca consapevole o inconscia del Regno, questo varrebbe veramente poco. Forse è tempo di cominciare a leggere in maniera più critica la risposta che l’uomo oggi deve dare a Dio.

La “serrata” delle chiese

Ormai da più di un anno a questa parte sulla stampa cattolica non sento che enfatizzare il problema degli ipermercati che, nonostante le proteste delle commesse, dei sindacati e dei preti, rimangono aperti anche alla domenica, giorno sacro al riposo e al Signore, mentre queste catene di ipermercati, sempre a caccia di clienti, insistono nel tener aperto anche alla domenica.

Non sono proprio io a difendere le posizioni degli ipermercati anche se, per onestà, debbo ammettere che tantissime altre categorie di dipendenti dall’epoca dell’industrializzazione lavorano con buona pace di tutti, giorno e notte e tutti i santi giorni dell’anno. Comunque onestamente credo che potremmo vivere e le botteghe potrebbero prosperare nonostante la chiusura domenicale: chi ha soldi per comperare lo farebbe comunque.

Quello che invece mi stupisce è che, mentre c’è questo zelo da parte delle industrie per accaparrarsi qualche cliente in più, nessuno protesta per la “serrata” quasi completa delle chiese della nostra città durante i giorni feriali e parziale in quelli festivi. Pare che i preti siano ben paghi di quel 10, 20 per cento di battezzati che vanno a messa la domenica.

A Venezia dicono che hanno il problema delle opere d’arte che rimarrebbero incustodite, però a Mestre questo problema non c’è perché non ci sono opere d’arte; ci sarà forse qualche cassetta dei lumini o delle candele, ma non ci sono “tesori” da rubare.

A parte gli scherzi, il fatto delle chiese chiuse mi preoccupa, ma ancora di più mi preoccupa che nessuno protesti perché si chiude dietro i catenacci quel Gesù che solo può confortare nei momenti di tristezza e di prova. Non vorrei essere accusato ancora una volta di autoreferenzialità affermando che a Carpenedo la chiesa, quando c’ero io, era aperta dalle sette del mattino alle sette di sera ed ora la stessa cosa vale per la mia “cattedrale tra i cipressi”, senza problemi di sorta.

Contropelo

Nella Chiesa le proposte si susseguono con ritmi assai sostenuti. Specie quelli che sono gli “addetti ai lavori”, specialisti in teologia, in esegetica o semplicemente in pedagogia, elaborano piani, progetti ed iniziative di carattere pastorale a getto continuo. Io però ho spesso la sensazione che essi assomiglino ad un locomotore ultimo modello, elefante assai veloce che sfreccia sempre più rapido. Il guaio però è che mi sembra che i vagoni dei viaggiatori, come pure i carri merce – non so per quale motivo – si siano sganciati e rimangano fermi sulle rotaie, anzi rischino di retrocedere per forza d’inerzia.

Stiamo terminando “l’anno della fede”, ora non so quale altro aspetto del vivere cristiano sarà proposto al popolo di Dio, ma il grosso della Chiesa, nonostante le sottigliezze degli esperti e i loro artifici, rimane fermo, anzi talvolta ho l’impressione che retroceda constatando fatti concreti che sono sotto gli occhi di tutti: più della metà dei giovani non si sposano più in chiesa, i confessionali fanno le ragnatele, i bimbi non battezzati sono sempre più numerosi; per non parlare dei separati, dei divorziati, della morale per i fidanzati, gli sposati, che corre su un binario proprio, non certo quello proposto dalla catechesi. La partecipazione alla messa festiva non arriva al venti per cento dei battezzati ed altro ancora.

Nelle inchieste fatte fare dai giornali si viene a sapere che anche nel nostro Veneto, che è considerato la Vandea d’Italia, si fa sempre più strada una “religione fai da te”…., dove ognuno si costruisce dei principi, la morale che più gli aggrada. La religione ufficiale rimane ferma e immobile, mentre la religiosità del popolo sta orientandosi per conto proprio, accettando ancora, in maniera formale, i riti cristiani, vivendo come ad ognuno aggrada, orientandosi a vista, senza ribellioni e ammutinamenti di sorta, senza crisi interiori; comunque il divergere è sotto gli occhi di tutti. Non ci sono scismi o eresie, però si ha l’impressione che ormai siano sempre meno i fedeli che seguono “gli ufficiali”.

Già dissi in passato che secondo me bisognerebbe ripensare il tutto, proporre la sostanza con nuove modalità, anche perché il modo di vivere la fede oggi mi pare ben diverso da quello dei tempi delle prime comunità cristiane che avevano una religiosità ben più essenziale e meno sofisticata.

Io che non ho di certo le qualità del riformatore, per ora mi limito ad auspicare e pregare per chi potrebbe salvare l’essenziale e buttare a mare “la zavorra”.

“Come un cane in chiesa”

Ho terminato di leggere in questi giorni l’ultimo volume di don Andrea Gallo, il prete dei bassifondi di Genova morto solamente un paio di mesi fa.

A cominciare dal titolo “Come un cane in chiesa”, per continuare con la scelta di alcune pagine del Vangelo che don Gallo commenta ed attualizza, s’avverte immediatamente la volontà di questo prete di vivere l’autentica e genuina “rivoluzione” portata da Gesù e la libertà che questo sacerdote si ritaglia per dare credibilità al suo impegno di occuparsi degli ultimi: drogati, prostitute, transessuali, “rifiuti” della nostra società e della nostra Chiesa spesso perbenista.

Don Gallo, senza tante perifrasi e con poco garbo, afferma che i veri “poveri” del nostro mondo nelle nostre parrocchie hanno la stessa considerazione e lo stesso trattamento che noi usiamo verso i cani, quando per caso entrano in chiesa. A leggere poi tra le righe, ho avuto la sensazione che pure don Gallo si sia sentito riservare lo stesso trattamento, lui che aveva abbracciato senza riserve questi “rifiuti umani”.

Don Gallo sceglie lucidamente le pagine più innovative e più “rivoluzionarie” del Vangelo di Gesù e le commenta senza usare circonlocuzioni diplomatiche per dire quello che pensa, tanto che spesso, per i suoi commenti, usa parole pesanti come pietre, facendo si che il lettore senta mordere sulla carne viva il discorso e la proposta del Vangelo.

Il volume è uscito nel 2012, quindi può essere considerato il “testamento spirituale” di questo prete che oltre ad amare e servire i poveri, ha sempre tentato di ascoltare i margini di verità e di Vangelo che sono presenti anche negli intellettuali e negli uomini della fronda. Come vorrei poter fare anch’io un testamento del genere e come sognerei che tra le decine di migliaia di preti operanti nel nostro Paese ci fossero tanti don Gallo in più!

Sant’Antonio a Ca’ Solaro

Io finisco sempre per innamorarmi delle cose che faccio. L’ultimo “amore” è il borgo di Ca’ Solaro. Il fatto che una piccola comunità immersa nel verde della nostra campagna non si sia rassegnata a vivere senza prete e senza momenti religiosi comunitari, è qualcosa che mi tocca profondamente.

Io mi reco a Ca’ Solaro una volta al mese, il primo venerdì. Di questo piccolo borgo mi piace un po’ tutto: la chiesetta pulita e ordinata, il signor Papa che funge da “diacono” e da punto di riferimento per le funzioni religiose, i fiori colti nel campo che trovo freschi sull’altare per la messa, le tovaglie bianche e lavate da poco, le signore che leggono i passi della sacra scrittura e cantano come se tutto il mondo le stesse ad ascoltare, e la piccola comunità di una trentina di persone – donne, anziani e qualche giovane – che ogni mese si presenta puntualmente senza bisogno che suoni la campana, visto che ora è a riposo perché si è rotto il castelletto. E poi mi piace quel clima familiare e discreto che incontro ogni volta, che mi offre un senso di intimità e di famiglia.

Il giorno di Sant’Antonio poi c’è stato quasi un pontificale: ha celebrato il parroco, don Michele, ed io ho fatto da assistente. Il coro, formato da elementi di San Pietro Orseolo, di Favaro e di Ca’ Solaro, ha animato la messa, la chiesa si è riempita come non mai di parrocchiani di Ca’ Solaro e di oriundi.

Dopo la messa il rinfresco sul sagrato con dolci fatti dalle donne del paese e vini dei vigneti di questa campagna fertile e generosa. Ho ritrovato finalmente il clima dei tempi andati, quando il mio vecchio parroco mi portava come chierichetto nelle frazioni del mio paese natio per la celebrazione della santa messa.

Le parrocchie della città, almeno quelle che io conosco e frequento, sono belle, efficienti ed animate, ma a Ca’ Solaro trovo qualcosa di più caro; sembra proprio una comunità al naturale per la cordialità, il clima affettuoso e semplice, una religiosità elementare e genuina, senza fronzoli e sofisticazioni. Ringrazio ogni volta il buon Dio che mi riporta alle esperienze lontane che hanno maturato la mia fede e la mia vocazione.

Il Papa della rivoluzione evangelica

Il popolo pare che, magari inconsciamente, subisca sempre più il fascino di Papa Francesco, e lo senta come un apostolo che riconduce i fedeli e la Chiesa allo “stile di Gesù”. Mi pare che non ci sia più incontro al quale non partecipino folle sempre più numerose. Forse il parlare semplice, senza tante elucubrazioni teologiche, il calore umano che sprigiona dal suo modo di rapportarsi con la gente, la semplificazione nel vestire, il ridurre al minimo vesti, ritualità e preghiere, la proposta di un Dio ricco di bontà e di misericordia reale, l’abbandono dei testi scritti che risultano sempre sofisticati e difficilmente capaci di andare al cuore, soprattutto l’assunzione dello stile del linguaggio e del comportamento della gente normale, tutto questo lo mette in sintonia con il sentire della gente del nostro tempo.

Certe scelte poi di non abitare più negli appartamenti che sono stati costruiti per il “Papa re”, la critica aperta alla Chiesa arroccata nella sua sacralità e prigioniera di consuetudini, tradizioni e soprattutto del protocollo; il discorso reso credibile dal suo passato e vivo nel suo presente, sulla povertà della Chiesa, sul rifiuto di un inquadramento gerarchico, su carriere pressoché automatiche e certi accenti quanto mai decisi nei riguardi di qualcosa che non ha proprio nulla a che fare con il Vangelo, sono tutti fatti che pare stiano promuovendo una profonda rivoluzione nei riguardi di una Chiesa troppo strutturata, che lascia poco respiro alla radicalità evangelica, per un nuovo stile di Chiesa.

La mia sensazione poi è che il nuovo Papa scelga di dare una testimonianza personale sul tipo di Chiesa che si correla alla comunità umana in cui è inserita, che preferisca fare il pastore della Chiesa di Roma piuttosto che il pontefice che governa direttamente attraverso i suoi ministeri la Chiesa universale, dando quindi più autonomia alle realtà diocesane che meglio possono adattare il messaggio evangelico al loro popolo.

Il Papa sta sottomettendosi a ritmi tanto intensi per dare un volto ed un respiro nuovo al cattolicesimo. Mi auguro tanto che egli regga a questa fatica immane e senta che i cristiani di Roma e del mondo sono con lui perché, nonostante tutto, avvertono che soltanto lo stile evangelico può dare risposte al bisogno di autenticità che tutti sentiamo.

La visitazione

Le feste della Madonna offrono sempre al mio animo un dolce sentimento che profuma di famiglia e di calda maternità. In questa cornice ed in questa atmosfera questa mattina ho celebrato la festa della Visitazione, ossia il caro “mistero” cristiano che fa memoria dell’aiuto offerto dalla Vergine Maria all’anziana cugina Elisabetta.

Il lontano ricordo dell’ode con cui Alessandro Manzoni racconta poeticamente questo evento, forse mi ha sempre aiutato ad avvolgere di incanto e di poesia questo episodio della vita della Madonna. Non ricordo esattamente le parole con cui l’autore dei “Promessi sposi” descrive questo evento, ma ho ben presente l’atmosfera dolce, incantata e ricca di poesia che sprigiona dall’ode manzoniana. Ho negli occhi, bella e fresca, l’immagine di questa ragazza che già sente ineffabile la presenza del figlio che sta germogliando nel suo grembo, mentre prende il sentiero della montagna e che, con passo lesto e leggero, va ad offrire il suo aiuto e dire la bella notizia che le canta nel cuore, alla sua anziana cugina bisognosa di aiuto. Com’è poi un’esplosione di beatitudine l’incontro delle future madri di Gesù e di Battista.

Però, tra tanta luce e tanta gioia, da questo dolce mistero emerge anche un insegnamento forte e preciso. Maria non si fa supplicare o tirare per la manica per andare a portare aiuto all’anziana bisognosa ma, pur vivendo il momento soave dell’attesa, spontaneamente lascia i preparativi per la nascita vicina, la casa e lo sposo, per offrire il suo sorriso e le sue mani laboriose e care ad Elisabetta in difficoltà.

Tra tanta soavità emerge un messaggio che qualcuno ha recepito ed attuato in maniera esemplare. Proprio in questi giorni ho letto una serie di servizi su don Oreste Benzi, il prete romagnolo che ha lasciato alla Chiesa e alla nostra gente una testimonianza esemplare di carità da Vangelo. Don Benzi, con la sua tonaca sdrucita e logora e la sua calotta in testa, usciva di notte per cercare e recuperare ad una vita degna le prostitute e nelle sue innumerevoli case-famiglia le porte erano e sono sempre spalancate, per accogliere i “rifiuti dell’umanità”.

Nel volume di don Gallo che sto leggendo, “Come un cane in chiesa”, questo “prete estremo” dei bassifondi del porto di Genova, scrive: “La domenica, dopo la messa, a tavola mi piace invitare e condividere il pasto con i gay, le lesbiche, i transgender, i transessuali: sono loro che hanno bisogno del nostro ascolto e della nostra accoglienza”.

Questi sono i cristiani che han “letto” il Vangelo in maniera seria ed onesta! Questi sono i preti che mi mettono in crisi e che mi fanno arrossire!

L’obbedienza ammalata

Quando ero in seminario la nostra vita pratica ed ideale si rifaceva alla “regola” che qualcuno dei miei superiori d’allora arriva a denominare “santa”. Non cito le prescrizioni del libretto perché alcune sono del tutto superate. Ricordo ad esempio che una delle norme della regola diceva pressappoco così: “Un buon seminarista procuri di essere a casa prima del tramontare del sole”. V’erano però degli articoli di indirizzo spirituale più seri, i cui contenuti hanno forgiato generazioni di preti, sui quali però penso di aver qualcosa da dire.

Ricordo che c’era un articolo che diceva pressappoco che “l’obbedienza deve essere cieca, pronta ed assoluta”. A questo proposito ricordo un particolare che m’è rimasto impigliato nella memoria ed ogni tanto mi appare creandomi un particolare stato d’animo. Ai miei tempi le varie attività della nostra vita in seminario erano scandite dal suono della campanella ed a proposito dell’obbedienza pronta ed assoluta, qualche superiore giungeva a raccomandarci che se il suono ci fosse giunto all’orecchio mentre in studio stavamo scrivendo, era opportuno lasciare la parola a metà. Infatti s’era dato il fatto che un santo, avendolo fatto, al ritorno avesse trovato la parola completata a caratteri d’oro da un angelo mandato dal Signore. Questa è l’obbedienza che mi fu insegnata.

Ai tempi della contestazione nel mondo ecclesiastico ci fu chi ha parlato invece della “santa disobbedienza”. Il mio concetto di obbedienza non ha abbracciato questa tesi, però provo un senso di pena e di rifiuto assoluto per chi, o per quieto vivere, per bigotteria o per non compromettere la propria carriera, si pone in questa posizione nei riguardi dei superiori.

Ricordo sempre la frase di san Paolo nei riguardi del suo “superiore”, san Pietro: “Resistetti in faccia perché aveva torto”. Non avere una posizione dialettica, non contraddire mai il superiore, non offrirgli la propria posizione, anche se si sa che non condivisa da lui, è tradire e pugnalare alle spalle chi ha posizione di maggiore responsabilità. Sono contento perché recentemente ho appreso che sia il cardinal Martini, sia il nostro caro Papa Francesco, non sono lontani dal pensarla come me.

La diversità è una ricchezza

I vecchi ritornano spesso sugli stessi discorsi ed io non sono una eccezione. Tempo fa mi sono imbattuto in una splendida e sorprendente sentenza che si rifà alla saggezza dell’antica Roma. Essa dice: “Gli anziani hanno diritto a dimenticarsi!”. Da quando ho appreso questa norma me ne avvalgo a piene mani, non arrossendo e non sentendomi affatto mortificato per le mie sempre più frequenti dimenticanze.

Non conosco però un’altra sentenza come questa che codifichi in maniera “sapienziale” e giuridica un altro argomento. Comunque, se non ci fosse, la faccio io; anche se non ha un passato glorioso, comunque la reputo quanto mai valida: “La diversità non rappresenta un pericolo o un impoverimento della vita sociale, ma una ricchezza!”. Questa constatazione non è del tutto farina del mio sacco, ma ho appreso – non so dove – questa verità, ci ho riflettuto e mi è parsa quanto mai calzante.

Spesso si sente dire da personaggi affermati che essi sono per la libertà, però Dio ti guardi se dici qualcosa che non sia conforme alla “loro” verità. Ne so qualcosa quando mi sono permesso di scrivere nel passato che non era lecito che per quindici giorni di vacanza del Papa in Cadore o in Val d’Aosta venissero spesi centinaia di milioni!

I movimenti ecclesiali, oggi in auge, peccano un po’ tutti di supponenza, di illusione – dico io – di possedere “il meglio” della verità; infatti sono quasi sempre arroccati, col ponte levatoio alzato, un po’ sprezzanti del parere degli altri, quasi che essi abbiano il monopolio assoluto della verità. Questa mentalità “in alto” viene ritenuta disobbedienza, mancanza di disciplina o di rispetto ed “in basso” come rifiuto del confronto delle idee.

A parer mio questo atteggiamento sa di insicurezza, di poca apertura alla verità, di sfiducia nel prossimo. Aprire le finestre fa sempre entrare il sole che mette in mostra le magagne ma, nello stesso tempo, dà la possibilità di correre ai ripari, mettendo maggiormente a fuoco “le proprie piccole e fragili verità” e, nel contempo, se uno ha dentro il proprio “orticello” qualcosa di buono, il confronto non può far altro che valorizzarlo.

Non ritengo opportuno scendere in particolari, però credo di aiutare il mio prossimo e i miei colleghi affermando che il confronto non è mai dannoso ma sempre arricchente, facendo sempre scelte in linea con questo principio.

La legge e la coscienza

In Italia vi sono tre gradi di giudizio: la sentenza, l’appello e la cassazione. Il nostro è un Paese garantista, però ultimamente più di uno afferma che questi tre gradi appesantiscono e rallentano i processi, tanto che essi finiscono per mortificare la giustizia piuttosto che esaltarla; inoltre questo modo di procedere è molto costoso e permette ai soliti “furbi” di evadere i rigori della legge facendo spesso cadere i reati in prescrizione.

Per quanto invece concerne la vita religiosa di un cristiano, quasi tutto è lasciato alla responsabilità del singolo credente. Il primo appello è costituito dal raffronto che egli è chiamato a fare con la legge che si rifà sostanzialmente al decalogo e all’interpretazione autorevole che ne è stata fatta dalla Bibbia e dalla tradizione. Il secondo appello, che è poi il definitivo, è emesso dalla coscienza del singolo credente. Nella sostanza poi, questo è il verdetto che costituisce l’ultimo appello a cui l’uomo è moralmente tenuto ad attenersi, perché lo rende pure responsabile di fronte a Dio.

Tornando alla giustizia italiana, da qualche decennio c’è stato un rigurgito un po’ fittizio ed interessato di legalismo, vedi ad esempio le fortune, che poi si sono dimostrate quanto mai effimere, di Di Pietro, che ha fatto della legalità il motivo fondante del suo partito politico. La cosa non è andata perché la sua era una giustizia che doveva valere soprattutto per gli altri, ma pare che fin dall’inizio non contasse granché per quanto riguardava la sua condotta. In questo ultimo decennio spesso si sentiva dire anche per le cose più banali: “E’ la legge!”, ma dietro questo paravento si sono nascoste mascalzonate, magagne ed interessi di ogni genere.

Questa ventata legalitaria pare abbia inciso anche su quanto riguarda le leggi ecclesiastiche, le norme, i sinodi, le regole religiose, il codice di diritto canonico e dintorni, però mi pare sia tempo di affermare il primato della propria coscienza e di fronte a norme, pur esaminate con attenzione, rispetto e riverenza, si possa sempre appellarsi direttamente alla propria coscienza, poiché il giudizio finale di Dio si rifà in maniera assoluta alla “sentenza” della propria coscienza prima di qualsiasi altro giudizio esteriore.

Questo discorso viene a confortare ed aiutare tutti coloro che si trovano di fronte a norme rozze, superate, non aggiornate e spesso disumane. Questo discorso penso sia quanto mai liberatorio per tanti cristiani che vengono a trovarsi oggi in aperto conflitto fra la propria coscienza e la norma formale ereditata dal passato.

La chiesa del domani

In queste ultime settimane, venendo a conoscenza della listerella di preti che vanno in pensione per raggiunti limiti di età e delle relative parrocchie che rimarranno senza parroco, tante volte ho pensato al nostro Patriarca, dicendomi: “Come farà a tappare tanti buchi avendo pochissimi preti e per di più tanto anziani?”

Pur non essendo questo un problema che mi riguardi personalmente, pur essendomi lambiccato il cervello, non sono riuscito a trovare una soluzione che mi appaia valida. Già nel passato mi è parso che una delle soluzioni più razionali sarebbe quella di accorpare le parrocchie e creare delle pur piccole comunità sacerdotali che si pongano a servizio delle parrocchie accorpate, evitando così doppioni nell’assistenza ai vari gruppi parrocchiali, sfruttando la sinergia delle diverse attitudini e soprattutto destinando i singoli sacerdoti a quel tipo di apostolato verso il quale si sentono più portati e preparati.

Comunque, pur adoperando questa soluzione-tampone, sono ancora infiniti i problemi da affrontare e il più cruciale fra questi è e rimane quello della carenza di clero, problema che pare tenda progressivamente ad aumentare piuttosto che a diminuire.

La Chiesa, nei suoi due millenni di storia, ne ha avuti di problemi, e forse più gravi di quelli attuali: invasioni barbariche, caduta del Sacro Romano Impero, eresie di ogni genere, diatribe teologiche, caduta dello Stato pontificio e tante altre ancora. Ogni volta essa è risorta a vita nuova e forse migliore di prima. Anche la grave crisi attuale troverà di certo una soluzione perché a Dio non manca la fantasia e l’intelligenza.

Forse la Chiesa sarà costretta a fare quello che a suo tempo avrebbe voluto fare don Gallo, il prete genovese morto da un paio di mesi, che era tranquillo al riguardo, pensando che probabilmente la Chiesa dovrà concedere il sacerdozio alle donne, come avviene nella Chiesa cristiana protestante, aprire le porte al matrimonio ai preti, come avviene nella Chiesa cattolica orientale. Forse la nostra Chiesa sarà costretta a dare maggior spazio ai laici, forse dovrà smantellare l’apparato macchinoso ereditato dalla tradizione, forse dovrà far diventare più snella ed essenziale la vita religiosa come avveniva nei primi secoli della vita cristiana.

Penso che i credenti piuttosto che lasciarsi andare all’angoscia e alla preoccupazione, debbano lasciarsi condurre docilmente dalla mano saggia e provvida di Dio.

La religione di Gesù

Ignazio Silone, il letterato che si dichiarava “socialista senza partito e cristiano senza Chiesa”, da piccolo era stato accolto in una delle tante case per orfani aperte da quel sant’uomo che fu don Orione. Silone ha scritto un bellissimo volume “L’avventura di un povero cristiano” tutto impostato sulla vicenda di Celestino 5°, il Papa che “insegnò” a Papa Ratzinger la possibilità di rinunciare al papato.

La lettura del suo volume mi ha fatto bene, aiutandomi a cercare sempre ciò che è veramente genuino ed autentico in quel cristianesimo in cui credo fermamente, ma per cui soffro spesso per le sue devianze. Silone approfitta della vicenda del Papa che fu dimissionario perché si trovò a disagio con i fasti della Chiesa del suo tempo, tanto da voler tornare alla vita di eremita per auspicare che la Chiesa tornasse alla semplicità e alla povertà delle sue origini.

Credo che lo scrittore abbia condensato in una frase, divenuta famosa, questo auspicio: “Altro è vedere l’acqua che esce monotona ed incolore dal rubinetto collegato all’acquedotto della città, un qualcosa di persino troppo banale, altro è vedere il mistero, la poesia, l’incanto dell’acqua che sgorga umile e pura dalla sorgente e, scintillando tra le rocce, si avvia lesta e briosa verso il mare”.

Anch’io sento il bisogno di tornare alla sorgente domandandomi: “Gli apostoli dicevano messa tutti i giorni, i primi cristiani si confessavano ogni settimana, gli apostoli avevano un segretario e abitavano nel palazzo vescovile, nominavano monsignori i preti più in vista, erano laureati in teologia o diritto canonico?” Quando comincio a pormi queste domande non finisco più, e quanto più continuo, non solo noto diversità per via dei venti secoli che ci dividono dalle prime comunità apostoliche, ma pure mi pare che l’impalcatura che si sviluppò nel tempo, sia per stile che per comportamento, sia tanto diversa da quella delle origini.

Ho già detto che non condivido l’affermazione perentoria di Ermanno Olmi che “la Chiesa oggi ha dimenticato Gesù”, però temo che col passare degli anni stiamo veramente arrischiando di perdere lo stile, il respiro e il comportamento del nostro Maestro Gesù.

Provo spesso il bisogno di ritornare alla sorgente saltando talora tutte le mediazioni elaborate dalla teologia o dalla tradizione. Per fortuna Papa Francesco sta provvidenzialmente ridestando nel cuore dei cattolici di oggi la nostalgia per il Vangelo.

Don Puglisi

Non so se sia solamente casuale oppure appartenga ad un disegno della Provvidenza, che il funerale di don Gallo sia stato celebrato lo stesso giorno in cui papa Francesco ha portato all’onore degli altari don Pino Puglisi, il prete assassinato dalla mafia perché ha avuto l’ardire di attuare il Vangelo a Palermo.

Don Gallo e don Puglisi, a mio parere, fanno parte ambedue di quella piccola schiera di “preti folli” che hanno tentato di praticare un cristianesimo radicale e da Vangelo, a differenza della gran massa di preti, anche per bene, che però non tentano di uscire dai ranghi per tradurre il messaggio di Gesù, la “buona notizia”, nella realtà cruda del nostro tempo, ma che preferiscono la religiosità quieta che vive nelle sagrestie e celebra i riti cristiani in santa pace, senza scomodare la coscienza di alcuno.

Don Gallo e don Puglisi erano tanto diversi fra loro, hanno operato in ambiti tanto lontani, uno nel nord borghese e benestante, l’altro nel profondo sud povero e sottomesso ad una tradizione di mafia e sopruso; eppure hanno avuto ambedue in comune la radicalità evangelica, il coraggio di andar contro corrente, di osare quello che umanamente sembra per tutti folle ed impossibile.

Ho già parlato della testimonianza ardita ma solitaria di don Gallo, che penso nessuno mai si sarà sognato di nominare monsignore, anzi che è sempre stato guardato con sospetto perché ha abbracciato la causa degli ultimi.

Don Puglisi, pur con una testimonianza ed un taglio di vita da prete in ambito e con modalità diverse, perseguì la stessa utopia di don Gallo. Mi sono tante volte domandato in questi venti anni che ci separano dalla sua morte: “Al tempo in cui visse ed operò nel sud questo parroco e fino ad oggi, quanti sono stati e sono i preti che operano nelle terre desolate dominate dalla mafia? Centinaia, migliaia, forse decine di migliaia! E come mai “l’onorata società” ha trucidato solamente – o quasi – don Pino? Di certo essi erano e sono “buoni preti”, che però hanno poco a che fare con il Vangelo di Gesù, anche se portano titoli di merito e sottane rosse.

Mi viene da gridare a questo nostro amato popolo di Dio, e soprattutto ai miei colleghi preti: “ammiriamoli e siamo almeno orgogliosi dei nostri campioni e dei nostri martiri, anche se noi non riusciamo a far altro che tirare le ciabatte e lustrare i candelieri dell’altare!

Don Gallo

E’ morto don Andrea Gallo, il prete genovese noto in tutta Italia per le sue prese di posizione, per il poco ossequio verso le gerarchie ecclesiastiche, per la sconfinata ammirazione per il cantautore De André e per la sua frequentazione del mondo dei drogati, delle prostitute, dei transessuali, dei centri sociali e della sinistra estrema. Confesso che questa morte, per me non prevista, mi ha sconcertato.

Sono rimasto scosso da questa notizia ferale perché non sapevo che ultimamente don Gallo non stesse bene di salute, ma in cambio sapevo bene che aveva la mia età. Parlare della morte, dire che non si ha paura di morire è abbastanza facile, ma se poi constati che le date dei morti di cui celebri i funerali girano tutte attorno alla tua età, e venendo a sapere della morte non prevista del “collega”, col quale si è stretto un certo rapporto di pensiero, porta un certo sconvolgimento.

Ripeto ancora una volta che avevo sentito parlare di don Gallo una decina di anni fa come un prete della fronda, filocomunista, irrequieto, sbandato da un punto di vista dottrinale, che la gerarchia teneva sott’occhio per le sue stravaganze e per le sue prese di posizione per nulla ortodosse; ma nulla più. Dentro di me non avevo preso posizione essendo arrivato, per esperienza diretta, alla conclusione che l’autorità costituita è purtroppo sempre più preoccupata per chi fa fughe in avanti o tenta di praticare un cristianesimo radicale e da Vangelo, che per chi invece sonnecchia, s’accoda alla massa, pensa ai fatti suoi, è ossequiente all’autorità, per chi non prende posizione su niente, tira a campare e vive una fede in modo estremamente borghese, pago di vedere accese le candele, di controllare che il profumo di incenso sia gradevole e l’acqua santa sia senza germi.

Ho conosciuto invece più da vicino questo vecchio prete un paio di anni fa leggendo una sua strana e particolare autobiografia che m’è stata donata da qualcuno che, non sapendo cosa regalarmi, ha scelto un volume sulla cui copertina c’era il volto di un vecchio prete con un sigaro in bocca e un cappellaccio nero a larghe falde in testa. Conoscere le parole, le scelte, il pensiero e la vita di questo prete, mi ha toccato a fondo, messo in crisi e – perché no? – edificato.

L’amore di don Gallo per gli ultimi, i perduti, i fuori strada, gli abbietti della nostra società, mi ha sorpreso. Le scelte di don Gallo d’istinto le ho collegate ai movimenti radicali del tempo di san Francesco descritti nel volume “Nel nome della rosa” di Umberto Eco, che volendo vivere autenticamente il Vangelo, come Francesco d’Assisi, hanno faticato alquanto per farsi legittimare dall’autorità religiosa costituita. La nostra società perbenista e il nostro cristianesimo formale tagliano fuori con un colpo netto, senza pensarci due volte, quel mondo che Gesù ha amato e del quale ha parlato con bontà.

Forse non tutti condivideranno il mio pensiero, però io sono propenso a mettere il nome di don Andrea Gallo accanto a quelli di don Tonino Bello, don Lorenzo Milani, don Primo Mazzolari, padre David Maria Turoldo e qualche altro. Penso che fra non molto anche don Gallo diventerà una bandiera per i cattolici: siamo purtroppo un popolo che ancora “uccide” i profeti e poi erige loro i monumenti.

Due piccioni con una fava

Io, tutto sommato, sono nato come prete dopo il Concilio Vaticano Secondo. L’ordinazione sacerdotale è avvenuta nel 1954, un po’ antecedente il Concilio, ma i primi anni del mio sacerdozio li ho vissuti in “luna di miele”, sognando ad occhi aperti e pensando che sorti del Regno di Dio si sarebbero realizzate nel futuro dei miei “aspiranti” dell’Azione cattolica e del reparto scout della mia parrocchia. Poi, pian piano, ho preso coscienza delle problematiche pastorali.

Il tempo del dopo Concilio l’ho vissuto con la stessa sensibilità con la quale ho vissuto la ricostruzione post-bellica. Prima da italiano e quindi da cristiano, ho sognato che il “mondo nuovo” fosse a portata di mano. Per quanto ha riguardato la religione credevo che il Regno di Dio stesse ormai per calarsi sul nostro tempo e sulla nostra gente, tanto che un giorno chiesi al Patriarca d’allora: «Quando avverrà questa “epoca dell’oro?”». Egli saggiamente mi rispose con una frase del Vangelo: «”Il Regno di Dio è dentro di voi!”, esso si affermerà nella misura in cui noi lo faremo vivere nella nostra vita».

Il tempo è passato e la spinta del sognato rinnovamento pian piano ha perso colore e vigore, è sembrato che le cose andassero sempre per lo stesso verso dopo le prime innovazioni: i preti si sono vestiti in borghese, han detto messa rivolti verso il pubblico, han celebrato in italiano. S’è continuato a parlare di riforme, ma non parve che, oltre i discorsi, la fede crescesse e scaldasse il cuore delle folle. Alcuni anni fa è sorta, quasi per incanto, la “moda” della rievangelizzazione, ma mi pare che non stia avendo risultati granché più significativi.

Qualche giorno fa mi è capitato di leggere questa riflessione che ben definisce l’arco delle mie esperienze in campo della pastorale nei riguardi di quelle che sono immaginate come soluzioni quasi “magiche”, o più correttamente possono essere definite le utopie del cristiano.

“Quando ero giovane e libero e la mia fantasia non aveva limiti, sognavo di cambiare il mondo.
Diventando più vecchio e più saggio, scoprii che il mondo non sarebbe cambiato, per cui limitai un po’ lo sguardo e decisi di cambiare soltanto il mio Paese. Ma anche questo sembrava irremovibile.
Arrivando al crepuscolo della mia vita, in un ultimo disperato tentativo, mi proposi di cambiare soltanto la mia famiglia, le persone più vicine a me ma, ahimé, non vollero saperne.
E ora, mentre giaccio sul letto di morte, all’improvviso ho capito: se solo avessi cambiato prima me stesso, con l’esempio poi avrei cambiato la mia famiglia. Con la loro ispirazione e incoraggiamento, sarei stato in grado di migliorare il mio Paese e, chissà, avrei potuto cambiare il mondo.”

(sulla tomba di un vescovo anglicano nella cripta dell’Abbazia di Westminster)