Zelo scomposto

La crisi delle vocazioni religiose è generalizzata, non investe solamente il mondo dei sacerdoti, ma anche quello dei frati e delle suore. Molte congregazioni di suore sono ridotte al lumicino ed altre che contavano migliaia di religiose hanno subito una seria contrazione, tanto che ad ogni fine d’anno, fino a qualche tempo fa, esse si ritiravano dagli ospedali, dagli asili parrocchiali e da altre strutture per concentrarsi in opere di loro proprietà e nell’assistenza delle loro anziane.

Questo fenomeno ha determinato uno smarrimento generale e una seria preoccupazione per la loro sopravvivenza. Inizialmente anch’io sono stato fortemente preoccupato per questo fenomeno, dopo però ho capito che nulla è eterno e che soprattutto il buon Dio ha una fantasia infinita e già prima che si spenga una soluzione che proclamava il suo Regno, aveva già preparato soluzioni alternative più adeguate ai tempi nuovi e più in linea con la nuova società. Basta solamente aver fiducia nei tempi nuovi.

Però non tutte le superiore la pensano così. Molti ordini religiosi hanno emigrato nel terzo e nel quarto mondo ove pensavano che ci fosse un terreno più fertile; alcune, ma poche, hanno tentato di sviluppare il loro carisma inculturandosi in ambienti tanto diversi dai nostri, tentando di tradurre ciò che c’era di essenziale nelle loro scelte con la cultura di quei luoghi, però recependo mentalità, ritmi di vita e sensibilità tanto diverse. Mentre alcune altre, assurdamente, stanno tentando di ripetere esattamente, in mondi diversi, le soluzioni della vecchia Europa.

Altre congregazioni poi, peggio ancora, hanno adottato la “tratta” che, in tempi più lontani, gente senza scrupoli e senza princìpi, ha fatto presso le popolazioni indigene dell’Africa nera. Credo che sia doveroso denunciare questo fenomeno per nulla cristiano. Talvolta m’è capitato di sentire di ragazze nate nelle capanne di tribù africane, abituate a vivere una vita libera nella foresta o nella savana, pregare danzando e cantando al suono del tamburo durante le splendide Eucarestie guidate da missionari intelligenti ed aperti, portate in Europa, chiuse in conventi, o peggio clausure, vestite con tonaconi strani e di tempi andati, costrette ad una vita impossibile ed assurda per la civiltà della nigritudine. La crisi delle vocazioni non può giustificare comportamenti del genere, perché rappresentano quanto di più opposto allo spirito autenticamente religioso.

Il cardinal Martini ha saggiamente affermato che per alcuni aspetti la Chiesa è in ritardo di un paio di secoli, ma comportamenti del genere rappresentano ritardi di millenni.

14.07.2013

Bibbia e cultura attuale

Ho terminato proprio in questi giorni “gli esercizi spirituali” predicati dal cardinal Ravasi per Papa Benedetto e i cardinali, vescovi e monsignori della curia romana. Neanche a farlo apposta “ho ascoltato” l’ultima meditazione il giorno che la Chiesa festeggia sant’Ignazio di Loyola, il santo gesuita che ha “inventato” questa pratica di pietà.

Il cardinal Ravasi ha fatto le sue 17 “prediche” dal 17 al 24 febbraio di quest’anno. Tanto sono durati “gli esercizi” del Papa, mentre io ci ho messo ben tre mesi, faticando non poco per seguire i passaggi veramente impegnativi di questo cardinale “ministro della cultura” della nostra Chiesa.

Mi ha colpito l’intelligenza, ma soprattutto la preparazione ascetica, teologica e biblica di quest’uomo di Chiesa, ma quello che soprattutto mi ha convinto è stata la capacità di innestare il messaggio e il cantico di lode che emerge dai Salmi nel pensiero dei filosofi e poeti del nostro tempo che Ravasi dimostra di conoscere perfettamente coniugando i loro scritti con la parola di Dio espressa dalla Bibbia.

Tutto questo mi fa pensare che la ricerca del cristiano debba assolutamente muoversi e procedere su due rotaie: la Bibbia e il pensiero contemporaneo. Se la parola di Dio non si innesta e non “si incarna” nella cultura attuale, essa rimane appesa alle nubi e non diventerà mai parte integrante della sensibilità e della religiosità del cristiano contemporaneo.

Molti anni fa, il responsabile del volontariato cattolico, in una conferenza a cui ho partecipato, ha affermato che “il cristiano di oggi dovrebbe avere in una mano la Sacra Scrittura e nell’altra il “quotidiano” per poter coniugare l’una con l’altro.

Dopo aver fatto questi esercizi spirituali assieme al Papa emerito e ai suoi cardinali, mi vien da ribadire invece quello che già pensavo da tempo, ossia assieme al quotidiano il cristiano d’oggi faccia lo sforzo che, a parer mio, è assolutamente necessario, di tenere nella mano sinistra anche ciò che i poeti, i narratori, i cantautori e i filosofi del nostro tempo vanno scrivendo o cantando nelle loro opere e che gli uomini assimilano anche senza avvedersene. Il pensiero e l’amore di Dio è qualcosa di etereo ed influente se non si veste dei panni d’oggi, se non usa il linguaggio e il pensiero dei ricercatori della verità del nostro tempo.

Sento di essere quasi banale e ripetitivo, però avverto l’assoluto dovere di affermare che perché un cristiano stia decentemente in piedi e possa farsi accettare, deve innestare il messaggio evangelico nella “carne viva” dell’uomo di oggi e non nelle mummie del passato, ma tutto questo è impossibile se non si frequenta e non si conosce il pensiero contemporaneo.

03.08.2013

“Sanazione”

Qualche giorno fa due coniugi sono venuti al “don Vecchi” dicendomi che, essendo morto il padre della signora, avrebbero avuto piacere di donarci, per la nuova struttura che sta sorgendo agli Arzeroni, la mobilia, i tappeti, i due lampadari di Murano ed alcuni quadri di un certo pregio.

Conversando con questi signori risultò che la signora è architetto e si occupa di arredamento, mentre lui è impegnato nella realizzazione di un brevetto. La conversazione divenne ben presto familiare – evidentemente questo vecchio prete invitava alla confidenza – tanto che buttai loro, quasi per caso, la domanda: «Avete dei figli?». Mi risposero di no, ma aggiunsero che convivevano da 25 anni e lui soggiunse: «Potremmo anche sposarci!», guardando affettuosamente la compagna.

Si avvertiva dal loro comportamento che erano alquanto affiatati e che, tutto sommato, il loro patrimonio ideale di fondo era quello che si rifà al pensiero cristiano. Io allora aggiunsi una battuta leggera con cui li incoraggiavo a fare quel passo.

Neanche una settimana dopo riincontrai ad un funerale un signore, che fu l’editore del mio primo volume “Diario di un parroco di periferia” (a quel tempo non ero ancora giunto ad essere “un vecchio prete!”). Stessa situazione e stessa conversazione.

Questi due episodi mi riportarono a due vecchie esperienze che riguardavano questo argomento. La prima: un fidanzato abbastanza agnostico ed insofferente al percorso di preparazione al matrimonio; da studioso di storia mi disse che fino al Concilio di Trento non c’era tutto quell’armamentario rituale per le nozze, bastava solamente una benedizione a due cristiani che intendevano vivere assieme. La seconda: una ragazza del ’68 s’era sposata solamente con rito civile ed ora, facendo la catechista, avrebbe desiderato anche il rito religioso, ma il “marito” non accettava di sottoporsi a tutto il rituale preteso dal “Sacramento nuziale”.

In questa seconda occasione mi ricordai che nei miei lontanissimi studi di diritto canonico era previsto, per queste situazioni, una soluzione denominata “sanazione in radice”, soluzione che dava la possibilità di recuperare la sostanziale volontà di vivere in comunione secondo il pensiero della Chiesa dando la qualifica di sposi cristiani, senza fare il rito all’altare.

Volli sperimentare questa norma: ci riuscii, però facendo un “percorso di guerra” abbastanza complesso e burocratico, un tortuoso itinerario che nessun convivente, per quanto desideroso di essere totalmente in pace con la propria coscienza, una volta abituato a vivere assieme al partner, ha voglia di fare.

Scrissi al Patriarca Scola dicendogli che, semplificando enormemente la cosa, con questa “sanazione” potremmo mettere a posto tanti coniugi che non si sono sposati in chiesa, ma che ora sarebbero propensi a farlo. Neppure mi rispose. Probabilmente la mia idea gli parve veramente peregrina, mentre io rimango dell’avviso che è opportuno cercare di umanizzare desacralizzando notevolmente la nostra ritualità sacramentale.

13.07.2013

L’utopia

Qualche tempo fa mi ha telefonato una signora che, almeno dalla voce, sembrava molto giovane, la quale mi diceva che da tempo stava cullando un progetto a favore dei ragazzi e degli adolescenti in genere e che desiderava confrontarsi con me. Le risposi subito che, per l’età che ho e per il “mestiere” che faccio, io conosco meglio il problema dei vecchi che non quello dei giovani.

Non riuscii però a dirle di no e quindi ci incontrammo il giorno dopo qui al Centro. In realtà mi parve che fosse davvero “una ragazzina”, anche perché vestiva un abito vezzoso alla zingara che le arrivava fino alle caviglie.

Si presentò dicendomi che era sposata, con due figli, che era impegnata nella sua parrocchia e che da vent’anni insegnava religione nella scuola pubblica. Capii subito che era una donna intelligente, spigliata e cristiana convinta ed appassionata del mondo giovanile.

Questa “catechista” aveva constatato che nel pomeriggio i ragazzi delle elementari e gli adolescenti delle superiori rimanevano tanto tempo soli in casa perché i genitori lavoravano, passando così molte ore davanti al televisore, ma soprattutto davanti al computer che, a parer suo, è ancora più pericoloso. A questi ragazzi manca il dialogo, non hanno manualità non facendo la minima esperienza a livello di “apprendistato professionale”.

Partendo da questa premessa, sognava che qualche parrocchia o la curia potesse mettere a disposizione delle sale ove questi ragazzi, guidati da anziani, artigiani o esperti in qualcosa, potessero fare i compiti ed apprendere quelle nozioni pratiche e quelle esperienze di aggiustaggio e manutenzione di cui ogni persona ha bisogno, soprattutto per avere un rapporto non istituzionale con gli adulti. Ella aggiunse che nella sua parrocchia, quella di Santa Maria Goretti, la cosa non è possibile per carenza di spazi.

Io, pur sembrandomi un bel progetto, le dissi che le attuali parrocchie sono troppo piccole ed assolutamente incapaci di realizzare progetti del genere. Bisognerebbe che “il Governo” – e mi riferivo alla curia o agli organi ecclesiali preposti alla gioventù – si impegnassero per promuovere dei centri interparrocchiali o cittadini.

A questo proposito ci dovrebbero essere i vicariati ad affrontare problematiche del genere, ma essi temo che appartengano a quegli “enti inutili” che sopravvivono stentatamente, ma che sono assolutamente improduttivi. Il mio pensiero è andato quindi all’esperienza del “Comune dei giovani” di Bassano, che a livello cittadino dà risposte alle più svariate attese del mondo giovanile. Ma da noi questa è un’utopia che l’esasperato individualismo veneziano relega nel mondo dei futuribili!

Dissi alla signora che sarebbe stato giusto rivolgersi al responsabile della pastorale giovanile, però mi è parso che fosse piuttosto scettica sull’efficienza di simile organismo, ed io più di lei, per le mie esperienze del passato da parroco.

08.07.2013

E’ solamente questione di convinzione e di attitudine

Domenica scorsa la Chiesa mi ha chiesto, come a tutti i preti del mondo, di commentare il brano del Vangelo che racconta il mandato che Gesù dà ai 72 discepoli: “Predicare il Regno”.

Oggi la carenza di vocazioni, e quindi di preti, è conosciuta anche da chi pratica poco la nostra Chiesa. A leggere questa pagina del Vangelo non sembra però che questo sia un problema solamente del nostro tempo, ma una carenza cronica per le comunità cristiane, se già Gesù l’aveva notato. Lui però, a differenza della gerarchia attuale, l’ha risolto con una soluzione semplice e svelta, incaricando la gente che gli dimostrava fiducia di andare a testimoniare il suo messaggio, dando degli obiettivi precisi: essere accanto a chi soffre ed ha bisogno, portare pace ed annunciare che “Il Regno” è vicino, ossia che è possibile per tutti vivere il progetto che Egli era venuto a portare.

Sabato scorso ho celebrato la messa prefestiva agli anziani del “don Vecchi”, domenica una messa in parrocchia a Carpenedo alle 8,30 e una alle 10,00 nella chiesa del cimitero. Ognuno può facilmente immaginare il tipo di persone alle quali mi sono rivolto, persone buone e devote, però prive di specializzazioni dogmatiche, bibliche, patristiche, ecc. e d’altronde mi è parso che dovessi far loro capire che essi erano “i discepoli” che Gesù mandava dando loro obiettivi semplici e concreti, quindi alla portata di tutti e prescrivendo uno stile di vita sobrio, naturale, sereno, senza preoccupazione di portare risultati eclatanti, perché il loro compito si fermava all’annuncio; circa la risposta, la responsabilità rimaneva su chi riceveva la proposta. Quindi tutto il mio discorso s’è basato sul fatto che parlavo per chi mi ascoltava, non per ipotetiche persone sconosciute.

Mi sono adoperato perché ognuno uscisse di chiesa convinto che doveva far qualcosa per chi non crede o non crede molto. Ho quindi insistito sul fatto che ognuno è all’altezza di questo compito, pur non essendo stato in seminario per 14 anni, pur non avendo fatto noviziato di sorta, pur non avendo alle spalle studi particolari.

Un tempo un dirigente di una grandissima azienda m’ha detto che egli assumeva non chi avesse titoli cartacei da presentare, ma chi aveva attitudine a vendere, perché solamente questi erano produttivi. Credo anch’io che si debba tirar giù dall’empireo della cultura ecclesiastica, spesso sofisticata, macchinosa e difficile, gli operai del Regno, per reclutare invece i semplici e gli umili di cuore.

Per poi calcare l’idea che oggi è tempo dell’impegno dei laici, ho raccontato che molti anni fa suonarono alla porta della mia canonica due giovani che, una volta fatti accomodare, mi dissero: «Signor parroco, vorremmo dirle delle cose che lei sa già, ma che noi riteniamo importante ribadire: “Dio ci vuole bene, è disposto a perdonarci e ci aspetta in fondo alla strada della vita”.

Vi confesso che questa “predica”, ascoltata almeno venti anni fa, è stata quella che ricordo meglio e che mi ha fatto più bene. Ora spero che quelle quattro, cinquecento persone alle quali domenica ho detto queste cose, siano già all’opera!

07.07.2013

“Venda la Mercedes”

Spero che i miei amici mi perdonino il fatto che ancora una volta io sottolinei la “rivoluzione” di Papa Bergoglio. Confesso che questa “rivoluzione” mi libera dai sensi di colpa che mi porto dietro da una vita intera.

Non confido niente di nuovo se ritorno su vecchi eventi ormai coperti dall’abbondante coltre di polvere depositata da decenni; ora però i discorsi “da vecchio e buon parroco di campagna” di Papa Bergoglio rispolverano questi eventi e fanno emergere certe mie “prodezze” pagate con l’emarginazione per tutta la vita.

Ho parlato altre volte di queste cose, ma gli anziani sono noti per queste ripetizioni. C’è perfino una bellissima “beatitudine” attribuita ad un anziano che afferma: “Beato chi non mi ripete ad ogni passo: questo l’hai già detto altre mille volte, beato chi mi ascolta senza mortificarmi per queste ripetizioni”.

Ebbene, quella volta doveva entrare in diocesi il vescovo di Vittorio Veneto Albino Luciani. Non ricordo, ma penso che fossimo vicini al ’68. Già mi aspettavo l’auto di rappresentanza scortata dai motociclisti della stradale, poi la gondola da parata in Canal Grande e poi ancora il presentatarm di una rappresentanza dell’esercito e della marina in piazza San Marco. Tutte cose che mi parevano stonate per un discepolo di Gesù. Scrissi allora sulla “Borromea”, il settimanale del Duomo, una lettera aperta al nuovo Patriarca chiedendo che facesse l’ingresso, non ricordo più se con la vecchia “Cinquecento” o con la “Seicento”. Mi giunse subito una lettera dalla curia che bollava la mia intemperanza.

Qualche tempo fa ho letto un volume di Marco Roncalli che riporta, a proposito del clima tempestoso al tempo di Papa Luciani, la mia presa di posizione.

In tempi andati poi, era vicario generale il vescovo, mons. Giuseppe Olivotti. Questi fu un ottimo prete, buono e generoso, che fondò l’Opera Santa Maria della Carità, opera che i posteri resero malconcia. Lui era ricco di famiglia, viaggiava in Mercedes. A quei tempi che un prelato avesse la Mercedes era come se oggi avesse una Ferrari fiammante, cavallino rosso.

Pure a lui scrissi – ora capisco “l’impertinenza”: “Non è lecito ad un discepolo di Gesù andare in Mercedes!” Mi scrisse una lettera di rimprovero però, essendo un buono e santo prete, neanche un mese dopo la vendette.

Ora spero che l’intervento ben più autorevole, di Papa Francesco, metta in crisi parecchi colleghi che viaggiano in BMV e che ogni paio d’anni cambiano macchina! C’è voluto tanto tempo, comunque sono già contento di non aver sbagliato proprio tutto e spero di non sbagliare anche su tante altre cose su cui Papa Bergoglio non ha avuto ancora tempo per intervenire.

07.07.2013

“Zitelle e zitelli”

Appena morto papa Giovanni c’è stato il solito furbetto interessato che ha pubblicato un volumetto dal titolo quanto mai stuzzicante: “I fioretti di papa Giovanni”. Qualcuno mi ha regalato il volume che in verità non rappresentava un granché, ma che sollecitava la curiosità. Si trattava di una antologia di fatterelli e di affermazioni singolari attribuiti al “Papa buono”. Di certo credo che nessuno potesse giurare sulla veridicità delle cose scritte, comunque erano in linea con il tipo di personalità di questo Papa della collina bergamasca.

Credo che su Papa Francesco ci sia già materiale per un volumetto del genere anche se sono pochi mesi da che s’è fatto conoscere al grande pubblico. Io ho auspicato che qualcuno dalla penna facile e brillante si dia da fare per raccogliere fin da subito “detti e fatti” di Papa Bergoglio, io comunque ne vado annotando quasi uno al giorno di questi interventi espressi con battute semplici e sempre felici.

Sabato è stata la volta dell’invito ai seminaristi e alle novizie suore a non diventare “zitelle e zitelli”.

A qualche buontempone o a qualche criticone la battuta potrà sembrare quasi ingenua e fuori tempo, ma a me pare estremamente onesta e pertinente. Nella mia lunga vita, specie quando c’erano ancora in abbondanza giovani preti e frati, ma soprattutto giovani suore, quante storpiature, quanta dissennatezza da parte di certe superiore o di maestre delle nostre novizie, che in nome delle “sante regole”, del carisma del santo fondatore, di un misticismo malinteso e di una spiritualità grezza, furono irrispettose di quella originalità della persona, che è una delle “meraviglie di Dio”, il quale spande il suo splendore dando ad ogni persona un raggio particolare ed unico della sua luce!

Personalità forti, belle, intelligenti, furono soffocate e storpiate sotto il rullo compressore di una formazione gretta e per nulla cristiana, che pretendeva di ridurre a stampo le anime generose che facevano la scelta di dedicarsi totalmente al servizio del messaggio di Gesù e delle attese dell’uomo.

Ho ancora nell’animo certi abatini col collo torto, certe suore alle quali si toglieva, con dei goffi, informi tonaconi, libertà e bellezza. Papa Francesco, con la sua trovata sorridente ed accattivante, ha fatto saltare almeno lo speco, la muraglia cinese.

Mi auguro che il nostro Papa continui ad umanizzare chi, volendo seguire i consigli evangelici, non sia costretto a vestire da spaventapasseri, sperando poi che si proceda valorizzando l’infinita ricchezza della persona, di ogni persona.

06.07.2013

La rivoluzione di Papa Francesco

Non conosco cristiano impegnato o vescovo che prima o poi non abbia parlato di una Chiesa povera per i poveri: concetto che quella bell’anima di don Tonino Bello, il compianto vescovo di Molfetta, ha tradotto in quella bellissima immagine: “La Chiesa in grembiule”.

Le prediche sono facili però, al di fuori di alcuni testimoni, che da vivi sono stati giudicati un po’ folli – vedi don Benzi o semplicemente don Gallo – non mi è mai parso che la “Chiesa reale”, nel suo complesso, abbia preso seriamente questa direzione. I preti hanno canoniche che, rispetto ai luoghi ove esse sono collocate, sono confortevoli, corrono in automobili spesso costose e i vescovi dimorano nei loro palazzi e celebrano sontuosi pontificali nelle loro cattedrali.

Ci sono pure, per fortuna, anche dei missionari alla Alex Zanotelli che condividono la sorte dei cenciaioli che vivono rovistando nelle discariche delle metropoli del mondo dei consumi, ma sono veramente delle mosche bianche. La Chiesa, dall’alto al basso, purtroppo non è così, tanto che perfino io, per un pizzico di coerenza, ho scelto di condividere la sorte degli anziani poveri, col mio più che confortevole minialloggio al “don Vecchi”. Non ho preteso dalla Curia un congruo appartamento, come tanti altri miei colleghi , comunque la mia dimora è più che accogliente. Però, nonostante questa buona sistemazione, talvolta mi sorprendo a pensare di essere un prete credibile e coerente per tanto poco!

La Divina Provvidenza, fortunatamente, ci ha mandato un Papa scovato “alla fine del mondo”, un Papa che da vescovo frequentava assiduamente le bidonville, un Papa che ci sta mettendo tutti in crisi, dal primo all’ultimo, con la sua croce di ferro, con le sue scarpe da discount, la sua semplice tonaca bianca, il suo alloggio nella periferia del Vaticano, col suo linguaggio povero e le sue immagini da Vangelo. Un Papa che ha messo il naso nella banca vaticana e che vuol far subito pulizia.

Ora il Papa fra qualche giorno andrà a Lampedusa, l’isola estrema d’Italia dove stanno arrivando su barconi di fortuna i più disperati dei disperati del mondo. Questa scelta di certo non è occasionale ma, una volta ancora, vuol dire a noi cristiani che il Cristo vero va cercato, amato e servito nei più poveri.

26.06.2013

Un dono inestimabile

Qualche giorno fa don Gianni, il giovane presidente della Fondazione Carpinetum, ha invitato i membri del consiglio di amministrazione e me – nominato, per affetto, direttore generale – ad una cena di lavoro presso la canonica in parrocchia di Carpenedo. Avevamo sul tappeto mille cose da decidere e, tutti, poco tempo da mettere a disposizione per queste cose seppur importanti, e don Gianni, solo in questa grande ed articolata parrocchia, meno di tutti.

La convocazione era fissata per le 18.00, ma il giovane parroco presidente è arrivato con mezz’ora di ritardo avendo avuto un contrattempo i pullman che avevano portato i ragazzi del grest a Caorle. Giunse nella sala della riunione come una maschera di fatica: sudato, col volto arrossato, negli occhi la stanchezza di un’intera giornata passata al lido di Caorle con i 150 ragazzi della parrocchia che quest’anno partecipano alle attività del grest.

D’istinto gli avrei detto: «Va a letto!». Don Gianni, fortunatamente, è giovane, e dopo una rinfrescatina sotto il rubinetto d’acqua fredda e un riassetto al vestito, pur stanco, s’è buttato a capofitto sui problemi del “don Vecchi 5”, del villaggio di accoglienza degli Arzeroni, sul progetto di una sistemazione conveniente e definitiva del polo di attività solidali delle associazioni di volontariato al “don Vecchi”.

La riunione è stata quanto mai intensa perché don Gianni ci comunicò che sarebbe rimasto assente dalla parrocchia nei mesi di luglio e agosto e l’indomani sarebbe partito con 58 ragazzi e 15 animatori per la Malga dei Faggi, la bellissima casa di montagna della parrocchia, ove ogni 15 giorni si susseguiranno gruppi di ragazzi e di giovani per le vacanze estive e, contemporaneamente, avrebbe diviso il suo tempo con i campi estivi dei 200 scout della parrocchia.

Spesso si dice male dei preti, però ve ne sono anche di veramente eroici che si spremono fino all’osso. Quello che tanti dei nostri preti fanno durante l’estate a favore del mondo dei ragazzi e dei giovani è veramente meraviglioso. Questi ragazzi legheranno per tutta la vita l’avventura, la scoperta del mondo, del vivere assieme, ai valori più importanti che il sacerdote, che divide tempo, gioco e riflessione con loro, passa alle loro coscienze ancora aperte al messaggio cristiano.

Domani quei ragazzi, diventati adulti, quando ritorneranno ai giorni e alle esperienze piene di fascino della loro bella età, troveranno indissolubilmente legati a quei ricordi, la figura di un prete e le proposte ideali che egli ha donato loro durante queste avventure estive vissute tra i boschi, i prati delle nostre montagne.

Qualche tempo fa scrissi della mia meraviglia nello scoprire che tra le persone importanti del nostro Paese, persone che hanno in mano le sorti dell `economia, della politica, della sanità e quant’altro, ci sono i ragazzini che un tempo hanno dormito sotto la tenda, hanno scalato i nostri monti, guidati da un prete che li ha amati come i loro figli. I preti, quando sono bravi e generosi, rappresentano un’autentica risorsa per la nostra società e per il nostro domani. Credo che veramente meritino il grazie delle nostre famiglie e del nostro Paese.

(scritto il 30.06.2013)

Il riformatore

A Roma, una quindicina di anni fa, c’è stato un presidente della Repubblica che s’è dato da fare per sburocratizzare e risanare lo Stato italiano, occupato ed appesantito in una morsa mortale da una mentalità e da una burocrazia che lo rendevano ingessato e pressoché impotente.

Francesco Cossiga, che fu definito “il picconatore”, cercò di realizzare questa immane impresa, ma fu sconfitto. Alcuni dissero che aveva perso il senno, altri lo osteggiarono in maniera tale che dovette andarsene anzitempo, eppure era una persona intelligente e il suo intento era certamente nobile.

Nella stessa città non il Parlamento, ma la Provvidenza, ci ha donato un altro uomo, ma questa volta è un uomo di Dio che pare miri allo stesso scopo per quanto riguarda l’apparato, la mentalità e lo stile di vita della Chiesa che ha, a Roma, il suo centro.

Papa Francesco sembra però aver scelto un modo di procedere diverso, pur intelligente e determinato quanto quello di Francesco Cossiga. Papa Francesco, da vero riformatore, ha cominciato a cambiare la Chiesa facendolo prima sulla sua pelle, cominciando col scegliersi un nome che, non solo in Italia ma nel mondo, rappresenta l’interpretazione più alta e fedele del messaggio di Gesù, chiedendo poi la benedizione del popolo di Dio prima di darla egli stesso, rifiutando i paludamenti della Chiesa del passato e preferendo ad essi la sua semplice tonaca bianca che lascia intravedere i pantaloni e le scarpe per nulla eleganti. Continuando a rifiutare i fasti della dimora reale del Papa re, preferendo un appartamento più umile a Santa Marta, adoperando un linguaggio popolare piuttosto che i discorsi elucubrati della teologia, Papa Francesco, fin subito dalla sua elezione, ha ribadito che “le pecore” si devono cercare dove sono e tale deve essere l’amore per esse da impregnarsi quasi del loro odore. Ha chiesto di pregare perché lo si aiuti a scegliere vescovi innamorati delle anime, ha preso posizione nei riguardi dello IOR, la banca vaticana, e ha affermato di non aver tempo per le vacanze ed userà Castelgandolfo solamente per accogliere i pellegrini… e via di seguito su questa linea, parlando e operando sempre in maniera coerente ad essa.

Papa Francesco non “piccona” ma, pur con dolcezza, dimostra una determinazione assoluta nel perseguire l’obiettivo di una Chiesa povera impegnata per i poveri.

Spero proprio che a qualcuno venga voglia di raccogliere in un’antologia le prese di posizione e le scelte operative di Papa Francesco per portare la Chiesa alla freschezza e alla genuinità delle origini. Sarà un compito duro, ma fortunatamente il nostro Papa ha la determinazione e la costanza per poterlo fare.

(scritto il 22.06.2013)

I nuovi luoghi di aggregazione

Ho letto non so dove che un grosso imprenditore, proprietario di una catena di ipermercati, ha costruito, all’interno di un grandissimo centro commerciale, una chiesa sempre aperta, dove in giorni determinati e ad ore fissate, un sacerdote celebra e fa la sua catechesi.

M’è ritornata alla memoria questa notizia parlando con un mio amico dell’eterno problema di riuscire a recuperare i generi alimentari in scadenza o comunque non commerciabili. Questo mio carissimo amico, attento alla vita e all’evolversi della nostra società, stamattina mi riferiva che aveva visitato il nuovo ipermercato della DESPAR nell’area circostante l’ospedale dell’Angelo. Era rimasto strabiliato da questo colosso del commercio: negozi lussuosi, tavole calde, ristorante e bar, climatizzazione perfetta, caldo d’inverno e frescura d’estate e soprattutto un afflusso di gente che non solamente è interessata agli acquisti, ma che trova nell’ipermercato quella che nell’antica Grecia si chiamava l’agorà e che dal medioevo in poi è diventata “la piazza”: il luogo dell’incontro, del dialogo e della socializzazione.

Oggi l’ipermercato offre quanto di meglio uno possa desiderare, dal parcheggio comodo alla possibilità di rifornirsi di qualsiasi articolo di cui uno possa aver bisogno, di prendere un caffè o un aperitivo al bar con gli amici, di incontrare gente, di passeggiare, di collocare i propri bambini nella baby house con giochi, di stare al caldo o al fresco in qualsiasi stagione senza spender soldi, di mangiare una pizza o ristorarsi alla tavola calda o semplicemente di passare un pomeriggio o una serata senza annoiarsi.

Il mio amico concludeva con un po’ di amarezza: «Le nostre piazze sono fatalmente destinate a svuotarsi, i luoghi di cultura a rimanere deserti, il centro si sta spostando inesorabilmente nei nuovi centri commerciali della periferia».

Mentre parlava io, che mi interesso di anime, di fede e di Chiesa, sentivo tristezza al pensiero che le nostre chiese continuano ad affacciarsi su piazze diventate deserte e che sono destinate a non essere più frequentate dalla gente normale. Mi chiedo: “Le nostre diocesi si sono accorte, riescono a leggere queste nuove situazioni? come pensano di essere presenti nella nostra società?”.

La nuova evangelizzazione, della quale si parla tanto, per essere attuata ha bisogno di spazi, di uomini, di linguaggio, di stile, mentre fino a poco tempo fa il prete della Chiesa veneziana, incaricato di questo compito così affascinante, ma così difficile, aveva trovato la soluzione per il nuovo annuncio scrivendo su “Gente Veneta”, il settimanale della Chiesa veneziana: “Gocce di liturgia!”.

Ho paura che il “gap” tra la Chiesa e il mondo moderno stia purtroppo allargandosi ulteriormente.

(scritto il 20.06.2013)

Vacanze a casa assieme a Papa Francesco

Ho sempre avuto paura che le mie prese di posizione fossero azzardate e, peggio ancora, non in linea col messaggio di Gesù. Anche quando il mio intervento su qualche problema è netto e quasi tagliente, sotto sotto c’è sempre stata questa mia preoccupazione.

Ho sempre detto che io accettavo come mia “padrona di casa” solamente la mia coscienza, però non mi ha mai abbandonato il dubbio di essere presuntuoso o perlomeno che il mio pensiero potesse fare del male, cosa che ho sempre paventato e rifiutato. Quindi quando mi capita un avallo autorevole alle posizioni di pensiero, trovo non solamente soddisfazione “perché l’avevo detto io!”, ma anche mi tolgo il dubbio e trovo pace.

Faccio questa premessa per affermare la mia soddisfazione e la mia felicità per una “confidenza” fatta da Papa Francesco ai giornalisti, e vi dico perché. Forse qualcuno ricorderà che a suo tempo, avendo appreso dal Gazzettino che le due settimane di vacanza del Papa a Lorenzago o in Val d’Aosta venivano a costare svariati milioni, in modo un po’ scanzonato e senza pensarci più di tanto, avevo scritto sul mio diario: “Caro Papa, così non va, perché molti dei tuoi figli soffrono la fame”, e consigliavo il Papa di fare le sue vacanze – se proprio non poteva farne a meno – a Castelgandolfo.

Mai avrei immaginato che cosa ne sarebbe venuto fuori: un vero putiferio! La stampa locale, a cui fece seguito quella nazionale, amplificò la notizia di questo prete assolutamente sconosciuto che criticava il Papa, tanto che perfino “Le monde” pubblicò la notizia. Piovvero a cateratte dissensi e consensi. Venni poi a sapere che anche la Segreteria di Stato telefonò in Curia a Venezia e a Treviso per inquadrare il problema. Il Patriarca Scola non mi disse una parola, ma per un paio d’anni mi trattò gelidamente.

Ora che mi capita di sentire che Papa Francesco ha detto che ha ben altro da fare che andare in vacanza e che a Castelgandolfo ci andrà al massimo per un “Angelus”, mi vien da concludere che non dissi poi “un’eresia” e che neppure meritavo il rogo. So di certo che non è dipeso da me che Papa Francesco non abbia tempo di far vacanza, però sono felice di poter condividere la sua scelta.

(scritto il 15.06.2013)

Cristianesimo dal volto umano

Se ripenso alle mie prese di posizione contro un cristianesimo intellettualoide, di una Chiesa sofisticata, di uno spiritualismo disumanizzante, dovrei essere contento pensando che il Signore mi ha accontentato.

Quante e quante volte non ho tentato di dire che mentre tantissimi colleghi e tantissime “anime sante” sembravano tutte impegnate a spiritualizzare l’uomo, io, viceversa, ero e sono tutto teso ad umanizzare lo spirituale.

Con la rivolta della Cecoslovacchia è nata l’espressione: “Socialismo o comunismo dal volto umano”, espressione che esprimeva lo sforzo di sdogmatizzare una dottrina assurda che aveva provocato catastrofi enormi d’ordine umano, sociale ed economico. Forse è nato da questo fatto il mio desiderio di avere una Chiesa dal volto umano.

La mia sognata rivoluzione è durata più decenni, ma penso che finalmente sia arrivata; e la cosa più strana pare che sia arrivata non dal basso, come sarebbe naturale, ma dall’alto con Papa Francesco. Il nuovo Papa in un paio di mesi ha “sbaraccato” un modo di parlare delle cose di Dio che rimanevano incomprensibili ai più. Chi non ricorda quei “Sermoni-mattone” interminabili ed astrali? Quella sacralità che comprendeva perfino le scarpe del Pontefice, quella ieraticità per cui sembrava che tutto uscisse da un altro mondo.

Certo modo di pensare e di parlare sono rimasti nei sacri testi del breviario, ma essi si possono leggere come penitenza ed accettare perché ci arrivano dai secoli dei secoli.

Ora il nostro Papa sta calando nel quotidiano e nel comune sentire il messaggio di Gesù, senza subire l’intermediazione degli asceti, dei mistici e soprattutto dei teologi. Pare che finalmente la Chiesa sia decisa a vestire in blue-jeans e a parlare come si parla al bar, in famiglia o tra amici.

Purtroppo c’è qualcuno che teme che la Chiesa perda seguaci uscendo da quel clima di mistero ch’era più vicino al magico che allo spirituale.

Un mio amico, quando la Chiesa ha preferito l’italiano al latino, da anima pia qual’era, mi disse che la gente si sarebbe allontanata perché finalmente avrebbe “capito” quello che il prete diceva a Dio a nome del popolo durante la messa! Non è successo nulla! Anzi!

Quello di religioso che non è coniugabile con la vita, e con la vita di oggi, a mio modesto parere lo si può tranquillamente buttare, perché non ha nulla a che fare con il messaggio cristiano. Sono pure convinto che vi sono tante altre cose che la Chiesa e i cristiani è bene che mettano in soffitta, comunque mi pare che Papa Francesco sia determinato a continuare a far pulizia delle cose vecchie e di quelle fuori tempo.

Gerarchia e comunità

Qualche anno fa la meta di uno dei mini pellegrinaggi che facciamo con gli anziani del “don Vecchi” e con molti altri che si aggregano, è stata il Santuario della Madonna dell’Olmo.

Il nostro Veneto offre molti di questi luoghi sacri che si rifanno a visioni o miracoli particolari, santuari che godono la devozione soprattutto dei paesi della zona. Normalmente si tratta di belle ed antiche costruzioni, collocate in luoghi particolarmente suggestivi ed officiati quasi sempre da ordini religiosi. I frati ci sanno fare in queste cose!

Ricordo in quell’occasione d’aver incontrato un frate laico, uno di quelli che questua, e d’aver parlato di un giovane di Carpenedo che assieme ad un piccolo gruppo di giovani, si stava preparando a diventare frate cappuccino. Parlando del più e del meno, ho capito che era la comunità a decidere sull’accettazione o sui compiti da affidare ad ogni singolo religioso e il voto o il parere del frate da questua aveva lo stesso valore dei quello del padre guardiano, ossia del superiore.

Per molti anni ho sognato che qualcosa del genere avvenisse anche per la Chiesa locale e soprattutto per quello che concerneva i preti. Ho sognato che si preferisse alla Chiesa piramidale e gerarchica quella comunitaria in cui si adottasse lo stile di famiglia e tutto fosse fatto assieme.

E’ vero che più l’organismo diventa grande ed organizzato, più tutto questo diventa difficile, comunque ho sempre desiderato che in tutti i rapporti valesse di più il principio di relazioni informali, in un clima domestico e paritario, di quello verticistico.

E’ vero che i nostri vescovi e le nostre “autorità” oggi sono più alla mano di un tempo. Ricordo a questo proposito un vecchio prete che ogni volta che parlava del suo vescovo sottolineava, con spirito di rifiuto, le convocazioni che gli erano state fatte con l’espressione: “Vieni a palazzo!”. Ora non è più così, comunque è rimasto un po’ nell’aria qualcosa dell’organizzazione gerarchica, che spero si dissolva ulteriormente.

Mi sono ritornati in mente questi pensieri avendo letto ieri sul Gazzettino che il Patriarca, dopo quindici mesi dal suo ingresso in diocesi, ha nominato i membri del suo “governo”. Leggendo i nomi ho pensato che io devo essere contento apprendendo che un mio vecchio cappellano, monsignor Dino Pistollato, è stato nominato al vertice della gerarchia ecclesiastica della diocesi. La cosa però mi riguarda molto relativamente, avendo presente quello che il Patriarca mi ha fatto ben notare col suo “Sei vecchio!”.

Fantasticando, com’è mia abitudine, mi sono chiesto se sono riuscito a passare a questo nuovo superiore un po’ del mio spirito “anarchico e libertario”. Probabilmente no, perché è rimasto con me solamente un paio d’anni, tempo insufficiente per prendere il “bacillo”. Il fatto però che il Seminario sia diventato da “collegio” a “comunità” mi fa ben sperare perché esso formerà preti in questa direzione.

Pietà importata

Qualche tempo fa una parente di un defunto del quale il giorno dopo avrei dovuto celebrare il “commiato cristiano” – che tutti chiamano col nome ambiguo di “funerale” – alla quale avevo telefonato per avere qualche minimo ragguaglio sul defunto che non conoscevo, mi chiese di poter scegliere le letture per la liturgia. Capii immediatamente che si trattava di una aderente al “cammino neocatecumenale”. Scelse in verità uno dei passi quanto mai noti dell’Apocalisse che presenta “il paradiso” un po’ come un “banchetto di succulente vivande”.

Il giorno dopo mi chiese pure che una “sorella” di questo movimento neocatecumenale cantasse all’inizio e al termine della messa. Si presentò una giovane con la chitarra sulla spalla, portata a mo’ di fucile. Era una giovane dal volto bello e pulito, cantò con una voce calda all’inizio e al termine della messa accompagnandosi con la chitarra, due canti di origine spagnola, fortemente ritmati, ma dal tono assai tragico, pur inneggiando alla vita e alla misericordia del Signore, come lo sono tutti i canti del repertorio neocatecumenale.

Tante volte sono intervenuto sul mio particolare rapporto con questo movimento ecclesiale che s’è diffuso in tutto il mondo ed annovera milioni di adepti così disciplinati che paiono fatti a stampo. I neocatecumenali sono buoni cristiani, aderiscono in massa alle iniziative proposte dalla Chiesa, sono poi tra i pochi movimenti che offrono al Popolo di Dio nuovi sacerdoti, dimostrando una pietà intensa, senza tentennamenti, e sono quanto mai obbedienti ai loro catechisti.

Io, pur non aderendo, ho una profonda ammirazione per la loro testimonianza cristiana, ma purtroppo li sento quasi come un corpo estraneo che non riesce ad amalgamarsi con la nostra comunità cristiana. Perfino nei canti ho l’impressione che siano estranei alla sensibilità e allo stile sereno del nostro Paese; sento nel loro modo di credere, quella tragicità tipicamente spagnola che mi rievoca Garcia Lorca con il suo “Alle cinque della sera”. Comunque sono certo che anche per quella strada si possa andar diritti in Paradiso.