Anomalo?

La congregazione religiosa dei Paolini, fondata da don Alberione, si dedica in maniera specifica all’apostolato attraverso i mass media.

Un tempo questi religiosi gestivano delle librerie in tantissime città, avevano un’agenzia per la distribuzione dei films, stampavano un settimanale per ragazzi, “Famiglia cristiana”, il mensile “Jesus” ed un altro mensile, “Vita pastorale”, periodico che viene inviato gratuitamente a tutti i sacerdoti del nostro Paese. In quest’ultima rivista c’è una rubrica condotta dai più famosi liturgisti della Chiesa italiana, che rispondono ai quesiti posti dai sacerdoti.

Fino ad un paio di anni fa leggevo questa rubrica, non tanto per avere informazioni sui vari quesiti di ordine liturgico – perché in questo settore me la sbroglio da solo – ma per la curiosità di conoscere fin dove si spingeva la pignoleria di certi preti che pareva avessero la mania di interessarsi del “sesso degli angeli”.

Io di certo non appartengo alla categoria dei preti che hanno lo sfizio di cambiar parole, formule e gesti, ma neanche ritengo di dover sacrificare il mio spirito all'”idolo” delle rubriche e delle formule liturgiche. La mia tendenza attuale è puntare all’essenziale, considerare il rito in tutte le sue espressioni con solamente uno strumento per trasmettere il messaggio, ma tenermi a buona distanza dal “magico” e soprattutto privilegiare tutto quello che oggi può essere compreso dalla sensibilità dell’uomo di oggi. Se posso condensare il mio senso liturgico in una formula, confido che lo sia tutto quello che è bello, è comprensibile e soprattutto aiuta ad accostarmi al mistero ineffabile di Dio, il resto per me è sicuramente antiliturgico.

Il diritto alle vacanze e il dovere della carità

Ricordo che quando ero assistente alla San Vincenzo sono arrivato al limite della rottura con i seppur bravi volontari. Per quanto tentassi di ripetere che i poveri d’estate han più bisogno di sempre, non ci fu verso che riuscissi a far desistere qualcuno dall’osservare “il comandamento delle ferie”.

Una trentina di anni fa arrivai alla minaccia: «Se voi continuate a voler chiudere la mensa dei poveri ad agosto, io chiamo le suore della città a mantenerla aperta». Fu un fiasco, perché non ci fu suora che avesse risposto al mio appello. Il risultato massimo che riuscii a raggiungere fu quello di ridurre la chiusura a venti giorni piuttosto che tutto il sacro mese di agosto.

Quest’anno non è andata meglio degli altri. Hanno guadagnato la medaglia d’oro solamente la “Bottega solidale” e il “Chiosco di frutta e verdura del “don Vecchi”, mentre per il resto il KO è stato più o meno vistoso.

Comunque sempre KO è stato: per il Ristoro, la mensa della San Vincenzo, per la mensa dei Padri Cappuccini di via Olivi, per il Banco Alimentare di Carpenedo Solidale. Ancor più grave la sconfitta della mensa dei Somaschi di Altobello, la cui chiusura è arrivata al record di un mese e mezzo.

Proprio questa mattina ho letto nel breviario l’omelia di san Giovanni Crisostomo, il quale, ancor millesettecento-ottocento anni fa ammoniva i cristiani che era illusorio spender denaro per il corpo di Cristo che è in chiesa, mentre si trascurava quello che sta in mezzo a noi nelle vesti del povero.

Anche la Chiesa del nostro tempo ha tanta strada da fare per mettere in pratica l’insegnamento di Gesù. Io non ho l’autorevolezza del Crisostomo, comunque sento il dovere di dare questa deludente notizia.

Il pericolo dell’Isolotto

Mi pare che l’anno scorso sia morto don Mazzi, il prete fioretino che ha dato vita alla “parrocchia” dell’Isolotto.

Don Mazzi fu un prete non privo di intelligenza ed anche di zelo il quale, ai tempi del Concilio Vaticano Secondo, fece un miniscisma a Firenze.

Allontanato dalla parrocchia per le sue idee eccessivamente progressiste, riunì attorno a sé un piccolo gruppo di fedeli con i quali celebrava all’aperto in non so quale parte della città.

Come sempre chi sbatte la porta della “Casa paterna” si riduce in miseria. Così succede per le innovazioni che reggono e che devono essere portate avanti con coraggio, umiltà e pazienza sempre all’interno della comunità; chi rompe si riduce a diventare un transfuga con una sua piccola banda di sbandati.

E’ capitato così anche per i preti riformatori del ’68; si sono volatilizzati e la comunità ha continuato il suo cammino più pigra ed indolente di prima, da un lato perché la ribellione crea anticorpi di autoconservazione e dall’altro perché, essendo la stessa privata di elementi vivaci, intelligenti, assetati di verità e futuro, diventa più tarda, chiusa e meno vivace.

La repressione però degli elementi che mettono in discussione l’apparato, che aprono una dialettica costruttiva con superiori e colleghi e soprattutto tentano costantemente di coniugare la fede e soprattutto la religiosità con i tempi nuovi, è sempre un cattivo agire ed una perdita in assoluto.

Nella Chiesa attuale i veri profeti in questi ultimi tempi sono sempre rappresentati dai “dissidenti per amore” – vedasi don Mazzolari, don Milani, don Benzi e, ultimo della serie, il cardinale Martini.

Guai però costruire monumenti a questi profeti scomodi solo dopo la morte, occorre invece far circolare le loro idee e innestarle nel tessuto reale della Chiesa perché diventino sale e lievito che tormentino ma che diano vita.

E’ un grave errore ritirarsi nell'”isolotto”, ma è altrettanto grave cacciare questa gente che è scomoda e può avere un certo grado di irrequietezza ma che sempre palpita di vita. Il privarsi di loro equivale a privarsi dell’animo e tenersi un corpo tranquillo ma senza vita.

La fede occulta

Il Gazzettino è ritornato più di una volta a parlare della religiosità di quel Nordest a cui appartiene anche Mestre. Normalmente queste analisi si rifanno ad inchieste commissionate ad istituti specializzati. Credo che per i cristiani e soprattutto per preti e operatori pastorali, sia quanto mai importante tastare il polso della situazione per fare progetti, piani di lavoro e scelte coerenti. Normalmente questi sondaggi dell’opinione pubblica riguardano il territorio del Triveneto, però noi della diocesi di Venezia disponiamo dei risultati di una consultazione specifica svolta nel territorio della Chiesa di San Marco, non fatta per campione ma risultante dalla consultazione di tutti coloro che erano oggetto dell’indagine. Mi riferisco al sondaggio promosso una decina di anni fa dal patriarca Scola prima di iniziare la visita pastorale. E’ risultato che i partecipanti al precetto festivo, nella diocesi di Venezia, non raggiungono il venti per cento. Questa è la media ma ci sono delle parrocchie in cui non si supera il dieci per cento.

Il processo di scristianizzazione è evidente e comincia sempre con l’abbandono della pratica religiosa. Eppure sono convinto che per fortuna la fede, magari in maniera occulta, ma è ancora presente. Si tratta quindi di ravvivare il fuoco sotto la cenere grigia ed inerte.

Io premetto sempre un colloquio con i famigliari del “caro estinto”. Spesso mi si dice che egli era credente ma non praticante. Meno frequentemente, magari con qualche difficoltà, mi si dice che aveva un’etica, ma non era credente. In questo caso io mi faccio forte del fatto che nel battesimo il Signore l’ha adottato come figlio. Quindi, partendo dalla convinzione che se anche uno crede di non amare più Dio, Egli comunque continua ad amare i suoi figli di adozione, offro al Signore il sacrificio di Gesù e Gli chiedo di accoglierlo comunque in Paradiso perché, magari nelle forme più inusitate, sostanzialmente s’è rifatto a Lui nella sua condotta.

Pure in questi casi vedo che la gente partecipa, ascolta, prega e perfino, talvolta, si accosta all’Eucarestia. Questo mi dà modo di accorgermi che la fede, magari in maniera occulta, c’è ancora tra la nostra gente. Si tratta quindi di riattizzarla con pazienza e buona volontà.

Talvolta non basta il buon cuore

Quando mi imbatto in un problema, esso mi accompagna per lungo tempo perché la soluzione risulta sempre difficile. Spesso un affanno lo supero quando ne incontro uno di nuovo e di più urgente e di più grosso.

Ritorno quindi su un tormentone a cui ho accennato ieri, ossia l’urgente e grave necessità che nella nostra diocesi, o almeno nella nostra Mestre, venga creato un centro direzionale ed operativo che coordini i servizi caritativi esistenti, indirizzi a quello rispondente al bisogno del richiedente, accompagnandolo con una presentazione e soprattutto faccia opera di monitoraggio sulla situazione esistente segnalando alla città e ai suoi responsabili le carenze registrate perché vi si possa provvedere.

Oggi ritengo doveroso ritornare sull’argomento con un caso concreto. Da un paio di mesi peregrina per la città una famigliola rumena composta dal marito – credo poco più che trentenne – da un bimbo di un paio di anni e dalla moglie incinta che, a giorni avrà un secondo figlio. Alle spalle c’è uno sfratto per morosità, una incoscienza radicale unita a nessuna volontà di lavorare da parte del marito ed una completa e passiva incoscienza da parte della giovane sposa.

Da alcuni mesi questa famiglia sopravvive a Mestre chiedendo una casa e un lavoro ai passanti e ai preti. Una vita certamente molto grama; però essi non riusciranno mai a uscirne da soli e in città per loro non c’è una facile soluzione. Per caso li ho incontrati per strada indicando loro un possibile tentativo, ma molto probabilmente hanno trovato più conveniente continuare a vivere di espedienti. Finché si sono imbattuti in un giovane parroco della periferia, un prete intelligente, ma soprattutto generoso che momentaneamente, non sapendo da che parte voltarsi, ha offerto loro il suo garage. Fra qualche giorno sulla porta del garage della parrocchia apparirà un fiocco per “il lieto evento”.

A quest’uomo avevo suggerito di rivolgersi alla “Casa famiglia” della Giudecca che avrebbe ospitato sia la sposa che il bambino e quello nascente, oppure al “Movimento per la vita” che avrebbe aiutato questa famiglia di disperati, ma lui non ne fece nulla del mio consiglio.

Chi mai, incontrando prima o poi questa gente, potrà trovare una soluzione e chi potrà stare con l’animo in pace dopo aver incontrato un dramma del genere?

Solamente sapendo che la città e la chiesa sono così ben organizzate da poter offrire sempre una soluzione, magari provvisoria, ma sempre pronta ed esaustiva, un cittadino o un cristiano che poi contribuisca al suo mantenimento, può stare con la coscienza in pace, qualora incontrando questa famiglia le possa indicare con certezza chi è attrezzato ad aiutarla, senza che questa gente continui a pietire o ad approfittarsi del prossimo.

P.S. Al momento di andare in macchina abbiamo appreso che questa famiglia è stata aiutata a ritornare in Romania.

Un centro direzionale

Per una sensibilità, molto probabilmente ricevuta da madre natura, o dal fatto di essere nato in una famiglia di modestissime condizioni economiche, o forse per aver letto il Vangelo da un’angolatura particolare, fin da sempre sono sensibile alle condizioni dei poveri. Le situazioni di disagio incontrate lungo la vita, mi hanno sempre coinvolto e, per l’educazione ricevuta, ho sempre guardato con sospetto le grandi proclamazioni di principio privilegiando l’impegno concreto, anche se mi rendevo conto che raramente fosse risolutivo.

Quel poco che sono riuscito a realizzare è sempre nato da queste convinzioni e da questa filosofia di vita. Spesso sono stato incompreso, altrettanto spesso sono stato criticato dai vendivento del momento o da quanti predicano la carità preoccupati però d’avere la pancia piena e che le attese dei poveri non turbino la loro vita piccolo borghese.

Per grazia di Dio ho sempre tirato dritto ed ora, che sono giunto al tramonto dei miei giorni, non ho nessunissima ragione di cambiare. Mi rendo conto però sempre più che la mia Chiesa, ossia la diocesi di Venezia, avrebbe assoluto ed inderogabile bisogno di avere una cabina di regia.

Nella comunità cristiana di Mestre e di Venezia fortunatamente e per grazia di Dio vi sono numerose e belle iniziative di carattere solidale, parecchi servizi funzionanti ed un esercito di volontari che in essi sono impegnati, però sono tutte iniziative acefale, raramente intercomunicanti e per nulla messe in rete. Ritengo che la creazione di un “cervellone” – ed ora ci sono mezzi tecnici a disposizione per approntarlo – con qualche operatore a tempo pieno, magari assunto regolarmente e pagato dalla comunità, potrebbe mettere in rete e sviluppare sinergie quanto mai efficaci.

Io ho tentato di creare un sito mettendoci dentro le soluzioni per le richieste più diversificate, chiamandolo con la denominazione “Mestre solidale“, però da un lato non sono riuscito ad aggiornarlo e propagandarlo. Soluzione simile l’ha tentata monsignor Bonini del Duomo e, più di una volta, la Caritas diocesana, però questi tentativi restano strumenti freddi e inerti. Mentre credo che serva, si, uno strumento aggiornato al massimo, che fotografi le opportunità e i servizi disponibili per ogni singola situazione e sollevare il disagio degli operatori che suggeriscono ed accompagnano il povero che chiede aiuto.

I codini

Un tempo le persone un po’ effeminate ed untuose che fanno la corte agli uomini che contano, quelli che si lasciano andare a forme di servilismo esagerato, erano denominate “codini”, lacchè, portaborse. Ora pare che la società accetti più pacificamente queste forme di adulazione più o meno interessate che un tempo erano proprie dei servi, dei segretari, dei barbieri e categorie del genere.

Attualmente mi irritano certi rimasugli di questi atteggiamenti servili che mi pare di riscontrare negli addetti alle imprese di pompe funebri nei riguardi dei famigliari “del caro estinto”. Questo fenomeno, ahimè, lo riscontro ancora ben presente nell’ambiente ecclesiastico nei riguardi della gerarchia, un atteggiamento adulatorio e servile verso l’autorità, per possibili vantaggi a livello di carriera che si nasconde dietro la virtù dell’obbedienza.

Una lunga tradizione ed educazione mistica, favorita certamente da chi detiene il potere, per motivi perfino troppo facili da comprendere, ossia per facilitare il governo, è venuta a esaltare la “virtù della santa obbedienza” inducendo praticamente gli inferiori al “signorsì” del mondo militare.

Ritengo che l’obbedienza sia tutt’altra cosa che l’esporre con rispetto le proprie opinioni che talvolta possono essere diverse e perfino opposte a quelle del superiore. Io non arrivo a parlare, come qualcuno ha teorizzato, della “virtù della santa disobbedienza”, però ritengo che il rapporto debba essere sempre franco, onesto, virile, perché solamente così si dimostra rispetto per l’autorità e soltanto così si può trovare il coraggio di obbedire anche su qualcosa che non si ritiene giusto ed opportuno.

Purtroppo talvolta è più comodo e più facile offrire un consenso formale; questo è un doppio male perché non si è onesti, non si ha vero rispetto per l’autorità e soprattutto si abitua il superiore a non confrontarsi e ad accettare opinioni diverse dalla sua.

Rosmini ha parlato delle cinque piaghe della Chiesa, non so se il servilismo sia una di queste, comunque di certo è uno dei suoi difetti.

La tariffa

Un mio amico, che conosce le mie idee circa il ministero sacerdotale e il rapporto del prete con la sua gente, poco tempo fa mi ha portato un trafiletto. Lo pubblico per intero, avendo però cancellato il nome del sacerdote, della parrocchia e del luogo dove sarebbe avvenuto il fatto.

Credo che la notizia provenga da certa stampa che è avvezza a raccogliere spazzatura anticlericale e antireligiosa e perciò bisogna inquadrarla in questo contesto.

Dalle nostre parti sono convinto che le cose non stanno così, però credo che anche nel nostro ambiente avvenga qualche eccezione alla norma di un comportamento più saggio. Soprattutto ho la scusante che qualche religioso (prete o frate, poco importa) applichi invece in maniera pedissequa, senza un po’ di tatto e di sensibilità, certe norme della curia che hanno pur una qualche giustificazione, ma appaiono di cattivo gusto e quanto mai venali, qualora non vengano accompagnate da qualche parola che inquadri la questione e soprattutto non tenga conto della sensibilità dei singoli fedeli e non sia sempre disposto alla duttilità e alla disponibilità a fare tutte le possibili eccezioni. Eccovi il trafiletto.

Il prete a tariffario
(lettera firmata)

Nei giorni in cui si svolgevano i solenni funerali del cardinale Carlo Maria Martini, ricordato da tutti, laici e credenti, per la sua visione “moderna” della Chiesa, si celebrava il trigesimo della morte di mia madre, officiato da don Peppino. Ad agosto non è stato possibile perché era in ferie e, si sa, le messe per i morti possono aspettare. Ed eccolo sull’altare abbronzato, scocciato, annoiato per quel rito che deve ripetere ai parenti della defunta, una ventina di minuti tirati al massimo, non di più. I parenti si avvicinano per le condoglianze, e nella calca chiedo a mia sorella cosa le ha chiesto don Peppino per il disturbo. Indovinate? Cento euro. Non ha detto “fate un’offerta” qualcosa a piacere, ma più prosaicamente cento euro. Come se ci fosse un prezziario per le funzioni.

Attualmente i sacerdoti percepiscono uno stipendio che permette loro, senza fare i salti mortali, di vivere decorosamente nella sobrietà. Per noi, preti in pensione, le cose non vanno diversamente. A me pare quindi che ci siano delle soluzioni che permettano alla religione e al sacerdote di star ben al di sopra di qualsiasi rapporto economico e qualsiasi remunerazione specifica per la preghiera.
Pur essendo convinto che è comprensibile che il fedele, in determinate occasioni, accompagni la richiesta di una intercessione con Dio, con una offerta per i poveri e per i bisogni essenziali della comunità.

Quando la gente, per una brutta abitudine imparata dalla vita sociale, ma anche dai preti, domanda: «Quant’è, che cosa le debbo?» mi pare che il rispondere: «Niente, ma comunque, se crede di fare un’offerta la destiniamo ai poveri» (e poi farlo, si capisce!), non dico sia più elegante, perché qui non si deve trattare di furbizia o di eleganza, ma di stabilire un rapporto umano e spirituale di più alto livello.

Questo comportamento credo che sia a tutto vantaggio della fede e della stima verso il sacerdote.

Il monaco e la tonaca

Con i tanti problemi che ci sono nella vita, quello della divisa non è certamente uno dei più importanti, però credo che dobbiamo prestare una qualche attenzione anche a questo.

La divisa normalmente serve per cogliere, fin da subito, la funzione che una persona esercita all’interno della società. Fin qui tutto va bene. Motivo per cui ritengo giusto che poliziotti, soldati, magistrati, ecclesiastici, medici ed altri ancora, indossino degli indumenti il più possibile conformi al corpo sociale di cui fanno parte.

Per uno sportivo le vesti devono essere leggere, funzionali, in maniera che gli arti si muovano con libertà. Per un militare invece, la divisa deve esprimere ordine, severità, deve incutere fin di primo acchito rispetto e soggezione. Più difficile è sempre risultato per i magistrati, i quali, quasi sempre, si rifanno a toghe fuori uso, spesso eccentriche, che credo esprimano il legame col passato e con la tradizione, quindi vesti non legate al tempo.

Per gli ecclesiastici poi la scelta è sempre stata anacronistica ed ancora più difficile. La talare era ingombrante, femminile ed insignificante. Fu scelta dai preti per dimostrare fedeltà al Pontefice e rifiuto dello Stato italiano dopo Porta Pia. Infatti, non appena il Concilio lo permise, fu abbandonata in un battibaleno da quasi tutti e le si preferì il clergiman, più adeguato ai tempi. Volesse poi il Cielo che i preti rimanessero fedeli a questa divisa più sobria e funzionale!

Per le vesti liturgiche poi, credo che il problema sia ben lontano dall’essere risolto. I paramenti dovrebbero di per se stessi dimostrare che chi li porta rappresenta la comunità che si mette a colloquio con Dio. In realtà, spesso, essi sono ampollosi, spagnoleschi, ridondanti, tanto da apparire ad un occhio critico, goffi e fuori dal mondo.

Ci sono stati tanti tentativi di semplificazione che il basso clero ha accolto, mentre l’alto clero si muove ancora nella ridondanza di qualcosa che spesso sembra assurdo e tendente al magico.

C’è, pare, qualche tentativo, però non ho l’impressione che attecchisca. Ho letto su un supplemento de “L’espresso” che il vescovo di Marzara del Vallo (Sicilia), nel suo desiderio di innovazione, ha fatto studiare dalla casa di moda “Armani”, un paramento innovativo e poi si è fatto fotografare come in passerella. Questo mi pare un po’ troppo! Comunque mi piacerebbe vedere il risultato.

Io continuo a sognare una veste di assoluta semplicità, ma contemporaneamente essenziale nella sua dignità.

I poveri di famiglia

Ieri ho fatto qualche annotazione amara circa l’organizzazione e la pratica della virtù cardinale della carità all’interno delle comunità parrocchiali. Non è la prima volta che lo faccio e certamente non sarà l’ultima. Sono ben consapevole della sorte toccata al “grillo parlante” del Collodi, però ci sono delle denunce talmente doverose, che credo si debba essere disposti a pagarle anche a caro prezzo.

Senza scomodare i termini impegnativi quali testimonianza o profezia, guai se verranno a mancare le voci scomode che denunciano storture, carenze e deviazioni.

E’ più che mai doveroso affermare a chiare lettere che una parrocchia che non abbia una lucida conoscenza dei suoi poveri – e col termine “poveri” intendo non solamente quelli che non riescono ad avere il necessario per vivere, ma anche gli infermi, gli anziani soli, le persone colpite da drammi gravi, disoccupati, ecc. – non è una parrocchia che possa fregiarsi del titolo di comunità cristiana.

La solidarietà esige conoscenza aggiornata e capacità di risposta, avendo a disposizione personale e mezzi da impiegare. In una città come la nostra c’è pure l’esigenza di strutture e servizi a livello cittadino, cosa che una singola comunità, per quanto grande e ben organizzata, non riesce a promuovere e sostenere, e che perciò devono essere promossi e gestiti dalla collettività nel suo insieme – e qui torno ancora una volta al progetto della “cittadella della solidarietà” che dovrebbe nascere ed essere gestito con la collaborazione dei singoli e delle comunità parrocchiali.

Ogni parrocchia però, se vuol essere non solo di nome ma anche di fatto una comunità cristiana, non può prescindere da un minimo di organizzazione interna, attraverso la quale si fa carico dei suoi fratelli fragili e bisognosi di aiuto. Oggi però questo avviene in un numero assai ridotto di comunità parrocchiali.

La comunità

Nella Chiesa s’è sempre parlato di comunità, ma ai nostri giorni se ne parla più di sempre.

Monsignor Vecchi, che cito di frequente e non potrei fare altrimenti, perché lui fu uno dei maestri che incise maggiormente sulla mia educazione – era solito dire che quando si cita tanto di frequente un termine, significa che la gente ha già smarrito la sostanza. Credo che avesse ragione perché le nostre comunità di fede, ossia le parrocchie, a livello di spirito comunitario sono tanto striminzite e carenti, per cui il dialogo tra i loro membri e l’aiuto reciproco sono pressoché venuti meno. Se poi si esamina con obiettività e sano realismo l’impegno che la comunità dovrebbe necessariamente avere nei riguardi dei più poveri, c’è veramente da essere preoccupati e delusi.

Un tempo la gente si conosceva all’interno della parrocchia e quasi sempre dava personalmente una mano a chi annaspava nel bisogno, ma oggi c’è una organizzazione sociale e una mentalità che esige sempre associazioni, servizi e strutture che avvertano i bisogni e diano una risposta.

Gli strumenti nati nelle parrocchie e nell’ultimo mezzo secolo, per aiutare i poveri, sono la San Vincenzo, la Caritas – che è giunta più tardi e ne è una copia mal riuscita – e, un tempo, il tentativo del FAC (fraterno aiuto cristiano) che però mi pare sia totalmente scomparso. Al di fuori di questi gruppi caritativi si possono trovare in qua e in là, altri servizi diversi, ma sono pochi e spesso sorgono ove c’è già una sensibilità ed una qualche organizzazione di solidarietà.

La situazione, a mio avviso, è semplicemente desolante. Spero che l’anno della fede, proclamato all’interno della Chiesa italiana, produca il frutto naturale della fede che è la carità. Mi auguro che quest’anno ci sia una fioritura a livello personale e parrocchiale di questa virtù. Se ciò non avvenisse vorrebbe dire che l’anno della fede sarebbe fallito.

L’anno della fede

La Fondazione Carpinetum sta perseguendo un progetto, un sogno, o forse un’utopia. Però sono convinto che essi siano i più validi per celebrare seriamente l’anno della fede, che per essere autentica e credibile deve diventare solidarietà.

La Cittadella della solidarietà sarebbe così il frutto più genuino dell’anno della fede. Per quanto riguarda il progetto, avendo la curia avocato a sé la sua realizzazione, mi pare che ai fedeli della base rimanga solamente il dovere di pungolo, cosa che speriamo facciano.

Per quanto riguarda invece il “Villaggio solidale degli Arzeroni” il finanziamento per il “don Vecchi 5” c’è quasi già. Per tutto il resto (l’ostello per i famigliari degli ammalati, degli operai ed impiegati poveri, dei senzatetto, gli appartamenti per i mariti divorziati, gli alloggi per il vecchio clero, gli alloggi per i disabili e quant’altro) penso che la Fondazione possa offrire alle parrocchie principali la possibilità di realizzare ognuna una di queste strutture. Volete che San Lorenzo, il Sacro Cuore, via Piave, non possano fare quello che Carpenedo ha già fatto? Per le parrocchie più piccole potremo proporre degli abbinamenti: San Pietro Orseolo con Santa Maria Goretti, la Favorita con San Lorenzo Giustiniani, ecc.

Se per la fine del 2013 a Mestre ci sarà questo gran cantiere della solidarietà, credo che sarà meglio del coro della Fenice per cantare la gloria di Dio.

Il Patriarca Luciani

Rai tre in questo ultimo tempo ha offerto degli ottimi servizi sugli avvenimenti principali della seconda metà del secolo scorso. Ho seguito con interesse quei documentari perché gli avvenimenti descritti li ho vissuti in prima persona anche se dal “loggione”, o guardando per il buco della chiave.

Queste ricostruzioni storiche mi hanno offerto dei tasselli interessanti, che io non avevo colto perché offerti dalla stampa che quasi sempre legge gli avvenimenti da un punto di vista interessato. Ad esempio io non avevo colto fino in fondo il fatto che la IOR, banca vaticana, ha venduto a Calvi, tramite la mediazione di Sindona, su ordine di Marcinkus, la Banca Cattolica, quel gioiello di famiglia dei cattolici veneti che essi avevano costruito con tanti sacrifici.

Aldo Nicolussi, il mio vincenziano direttore di suddetta Banca, non lasciava passare occasione per condannare i vescovi del Veneto per aver ceduto anche “quella perla di gran valore!”. Ora però, che ho capito come il nostro Patriarca Luciani ha dovuto amaramente subire “l’esproprio” di questo ente da parte del Vaticano, ancora una volta mi sento portato a rivendicare l’autonomia di scelte e di giudizio da parte delle Chiese locali, che non dovranno ridursi a pedine in mano di poteri occulti che tramano da lontano. Credo che anche a questo livello il concetto di corresponsabilità dei fedeli col loro vescovo e di apporto critico, vada ripensato, ma soprattutto valorizzato.

“L’amico” del clero

Un tempo si stampava “Amico del clero”, una rivista che dava anche dei buoni suggerimenti, ma era soprattutto preoccupata di informare su tutti i diritti dei preti. A quei tempi la curia ci abbonava obbligatoriamente a questo periodico.

Io, che allora ero molto più garibaldino di adesso, respinsi la rivista affermando che essa rappresentava sostanzialmente un vero “nemico” perché sempre preoccupata di difendere i diritti del clero. Per me il prete deve essere sempre in prima linea, fuori dalla trincea, se vuole avere l’autorità di guidare i cristiani verso una vita di impegno e di servizio.

Qualcuno mi ha detto che dopo Mazzini in Italia non c’è più stato nessuno che abbia parlato dei doveri dei cittadini. Oggi credo che sia male blandire il ceto sacerdotale, mentre sia giusto ricordare che per quanto i preti si impegnino, sono ben lontani dall’essere in croce come il nostro Maestro. In tempi difficili credo si debba ricordare che la dedizione per le anime deve essere ancora maggiore di sempre.

Il laico Gesù

Sto riflettendo con sempre più interesse sul fatto che Gesù non entrò mai a far parte della gerarchia ecclesiastica. Non faceva parte del Sinedrio, né era un levita, tanto meno un fariseo o uno zelota; anzi, ebbe parecchi scontri con gli ecclesiastici del suo tempo, ossia con coloro che gestivano la Chiesa di allora, tanto che essi se la legarono al dito e quando capitò loro l’occasione opportuna lo mandarono a morte.

Mentre appare chiaramente e tante volte dal Vangelo che Gesù fu un uomo profondamente religioso: pregava prima dei pasti, invocava il Padre Celeste nei momenti più importanti, faceva spessissimo la carità, passava nottate in preghiera e aveva un rapporto costante ed intenso con Dio.

Gesù non era assolutamente né areligioso, né non praticante, però è sempre rimasto fedele alla sua coscienza e si è accostato alla sinagoga, e in essa ha preso la parola, quasi esclusivamente per difendere l’uomo e sbugiardare chi faceva un uso improprio della religione in genere e dei riti in particolare.