Il Papa di montagna

Qualche settimana fa il primo canale della Rai ha messo in onda una fiction su Papa Luciani. Come sempre accade questo tipo di trasmissioni non raggiunge quasi mai un alto livello artistico; per quanto poi riguarda la storia lascia alquanto a desiderare. Queste trasmissioni normalmente non sono di un grado molto superiore ai fumetti.

Di positivo c’è stata la straordinaria rassomiglianza fra Papa Luciani e l’attore che lo impersonava: sia il volto che la parlata si avvicinavano veramente all’originale. C’era poi qualche bella scena girata nell’Agordino e qualche altra a Venezia. Per tutto il resto si avvertiva quanto mai la finzione scenica sia nella narrazione che nella rappresentazione del personaggio.

Quello che avvertiva uno come me, che ha conosciuto da vicino il vecchio Patriarca, era quanto difficile, quasi impossibile, per il cinema riprodurre la realtà. Mentre per lo scritto si può puntualizzare più efficacemente il clima, la sensibilità, lasciando anche spazio alla memoria o alla fantasia di chi rievoca un personaggio, per la macchina da presa questo è estremamente più difficoltoso e il risultato è sempre goffo e poco fedele. Nella fiction poi, in cui si impegnano meno soldi, questo risulta ulteriormente più difficile.

Quello che invece ho colto e che mi pare un dato assolutamente reale, è lo smarrimento, il bisogno di un uomo semplice, onesto ed umile, che in Vaticano, nonostante l’ambiente religioso, appare indifeso e fuori posto in una realtà purtroppo artificiosa, popolata da gente che, tutto sommato, ha una mentalità politica, dove la fede non gioca un ruolo primario.

La morte di Papa Luciani è stata di certo un dono che l’ha liberato da una croce troppo pesante. Credo però che il suo pur rapido passaggio, abbia destato nel cuore dei credenti il desiderio di un Papa di forte semplicità, di autenticità e di coerenza tra messaggio e vita reale.

Questa attesa ed esigenza che Papa Luciani ha fatto emergere nella coscienza dei cattolici penso sia stato un dono immenso per la Chiesa di Dio.

Betlemme in versione terzo millennio

Ho telefonato ad un mio collega per segnalargli il caso pietoso di un’anziana signora che vive nella sua parrocchia sola nonostante un’incipiente demenza senile. Questo, a sua volta, mi ha chiesto aiuto per una giovane coppia con un bambino di due o tre anni ed un altro in arrivo fra pochi giorni.

Non sapendo che cosa fare e a chi rivolgersi – ma nessuno di noi, per quanta buona volontà ci metta, sa cosa fare – li aveva ospitati nel suo garage. Da un paio di mesi questa famigliola ha bussato a tutte le porte civili e religiose, senza trovare risposta.

Per mangiare e vestire la nostra città ha qualche disponibilità, ma per ospitare non c’è proprio nulla. Perfino all’asilo notturno i senzatetto da qualche tempo sono costretti a turnarsi, ma comunque il rifugio dei barboni non sarebbe stato adatto per questo caso.

L’inettitudine del Comune è senza limiti. Pare che, specie ultimamente, esso si sia dedicato agli sperperi (vedi i 30 milioni per le fondamenta, inutili, del Palazzo del Cinema) o ad impedire, a chi si impegna per i poveri, di portare avanti i suoi progetti sociali, mediante una burocrazia dissennata ed irresponsabile. Non parlo tuttavia solo del Comune, ma mi riferisco pure alla mia Chiesa. Possibile che la nostra diocesi non possa affrontare qualcosa almeno per le emergenze?

La cittadella, con il relativo ostello per chi ha bisogno di un tetto da un paio d’anni è stata appesa alla “virtù della carità soprannaturale”. Oggi, come duemila anni fa, non c’è posto in alcun “albergo” per il bimbo che deve nascere!

Unità pastorali e comunità sacerdotali

Il processo di accorpamento delle parrocchie è un processo irreversibile dovuto alla carenza del clero, all’assottigliarsi della frequenza religiosa dei battezzati e alla complessità organizzativa delle parrocchie.

Fino a una trentina di anni fa s’è proceduto ad assottigliare le comunità parrocchiali moltiplicandole. Ora comunque la vita impone un processo inverso.

Ricordo come il cardinale Agostini si sia impegnato in maniera lodevole per assicurare ad ogni zona in sviluppo un prete ed una chiesa. Attualmente questo discorso non è più possibile. Credo che sia preferibile una grossa parrocchia con almeno due preti, piuttosto che due parrocchie più piccole con un prete ciascuna.

La sinergia produce dei vantaggi più che evidenti. Però in questo processo, che ritengo irreversibile ed anche positivo, non sento mai parlare della formazione di comunità sacerdotali che sono la condizione “sine qua non” perché la cosa funzioni.

In una comunità in cui più preti vivono assieme, ognuno può contribuire con le sue risorse specifiche, si è costretti al confronto e all’edificazione reciproca, si elimina l’isolamento, soprattutto si possono impegnare le forze quando occorrono ed infine si eliminano i doppioni che sprecano inutilmente energie.

Vivere assieme è difficile, però oggi penso sia l’unica strada percorribile se non si vuole arrivare all’inedia e all’inefficienza. Se in queste comunità entrassero anche i laici di ambo i sessi a condividere l’impegno pastorale, saremmo all’optimum!

Accelerazione sulla promozione del laicato

Sono decenni che sento parlare della promozione del laicato. Qualcosa s’è fatto, soprattutto a livello teorico, però se tutto dovesse dipendere da noi, credo che nella Chiesa ci vorrebbero almeno altri cent’anni perché ai laici cristiani sia concesso di assumersi i ruoli che potrebbero e dovrebbero svolgere all’interno della stessa.

Per fortuna, e per grazia di Dio, la realtà – ossia la diminuzione costante del clero – ci costringe a fare quello che dovremmo fare per scelta e per coerenza ideale. Perfino in politica – che è tutto dire – si è ricorsi a dei professionisti del settore per tentare di raddrizzare l’economia del Paese.

Pur vivendo ai margini della vita diocesana mi capita di vedere delle castronerie veramente gravi a livello economico e gestionale, perché finora non s’è mai avuto il coraggio di chiedere ad un laico preparato, piuttosto che ad un prete incapace, di gestire il patrimonio e gli affari economici della comunità cristiana.

Ora, essendoci sempre meno preti, bongré o malgré, presto si sarà costretti a fare quello che a parole s’è detto che era giusto fare. Questo vale per tutti gli aspetti della vita ecclesiale, ma in particolare pare estremamente urgente si debba farlo a livello amministrativo.

Ultimamente si è venuti a conoscenza di sbagli veramente gravi che hanno portato allo sperpero significativo di denaro che avrebbe potuto essere impiegato in maniera più assennata per la carità.

Il “don Vecchi” è in mano quasi totalmente ai laici e finora essi hanno gestito da volontari in maniera intelligente e positiva un patrimonio assai consistente. Il prete, semmai si deve riservare il ruolo di “bandiera”, di colui che prospetta utopie e predica il Regno a tutti i livelli.

Impalcatura ecclesiastica e vita normale

Io partecipo troppo poco agli incontri per l’approfondimento culturale, teologico e pastorale del clero, perché sono vecchio, perché sono appassionato delle cose di cui mi occupo e perciò non mi resta tempo per altro, ma soprattutto perché ho avuto esperienze non esaltanti. Io sono diffidente e sospettoso per l’eccessiva burocratizzazione della vita ecclesiale, perché temo finisca per separare “il commando” e la sua relativa articolazione con la prima linea ove i sacerdoti si misurano con l’uomo reale del nostro tempo, che ha pregi, difetti, manie e preconcetti che gli derivano dall’opinione pubblica, ma che comunque è l’uomo con il quale abbiamo a che fare.

I comitati, le commissioni e quant’altro, finiscono per complicare le cose, per parlarsi addosso, perdono il contatto reale con le persone perché adoperano parole e schemi mentali che sono del tutto o in gran parte, estranei alla mentalità dell’uomo d’oggi.

Io ritengo che solo vivendo a stretto contatto con la gente, nasce un rapporto di simpatia e di comunione per il quale l’intesa e il passaggio del messaggio diventa possibile. Wualom, il fondatore dei “piccoli fratelli di Gesù” ha elaborato questa prassi per dare testimonianza della fede agli uomini del nostro tempo. Vivere “come loro”, ossia calarci dentro alla vita, alla cultura, alle abitudini e alla sensibilità dell’uomo della strada.

Se potessi dare un suggerimento, direi a tutto lo “stato maggiore” di trascurare un po’ le discussioni ad alto livello, per dedicarci maggiormente al dialogo con la base: preti, diaconi e, soprattutto, fedeli.

I “miei” frati

Qualche settimana fa ho dedicato l’editoriale de “L’incontro” alla presenza dei religiosi nella nostra città, presenza ancora relativamente numerosa, anche se un po’ in declino, come del resto avviene per tutti gli ordini religiosi e per tutte le congregazioni. Durante i cinquant’anni che ho vissuto all’interno della Chiesa della nostra città, ne ho visti passare di frati, tanti e diversi, ma quelli che mi sono rimasti nel cuore sono una mezza dozzina ai quali voglio dedicare una memoria riconoscente.

Padre Simeone, con la sua barba bianca e la sua voce pacata. Non aveva una buona eloquenza, ma possedeva un cuore buono, capace di consolare e di distribuire a piene mani la misericordia di Dio.

Il cappuccino padre Sigismondo, sempre presente e sempre disponibile a fare un piacere ai poveri parroci. Arrivava perfino a fare qualche piccolo sotterfugio di nascosto dei suoi superiori pur di dare una mano.

Padre Francesco Ruffato, l’intellettuale ricco di una carica umana che ha dato vita ai maggiori supporti della cultura cristiana in città.

Padre Evaristo, il frate degli operai del dopoguerra, che aveva una schiera infinita di postulanti per un posto di lavoro. Viveva da assediato ma a tutti dava una speranza.

Padre Matteo, parroco dell’Addolorata, anima ardente, apostolo ottimista e ricco di fede che si è speso per la sua gente senza risparmio.

Padre Antonio, il frate degli stabilimenti di Marghera, apostolo serio e impegnato, poche parole ma fedeltà assoluta alla sua missione.

In questo mezzo secolo saranno passati per Mestre tanto altri bravi frati, ma questi sono quelli che hanno brillato di una luce più bella e più intensa.

Il traguardo finale

I frati si stanno modernizzando. Ad Assisi e Pompei fanno a gara ad organizzare megaconcerti con i cantautori meno lontani dalla religione.

Qualche domenica fa, nel primo pomeriggio, mi è capitato di vedere e ascoltare in televisione un megaconcerto condotto da Giletti, il giornalista scapolo della Rai che è sempre disponibile a dare una mano ai religiosi. In quella serata si alternavano canzoni all’esterno della Basilica della Madonna del Rosario ed interviste di Giletti all’interno del tempio voluto da Bartolomeo Longo.

Giletti ha intervistato Vecchioni, il quale ha confessato che la speranza fa da supporto alla sua fede. Poi ha intervistato il vescovo Comastri. Infine un certo monsignore che ha conosciuto personalmente madre Teresa di Calcutta.

Giletti ha chiesto al suo interlocutore quale fosse la dottrina di fondo di questa donna di Dio, lui le ha risposto che per madre Teresa il silenzio e l’umiltà hanno come frutto la preghiera, la preghiera a sua volta produce la fede, la quale genera l’amore. Non ricordo proprio bene i primi passaggi, ma sono certo dell’ultimo: “la fede non ha come fine se stessa, ma di natura sua deve generare l’amore”.

Credo che san Giacomo sia del tutto consenziente ed io pure, checché ne possano pensare tutti i teologi e tutti i mistici di questo mondo! Credo che se tutti la pensassero così, la Chiesa avrebbe più credibilità e seguito anche nel mondo di oggi e non andrebbe a morire in quei riti che pochi ritengono importanti per la vita.

Prediche noiose

Ho letto recentemente la critica di un volume che ho subito ordinato. Un certo monsignor Giulio Dellavite, che non so chi sia perché di monsignori ce ne sono una caterva, lo avrebbe scritto con l’intenzione di ricondurci al Vangelo per riscoprirne il gusto.

La cosa mi ha incuriosito, il fatto poi che il volume sia edito dalla Mondatori mi è garanzia del suo valore. Mi son detto subito: “Vuoi vedere che ho incontrato finalmente chi mi può insegnare a predicare; anche se sono alla fine mi piacerebbe terminare in bellezza i miei sermoni domenicali, sempre tanto sofferti!”. Con mia felice sorpresa, a questo proposito, mi sono imbattuto in una perla veramente preziosa. Il cardinale Ratzinger, attualmente Papa Benedetto XVI, avrebbe detto: «Il miracolo della Chiesa è di sopravvivere ogni domenica a milioni di pessime omelie».

Confesso che immediatamente il diavoletto che fa da contrappeso al mio angelo custode, mi ha subito fatto osservare: «Perché qualcuno dei tuoi capi non ricorda a Papa Benedetto che sebbene sia il pontefice non deve rimanere dentro la categoria dei preti noiosi: i suoi discorsi saranno pur pregni di teologia, ma non sono proprio esaltanti!».

Spero che qualche cardinale ceda alla tentazione di ricordarglielo. Nel frattempo mi rassereno col consiglio che Mauriac dà ai fedeli: «Non giudicate Dio dalla balbuzie dei suoi ministri»!

Le vacanze del prete

Quanto sono insofferente e critico nei riguardi del “prete borghese” e funzionario tranquillo dell’azienda Chiesa, altrettanto e più sono ammirato dal prete che non si risparmia e si spende per la sua comunità, non a parole ma con i fatti.

Qualche tempo fa don Gianni, l’attuale parroco di Carpenedo, è tornato dal campo dei suoi scout: 180 ragazzi sotto le tende. Ma all’inizio delle sue “vacanze” aveva guidato il grest in parrocchia, 130 ragazzi, e dopo, nella casa di montagna della comunità, la Malga dei Faggi, tre turni di ragazzi e giovani.

Non sono moltissimi i preti di questo stampo, ma fortunatamente ce ne sono ancora. Se potessi dare un consiglio a chi colloca preti appena sfornati dal seminario, gli direi: «Fategli fare un’esperienza in una di queste parrocchie che funzionano, perché non potranno mai dire “non è possibile!” e non potranno mai rassegnarsi al deserto o ad una sopravvivenza parrocchiale stantia».

Passato e futuro della carità

Il cardinale Scola mi pare abbia stimmatizzato l’inattività e il piangersi addosso dei veneziani, invitandoli a credere in se stessi ed a giocare il ruolo che loro compete, avendo alle spalle la tradizione gloriosa della Serenissima.

Il vecchio Patriarca alle parole ha fatto seguire l’esempio, creando dal nulla una nuova università: il Marcianum.

M’è piaciuto ed ho condiviso la sua scelta di non rimanere ai bordi dei problemi della nostra città e il suo sforzo di essere sempre protagonista negli eventi importanti della città tentando di offrire a tutti i livelli e in ogni circostanza il contributo che attingeva dal pensiero cristiano.

Spero tanto che il nuovo Patriarca gli sia complementare, sviluppando la dimensione orientale della proposta cristiana: la carità, componente essenziale del messaggio di Gesù, rianimando e mettendo in rete strutture e servizi nati nel passato. Noi del “don Vecchi” gli offriamo fin da subito due progetti ambiziosi ed innovativi: “La cittadella della solidarietà”, che è andata a finire nel limbo, e il “Villaggio solidale”, che sta “germogliando” agli Arzeroni. La componente orizzontale della Chiesa veneziana oggi ha particolarmente bisogno!

Il nostro tesoro

Venerdì 10 agosto lo studio di architettura Mar-Cecchi-Casaril ha presentato in Comune e in Regione il progetto del “don Vecchi 5”, prima struttura del “Villaggio solidale degli Arzeroni”.

Proprio il 10 agosto la Chiesa celebra il martirio e il messaggio del diacono di Roma san Lorenzo. Questo santo mi è particolarmente caro perché nella chiesa del duomo di Mestre a lui dedicata ho vissuto i primi 15 anni del mio servizio sacerdotale e perché san Lorenzo mi ha fornito una indicazione determinante nel mio modo di impostare il mio sacerdozio.

S. Lorenzo disse, indicando i poveri al prefetto, espressione della società di allora: «Questa è la ricchezza della mia Chiesa». Oggi, con un pizzico di orgoglio, posso anch’io ripetere alla città: «Questa è la mia ricchezza: i poveri!» Di ciò sono felice, spero però di non andare a finire in graticola per questa mia scelta!

Lo stesso maestro e discepoli diversi

Un mio collega, che in verità non è la prima volta che afferma di non condividere il mio operato, ha criticato una volta ancora, sul suo periodico, il fatto che io chieda offerte per aiutare i poveri e che io mi adoperi per creare strutture a favore di chi è in difficoltà. Io prendo sempre in considerazione le critiche e perciò ho fatto un serio esame di coscienza.

Ecco le conclusioni: Primo: monsignor Vecchi, che fu mio maestro di vita, diceva che le persone alle quali chiedeva contributi per i poveri dovevano essergli riconoscenti perché li aiutava a far del bene e a guadagnarsi il Paradiso. Io sono ancora di questo parere. Secondo: il mio collega afferma che il prete ha il compito di educare, mentre spetta allo Stato dar risposte e servizi a chi è in difficoltà. A questo proposito Gesù, mio principale, ma anche principale del mio collega, disse ai suoi discepoli – e noi siamo gli epigoni di quei discepoli -«Date voi da mangiare alla folla» e poi, lui in persona, completò l’opera.

Lo stesso Maestro, in altra occasione molto più importante – perché si trattava dei criteri con cui saremo giudicati – disse: «Avevo fame, sete, ero senza vestiti, senza casa, in ospedale e in carcere… e tu?».

Ora il mio collega può pensarla come vuole, ma se vuole pensarla come Gesù, nostro Maestro, sta sbagliando di grosso!

La messa d’estate

Sono stato parroco per 35 anni e per tutti questi anni d’estate e d’inverno nella mia parrocchia il numero e l’orario delle messe festive – estate e inverno – è rimasto inalterato: 8 – 9 – 10 – 11 – 12 – 18 – 19. In più, nel vicino convento delle suore, si celebrava una messa alle 7 ed in cimitero, che è nel territorio della parrocchia, un’altra ogni domenica.

Sentendo talvolta qualche critica di colleghi, ero preoccupato di esagerare e perciò, soprattutto d’estate, contavo le presenze, ma mai siamo andati al di sotto di 70 fedeli per messa, un numero che mi pareva giustificasse la celebrazione.

Forse io sarò stato e sono un maniaco della regolarità e del dovere di servire veramente la comunità però quando, qualche settimana fa, ho letto che in una parrocchia di 4.500 abitanti si celebrava, durante l’estate, una sola messa la domenica, m’è parso che fosse decisamente poco.

Questo è per la messa. Ho però l’impressione che questo criterio sia attuato per tanti altri aspetti della pastorale parrocchiale. C’è stato il caldo, c’è la secolarizzazione in atto, però quello che è poco rimane poco.

L’indotto della crisi

Qualche giorno fa un mio collaboratore mi ha presentato un suo “volontario” che avrà bisogno di un alloggio.

Il breve colloquio preliminare mi ha dato modo di definire subito “il soggetto richiedente”. Da quattro anni e mezzo non paga un affitto convenzionato col Comune a circa 200 euro mensili. Non riesce a trovare lavoro, ha in più, alle sue spalle, una famiglia sfasciata. Le sue figlie vivono con la madre. Negli stessi giorni un signore che mi ha impietosito, mi ha telefonato dicendomi che ha difficoltà a pagare l’affitto, benché i tre mesi precedenti glieli avessi pagati io.

Potrei continuare a presentare casi su casi.

In periodi di floridezza economica questi soggetti riuscivano a campare in qualche modo di espedienti. Ora non più. La crisi ha messo in difficoltà tante aziende, le quali han dovuto chiudere o tirare i cordoni facendo saltare quell’indotto di cui beneficiavano soggetti che in qualche modo campavano sull’efficienza di quelle aziende.

Chi mai, oggi, può assumere qualche soggetto che sia meno che valido? Per mangiare e vestire ancora si trova, ma per dormire è impossibile trovare un posto letto in città.

Avevamo proposto “La cittadella della solidarietà” che prevedeva anche un ostello per le varie gradazioni di povertà. Il progetto è fallito, soprattutto per l’indifferenza dei responsabili della carità della Chiesa veneziana. Ora, al primo incontro col nuovo Patriarca, riproporrò l’iniziativa come una esigenza prioritaria, sperando nel suo appoggio.

La sentenza

L’annullamento del matrimonio da parte dei tribunali ecclesiastici è stato un problema che mi ha sempre lasciato molto perplesso. Teoricamente mi par di aver capito e di condividere che talvolta possano essere compiuti degli atti umani formalmente ineccepibili, ma che nella sostanza mancano di requisiti essenziali, per cui si dovevano ritenere nulli e ininfluenti sulla vita. Ma il meccanismo concreto per questa sentenza impostato secondo gli schemi giuridici, mi ha sempre dato la sensazione di qualcosa di puramente legale che ha poco a che fare con la vita e soprattutto con la fede.

Qualche giorno fa è venuto da me un vecchio amico che mi ha mostrato la sentenza di annullamento del suo matrimonio, nozze che egli ritiene assolutamente valide di fronte a Dio e a cui, in coscienza, si sente di rimanere fedele. Non entro in merito alla sentenza perché non ho né la preparazione né elementi per un giudizio, però da come è redatta e, peggio ancora, per la sua relativa comunicazione, ho avuto la sensazione di qualcosa di talmente freddo, formale, disumano, che di certo non ha assolutamente niente a che fare col senso religioso della vita.

Santa Madre Chiesa credo che tra le tante cose da ripensare, debba fare un pensiero anche a questo tribunale per riportarlo nell’alveo dell’umano e della misericordia di Dio.