Una breve supplenza

Don Gianni, il parroco attuale di Carpendo, mi ha chiesto il favore di supplirlo per una decina di giorni essendo impegnato al campo degli scout. Don Gianni quest’anno s’è concesso una “bella vacanza” in una vallata del Trentino a stretto contatto con la natura e soprattutto con duecento scout della parrocchia – tanti sono a Carpenedo i membri di questa associazione.

Le “vacanze” di don Gianni sono veramente eccezionali: ha dormito per terra in tenda, mangiando quello che i cuochi dodicenni riuscivano a cucinare, dal primo mattino a tarda notte in apprensione per i suoi ragazzini che maneggiano l’accetta per le “costruzioni”, in pena ogni volta che uscivano dal campo per qualche “impresa” che solo i ragazzi sanno inventare. Poi, tornato a casa, la gente gli domanderà: «Si è divertito?». Infine persino lui penserà di dovermi essere riconoscente per aver celebrato la messa vespertina per qualche settimana!

Poveri preti! Se tutto va bene, ma è difficile che accada, genitori e fedeli penseranno di essere loro ad avergli fatto un piacere affidandogli il loro figliolo. Ma se qualcosa non andasse, la critica, e peggio l’accusa, è già pronta. Solamente chi, come me, è vissuto per mezzo secolo queste vicende, sa che cosa “costa” una bella parrocchia e l’educazione dei nostri ragazzi!

Quando un tempo partecipavo ai campi scout, aggiungevo ogni giorno alla preghiera di rito che la liturgia stabilisce, un’altra preghiera che sul messale portava il titolo: “Ad petendam serenitatem”, ossia una preghiera perché il buon Dio mandasse bel tempo, perché con la pioggia la vita da campo è una vera calamità.

Nella settimana, da “supplente” ho sempre aggiunto una preghiera perché don Gianni e i suoi collaboratori sopravvivessero alle loro “vacanze”.

Neanche spero che i parrocchiani conoscano il prezzo del tentativo di fare dei nostri ragazzi degli uomini e delle donne per bene, ma prego perché almeno essi non debbano pagare un sovrapprezzo.

Grazie

Una mattina, appena finita la messa festiva, una persona quanto mai buona, certamente colta, è venuta in sagrestia per ringraziarmi per la predica. Sarei un gran bugiardo se dicessi che non mi fa piacere ricevere qualche complimento, però il piacere più sentito è nato dal fatto d’essere stato ringraziato per la tesi che da anni tento di portare avanti, ossia che l’Eucaristia domenicale non deve assolutamente ridursi ad un rito, pur celebrato bene, con devozione e con dignità, dal canto alla compostezza, dal silenzio alla partecipazione, ma deve essere un evento vivo ed esistenziale, sempre unico e nuovo, che ci fa fare un’esperienza viva e diretta di un incontro con Gesù.

Il discorso è partito dalla pagina del Vangelo che narra degli apostoli che riferiscono a Gesù ciò che avevano fatto durante la settimana. Non vorrei illudermi, ma ho la bella impressione che nei nostri incontri religiosi pian piano stiamo scoprendo il vero volto di Dio attraverso una religiosità che diventa di domenica in domenica sempre meno formale, ma che rappresenta un evento che ci coinvolge a livello esistenziale.

Peccati veniali

Il grande Rosmini ha scritto sulle sette piaghe della Chiesa. Sono convinto che queste piaghe non si sono ancora totalmente rimarginate, tanto che talvolta sanguinano ancora.

I nostri ultimi Papi, con grande coraggio e con notevole onestà, hanno chiesto solennemente perdono al mondo per i “peccati mortali della Chiesa”: le crociate, l’inquisizione, le simonie, il nepotismo, le guerre di religione, ecc.

Leggendo però ultimamente il diario di don Didimo Mantiero, un umile e santo prete del vicentino vissuto nella prima metà del novecento, ho capito una volta di più che per i peccati veniali, che in verità sono molti, non tutti tanto leggeri e soprattutto ancora presenti, nessuno ha mai chiesto scusa (vedi trasferimenti di preti con troppa disinvoltura, concessioni a certe perpetue arpie che sottopongono alla tortura preti principianti, parroci gelosi della bravura del cappellano, delatori alla curia di vere o presunte debolezze del curato, mancanza di rispetto delle opinioni personali, sospetti di simpatie affettive vere o presunte, ecc.)

Nel diario pulito e candido di questo santo prete, che s’è speso tutto per la gioventù e finì la sua vita come parroco di Bassano, è candidamente esposta una serie notevole di questi “peccati veniali” di cui, chi li ha commessi, non solo non si è pentito, ma anzi li ha ritenuti virtù.

Sono convinto che la lettura di questo diario farebbe bene a chi occupa qualche grado nella gerarchia ecclesiastica.

Mezzo punto in più per Pisapia

In queste ultime giornate ho avuto modo di apprendere dalla stampa le “scaramucce” tra il cardinale Scola, arcivescovo di Milano e Pisapia, sindaco della stessa metropoli. Il motivo del contendere sta nell’istituzione del “Registro delle unioni di coppie omosessuali”.

Mi trovo inizialmente d’accordo sia con l’uno che con l’altro: col nostro vecchio Patriarca perché difende la famiglia conforme alla natura e alla Rivelazione, e con Pisapia perché in qualche modo vuole inquadrare nella legge quelle unioni tra persone dello stesso sesso, perché sono una realtà presente e perché ritengo giusto che in qualche modo rientri nell’assetto della nostra società.

Confesso che sarei tentato di dare mezzo punto in più al sindaco Pisapia, perché Gesù stesso ha rifiutato un certo integralismo che vorrebbe risanare con la forza situazioni ritenute anomale. Ho avuto un supporto a questo mio giudizio dalla lettura fatta questa mattina durante la messa quando Gesù proibisce ai servi della parabola di estirpare la gramigna. Possiamo sempre convivere, ci penserà Dio a giudicare!

L’anno della fede

M’è giunto recentemente dalla curia il programma per “l’anno della fede”, che inizierà con una solenne celebrazione eucaristica in piazza san Marco a metà ottobre.

Il Patriarca ha accompagnato il calendario della manifestazione con una lettera appropriata, ricca di unzione religiosa. Mi ha invece sorpreso e deluso il programma perché non vi ho trovato nessuna iniziativa a riguardo dei cosiddetti “lontani”: dei cristiani di altre religioni, dei maomettani e dei non credenti.

Forse il nostro nuovo Patriarca non è stato informato che circa l’ottantacinque per cento dei battezzati della diocesi non partecipa al precetto festivo, che i matrimoni civili superano quelli religiosi, che è in aumento il numero dei genitori che non battezzano i loro figli, che perfino si sta iniziando a non celebrare neppure i funerali in chiesa.

Di certo la fede è un dono di Dio che va chiesto con la preghiera, però è pur vero che Gesù ai discepoli ha detto in maniera decisa: «Andate!» e san Paolo ha caricato la dose con quel suo: «Insistete, in maniera opportuna e perfino inopportuna».

Non so cosa ha fatto il cardinale Suard quando ha scoperto che la sua Parigi era “terra di missione”, comunque penso che qualcosa si possa e si dovrà pur fare.

Un vecchio sogno per i giovani

L’approccio col diario di don Didimo Mantiero “Il volto più vero” mi ha fatto emergere un ricordo che credevo ormai sepolto da moltissimi anni e che era riemerso una decina di anni fa per ricadere poi quasi subito nella fossa del passato.

Il discorso, almeno per me, è quanto mai interessante e potrebbe perfino offrire a qualche responsabile della diocesi un’idea per realizzare qualcosa che fosse una risposta ad un problema pastorale non solo non risolto, ma che va aggravandosi di anno in anno.

Monsignor Vecchi aveva l’umiltà, e soprattutto l’intelligenza, di accertarsi su tutto quello che facevano gli altri e desiderava verificare sul campo ogni iniziativa per controllare direttamente sia la validità, sia i tentativi per risolvere i problemi.

Molte delle realizzazioni nate nella parrocchia del Duomo di Mestre una quarantina di anni fa, molte iniziative, ebbero come matrici queste ricerche e queste prese di visione delle esperienze esistenti in altre comunità. Così è stato per il settimanale della parrocchia, per Ca’ Letizia a riguardo dei poveri, per il Rifugio san Lorenzo, per l’attività estiva dei giovani e ragazzi, o la radio locale e per tante altre iniziative.

Si diceva in quegli anni che a Bassano avevano realizzato “Il Comune dei giovani” con tanto di sindaco ed assessori eletti dai giovani. Andammo a vedere e scoprimmo una struttura enorme e poliedrica. C’era dentro di tutto: sport, cultura, ricerca religiosa, musica, divertimento, veramente un mondo dedicato ai giovani.

Capimmo fin da allora che i nostri patronati erano asfittici e non avrebbero mai potuto essere un centro di vero coagulo per la gioventù perché le parrocchie che li promuovevano erano troppo piccole e non avrebbero mai avuto la forza di sostenere un centro così complesso ed articolato.

Cominciammo a progettare, ma io fui trasferito e monsignore aveva bisogno di una spalla ideale ed operativa che gli venne a mancare. La cosa morì lì.

Una decina di anni fa proposi il progetto ai confratelli del mio vicariato, constatando che i relativi patronati erano morti o moribondi. La cosa non andò avanti perché qualcuno che apparentemente appoggiò il progetto aveva altri sogni personali ed altri non amavano imbarcarsi in un’avventura che richiedeva coraggio, soldi e personale e soprattutto appoggio forte da parte del “governo centrale”.

Ora, leggendo il “diario” del prete vicentino, pubblicato solamente da poche settimane, vengo a scoprire che l’ideatore e il realizzatore di questo progetto innovativo è stato proprio lui, don Didimo Mantiero, il sacerdote che papa Ratzinger ha definito “uno dei più grandi parroci del nostro tempo”. I profeti parlano anche da morti.

Don Didimo Mantiero

Avevo letto sul quotidiano “L’avvenire” la presentazione del un diario di un prete vicentino, nato nel 1912, che dopo essere passato per alcune piccole parrocchie della diocesi di Vicenza, terminò la sua vita come parroco a Bassano del Grappa. Leggendo la critica rimasi immediatamente incuriosito, sia perché il discorso sui diari dei preti, scritti a scopo pastorale, mi interessano perché ho modo di confrontarmi su una materia che mi impegna ogni settimana, sia perché nella presentazione si parla di un prete e di uno scritto che ha come punto di riferimento e di confronto le opere di due scrittori importanti, Bernanos, col suo “Diario di un curato di campagna” e Guareschi col suo “Mondo piccolo”, che racconta la vicenda di don Camillo, il parroco di Brescello.

Secondo motivo a suscitare il mio interesse sono le parole con le quali il Papa attuale Ratzinger, definisce don Didimo Mantiero, il protagonista di questo diario, affermando che egli è una delle figure più belle di parroco del nostro tempo e quelle di monsignor Giussani, il notissimo educatore di giovani, fondatore di “Comunione e liberazione”, che definisce questo umile parroco come un grande pedagogo del nostro tempo, che sorretto da una fede forte e generosa, affronta il difficile compito di educare la gioventù attuale.

Partendo da queste premesse avevo deciso di comperarmi il volume, sennonché un caro amico mi ha preceduto donandomelo, avendo intuito che ne sarei stato interessato.

Ho cominciato a sfogliarlo e sono stato così preso da questa figura pressoché indefinita di sacerdote, che ho avuto subito la tentazione di sospendere le letture in cui ero impegnato per leggere il racconto pulito, limpido, immediato e profumato di apparente ingenuità, ma anche di un sano realismo e di fede forte che anima il racconto di questo prete della pedemontana.

Per mettere a fuoco il “diario” e il suo autore, ne riporto una mezza paginetta, certo che presenterà in modo più autentico questo prete vero e fedele discepolo di Gesù a mia edificazione e a quella dei miei amici.

Mi misi in testa che proprio io, pretino da pochi mesi, dovevo avvicinare e convertire quella specie di bestione che era stato e continuava a essere lo spauracchio dei frati e dei preti.
Fatti i miei piani, da bravo sacerdote, li manifestai al Signore Gesù.
Andavo a trovarLo nelle ore in cui la chiesa era deserta e mi prendevo la confidenza di salire i gradini dell’altare.
Toccavo con riverenza, ma con la semplicità del fanciullo, il rosso conopeo, lo baciavo, quasi fosse stato, quello, un lembo della veste del Signore. Poi con l’indice della mano destra davo leggeri e confidenziali colpettini alla porta del tabernacolo, non so se per chiedere permesso o se per «svegliare» il Signore in riposo, e Gli parlavo così:
«Gesù, stammi a sentire. C’è un grosso affare in vista.
C’è l’anima di quel grosso peccatore da convertire: Vuoi, Signore, che facciamo l’affare? A cose fatte, io Ti lascerò l’anima del signor X e Tu mi lascerai la soddisfazione di avertela portata.

Eppure un prete così candido ha convertito una città e messo in piedi una struttura veramente grandiosa.

Due “prediche” importanti

Qualche settimana fa ho letto la pagina del Vangelo della quindicesima domenica per la mia amata comunità che sarebbe venuta a prendere luce e coraggio dall’incontro settimanale con nostro Signore.

Il Vangelo riportava il messaggio di Gesù ai suoi discepoli a cui aveva dato il compito di continuare l’annuncio di salvezza che Egli aveva iniziato durante i tre brevi anni di ministero pastorale della sua vita pubblica.

Il brano precisava con dovizia di particolari lo stile e le modalità che essi dovevano adottare: «Andate, non portatevi né pane, né denaro, né niente altro. Combattete il male, invitate la gente alla conversione». Così disse Gesù e aggiunse: «Se non vi ascoltano, scuotete la polvere dalle vostre calzature e proseguite«.

Mentre me ne stavo di fronte al foglio bianco per gli appunti, mi sono subito detto: “Questo discorso riguarda me, non i miei fedeli!” Poi compresi che era doveroso che io dicessi anche a loro quali siano i preti da ascoltare: quelli che vivono poveramente, che fanno discorsi semplici e da Vangelo, ossia che invitano alla conversione, combattono la cattiveria e stanno accanto a chi soffre.

Mi ricordai subito di san Paolo che ha detto: «Io non ho niente altro da annunciarvi se non Gesù che è vissuto e morto per la nostra salvezza». Ho l’impressione che noi preti dobbiamo recuperare la povertà di vita e di linguaggio. Ciò che è diverso (una vita brillante con vestiti firmati, automobili costose, vacanze frequenti o discorsi elucubrati ed arzigogolati) non ha nulla a che fare con Gesù e il suo messaggio.

A riprova di questo devo confessare che mi mettono in crisi positiva e mi fanno del bene solo coloro che vivono con questo stile evangelico, mentre i discorsi teologici complessi, fatti da personaggi cattedratici, non solo non mi toccano, anzi spesso destano nel mio animo una reazione contraria.

Ho sempre presente due “predicatori” e le relative “prediche” che non dimenticherò mai.

La prima: una sera stavo per mettermi a cena, quando due giovani fiorentini del “Cammino neocatecumenale” con i loro zainetti sulle spalle, chiesero di parlarmi e poi mi dissero: «Padre, siamo qui a ripeterle che Dio è misericordioso e che ha mandato suo figlio Gesù a salvarci!».

La seconda: due piccole sorelle di Gesù che condividevano, vivendo in una roulotte, la vita degli zingari, mi chiesero di aiutarle a trovare un lavoro per mantenersi, ma un lavoro umile come lavar le scale, perché avevano scelto di vivere come i più poveri.

Di tutte le “prediche” che ho ascoltato nella mia lunga vita, queste due sono quelle che ricordo di più e che mi hanno fatto più bene. Ho capito bene che Gesù una volta ancora ha ragione.

Alcuni preti non vanno in vacanza

La mia rassegna stampa è molto veloce e sempre mattutina. Ogni giorno, d’estate e d’inverno, mi alzo alle 5,30, riordino la mia persona e la mia stanza, poi mi dedico alle pratiche di pietà: breviario, meditazione e lettura spirituale.

Ora sto leggendo la vita dell’Abbé Pierre, un vero “mostro” di impegno solidale in tutti i settori della vita. Io ritenevo che quest’uomo fosse diventato famoso per aver “inventato” la raccolta degli stracci per rendere autonomi i barbomi e per redimerli ad una vita sociale degna di questo nome. Apprendo invece che ha lottato per tutte le cause che interessano gli “ultimi” della società.

Alle 7 suor Teresa mi offre lo yogurt e una tazza di caffelatte. Alle 7,30 parto per aprire la “cattedrale dei cipressi”. La mezz’ora tra le sette e le sette e mezza mi serve per la colazione e per la lettura del quotidiano. Scorro velocemente i titoli e leggo si e no un paio di articoli.

Questa mattina il Gazzettino riportava una inchiesta che mi rabbuiò alquanto: pare che nel Nordest stia calando il consenso verso il Sommo Pontefice, la Chiesa fa fatica a dialogare con la gioventù, l’opinione pubblica avrebbe meno fiducia nell’istituzione religiosa, perché la vorrebbe più reattiva e più carismatica.

Non serviva che me lo dicesse l’inchiesta del Gazzettino, perché, pur vivendo ai margini della nostra società, ho modo di accorgermi di questa pesantezza, di questo fiato grosso, di questa carenza di iniziativa. Io colgo soprattutto i fenomeni più visibili e che certamente non sono determinanti.

Proprio ieri un mio collaboratore mi suggeriva di diminuire le copie de “L’incontro” perché nel periodo delle ferie tutte le chiese aprono tardi sia al mattino che al pomeriggio ed alcune poi aprono solamente alcune ore del mattino e della sera. Certamente questi segnali non sono incoraggianti, anche se sono a conoscenza che vi sono preti e parrocchie che stanno dandosi da fare per il grest, per i campi estivi, ossia sono impegnati nella “pastorale estiva”.

Purtroppo i sindacati, anche se non si sono infiltrati nel clero, hanno fatto i loro danni col promuovere i “diritti dei lavoratori ecclesiali”: orari, ferie e quant’altro. Mi pare che i protestanti ci siano arrivati prima nel fare del sacerdote un impiegato della parrocchia piuttosto che un profeta, però ho la sensazione che anche noi subiamo questa tentazione.

Tuttavia, sempre in un bollettino parrocchiale, ho letto questo trafiletto che è stato un vero antidoto e un motivo di speranza sul domani della Chiesa. Un fedele domanda al suo parroco come sta passando le sue vacanze. Risposta:

Bella domanda, anzi, domanda impropria.

Sono appena tornato dal campeggio e subito qualcuno mi ha chiesto se mi sono riposato, disteso, divertito ecc. Vorrei che a questa domanda rispondessero i cuochi che sono lì a far da mangiare per una sessantina di famelici ragazzi, e vorrei che fossero loro non solo perché abbiamo condiviso la fatica dalle 6 del mattino alla 22 della sera, ma anche perché mentre i ragazzi ed i giovani hanno gli occhi foderati di prosciutto e non s’accorgono se non dei propri bisogni, loro che sono adulti vedono e capiscono.

No, caro Massimo, niente vacanze per un prete. Semmai il lavoro cambia ma rimane sempre tanto tantissimo.

Dunque a parte la settimana in campeggio, i dodici giorni al campo scout e un’altra settimana per il campo mobile, il tempo che passo in parrocchia lo dedico agli impegni “urgenti” (soprattutto funerali, ma anche qualche matrimonio); al “custodire” Chiesa, canonica, centro; a visitare ammalati L’unica “vacanza” è che alla sera non ci sono tutte quelle riunioni che ci sono durante l’anno, e questo per me è già un sogno. Al mattino non mi pesa alzarmi presto (al campeggio ho sempre sentito i rintocchi delle campane che lungo la valle segnavano le 5 del mattino), ma alla sera non riesco a tenere gli occhi aperti e appena posso mi ritiro in tenda e prendo sonno nel giro di un minuto. E così faccio anche a casa. Sai una cosa?

Siccome in tutti questi anni non ho mai fatto ferie e da tantissimo non mi prendo una giornata di libertà, se dovessi mettere insieme tutte le ferie saltate e tutte le giornate di riposo rinunciate, potrei starmene senza far niente per … cinque o sei anni.

Un bel po’ di pausa, no?

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Penso che se tutti i preti si comportassero così, le inchieste ci riferirebbero risultati ben differenti.

Ho finalmente celebrato a sant’Andrea

Qualche giorno fa, dopo infinite peripezie, durate ben sette anni, ho avuto l’opportunità di dir messa in un piccolo borgo ai margini della nostra città. Confesso che ho provato una profonda emozione nel vedere questa chiesetta pulita, ordinata, munita di tutte le suppellettili per la liturgia.

All’ora fissata, verso il tramonto, pian piano sono arrivati una trentina di fedeli, la gran parte donne anziane, ma c’erano pure degli uomini e qualche donna di mezza età.

Mi raccontarono che un tempo il borgo era vivo, si diceva messa ogni domenica, c’era pure la scuola. Poi i giovani cominciarono ad andarsene, i bambini furono dirottati in altre scuole, qualche persona è emigrata in città, tanto che ci sono alcune case chiuse che i proprietari non riescono a vendere..

Salii l’altare. Dapprima ebbi l’impressione di impersonare il protagonista di un romanzo di Gran Green, quando un uomo sconosciuto si presenta a pochi abitanti di un villaggio da cui la persecuzione aveva cacciato il parroco, dicendo: «Sono un prete, posso celebrare?». Poi la mia mente andò al vecchio prete del film di Olmi “Il villaggio di cartone” che si era trovato senza più fedeli, con la chiesa vuota ed inutile. Ma poi capii subito che la situazione non era la stessa, perché nel villaggio di Olmi i fedeli avevano abbandonato, mentre qui tutti avevano desiderato avere un prete tutto per loro.

Cominciai un po’ titubante, sentendomi in una chiesa per me sconosciuta, anche se accogliente, ma poi, quando sentii cantare a voce spiegata i canti della Chiesa, il mio animo si aprì alla fraternità e m’apparve caldo e incoraggiante il volto di don Serafino, il vecchio parroco di quella gente che per molti anni aveva “seminato” a larghe mani la fede. In seminario lo chiamavano “testa di ferro”, tanto era convinto e determinato nella sua fede e nella sua missione.

Un tempo a Mestre non c’era chiesa più affollata, più partecipe alla vita parrocchiale e alla liturgia della Chiesa, non c’era parrocchia in cui tutti i fedeli cantassero con entusiasmo quanto a Sant’Andrea.

Terminata la messa scambiai contento qualche chiacchiera con i fedeli nel sagrato di quella chiesa e di quel borgo un po’ tagliato fuori dal contesto della città.

Me ne tornai felice di aver scoperto della gente con una fede così semplice ma radicata, che con nostalgia e con rimpianto riandava al passato, quando la fede si manifestava in maniera rigogliosa anche nel loro villaggio.

Per me l’unico rimpianto è d’essere ormai tanto vecchio da non sapere per quanto tempo e come potrò aiutare questa cara gente a camminare assieme verso la casa del Signore.

“Mestre, terra di missione”

Periodicamente mi reco dal primario Di Pede per il controllo al cuore. Tra le tante magagne ho anche quella del cuore stanco e perciò bisognoso di controlli e di aiuti. Puntualmente questo medico amico ausculta e mi fa l’elettrocardiogramma. Io invece, che mi preoccupo della sorte della Chiesa a cui appartengo, ne verifico la “salute” e le prospettive di vita leggendo i bollettini parrocchiali in genere e, in particolare, quello della mia vecchia parrocchia dei Santi Gervasio e Protasio di Carpenedo, della quale sono stato responsabile per ben 35 anni.

Il bollettino diretto dal nuovo parroco, don Gianni, è un periodico veloce, prevalentemente informativo; non trascura però anche qualche proposta religiosa espressa in maniera sommaria senza eccessivi approfondimenti.

Nel numero 2131 dell’8 luglio scorso di “Lettera aperta” ho letto una notiziola che mi ha sorpreso e soprattutto grandemente preoccupato. Riporto esattamente la notizia e di seguito qualche considerazione personale.

BENEDIZIONE DELLE FAMIGLIE
Durante l’ultimo anno pastorale i sacerdoti hanno cercato di visitare le famiglie della parrocchia portando, a chi lo desiderava, la benedizione del Signore. Possiamo dare un primo sintetico bilancio. L’avviso è stato portato a circa 2330 famiglie. Di queste 1120 hanno accolto il sacerdote. Altre 1142 sono state assenti, mentre altre 68 hanno rifiutato l’incontro, quasi sempre senza spiegare la ragione. Fin qui i cenni di statistica. Elementi più completi cercheremo di darli all’inizio del prossimo anno.

Prima reazione che ho provato, leggendo questo scarno trafiletto su argomento quanto mai importante, è stata di sollievo. Per me il “presidio sul territorio” è assolutamente necessario come elemento basilare per ogni soluzione pastorale.

La seconda, circa la reperibilità, mi ha lasciato perplesso. In verità mai io avevo pensato di conteggiare gli assenti e i presenti. Gli assenti di certo non potevo conteggiarli come “rifiuto”, poiché oggi il numero medio per famiglia credo che sia uno e mezzo, perciò è quanto mai facile che in casa non ci sia nessuno per via del lavoro. Comunque, essendo rimasto 35 anni in parrocchia, prima o poi ho avuto modo di incontrarli tutti.

La terza nota mi ha lasciato di stucco: “sessantotto hanno rifiutato l’incontro, quasi sempre senza spiegare la ragione”.

Sette anni fa “i parrocchiani che mi hanno rifiutato più o meno cortesemente” erano non più di quattro o cinque. Di certo oggi la presenza di mussulmani è più numerosa, però settanta rifiuti sono veramente tanti! Mi è venuta in mente la lettera pastorale di quarant’anni fa del cardinal Suard: “Parigi, terra di missione”

Ora il responsabile della Chiesa mestrina può scrivere purtroppo anche lui: “Mestre, terra di missione”. Il guaio però è che l’impianto pastorale non si discosta generalmente di molto da quello dei tempi di Pio X nonostante questa situazione estremamente diversa.

La ricchezza spirituale e la forma

I Papi, lungo i secoli, si sono spesso definiti come “i servi dei servi di Dio”. In verità, quando penso al nostro povero Papa, costretto ogni giorno e per ogni evenienza a leggere i lunghi discorsi preparati dagli uffici di curia in cui ogni volta si tira in ballo, per dritto e per rovescio la storia, la teologia, la Bibbia, costretto a lasciarsi trascinare a destra e sinistra, a sorridere, a benedire, stringere mani e baciare bambini, mi rendo conto fin troppo bene di quanto siano pesanti “le chiavi di Pietro” e di quanto sia faticoso il suo ministero.

Nella sostanza quindi sono fin troppo convinto della estrema fatica di questo servizio pastorale, specie dovendo essere portato aventi in una stagione della vita in cui le forze fisiche e intellettuali vengono meno per tutti.

Io riterrei giusto che entrasse nella prassi della Chiesa che ad una certa età anche i Papi, come i preti ed i vescovi passassero la mano a ministri di Dio più giovani e più forti. Auspicherei inoltre che pure l’immagine esterna del “servitore” all’apice della gerarchia ecclesiastica s’avvicinasse un po’ di più a quella del “servo” che del “regnante”.

E’ sempre ancor vero che non è “la tonaca che fa il monaco”, ma è altrettanto vero che la “tonaca” è ancora un segno del contenuto.

I “sacri palazzi” e “le sacre vesti”, così come gli appellativi, non rappresentano purtroppo in maniera immediata le caratteristiche del “servo” di cui parla il Vangelo. Reputo che il popolo di Dio riesca a cogliere ancora la ricchezza spirituale che per grazia di Dio alberga nel cuore dei Papi del novecento e di questo inizio del terzo millennio.

Noi cristiani di oggi non dobbiamo fortunatamente faticare per cogliere la santità personale, la sacralità del ministero dei nostri Papi, perché la Divina Provvidenza ci ha donati degli splendidi pontefici ricchi di carisma e di virtù, però non guasterebbe un aggiornamento ed una semplificazione anche negli aspetti esteriori troppo legati a gusti, culture e tradizioni ormai totalmente scomparsi nella nostra società, oppure relegati in istituzioni marginali alla vita che vegetano in binari morti e senza domani.

Questo processo di purificazione è certamente in atto e la gente della mia età avverte l’evolversi positivo di questo processo, però sembra ancora lento per essere al passo con la sensibilità dei cristiani del nostro tempo.

Questo discorso, evidentemente, riguarda il vertice come l’ultimo parroco delle periferie perché ormai è nella sensibilità di tutti che la ricchezza spirituale abita nella sostanza piuttosto che nella forma.

L’annuario

La settimana scorsa una volta ancora mi sono lasciato andare alla curiosità morbosa di prendere conoscenza della “ricchezza” della mia diocesi, messa in bella mostra nell'”annuario”.

Ogni anno viene pubblicato un volume assai consistente di pagine e più ancora di notizie, indirizzi, enti e persone che costituiscono la nervatura della Chiesa veneziana. Ho già scritto che provo sempre, in occasione di questa “visura”, due reazioni contrapposte: una di orgoglio per essere parte di una realtà così ricca di persone e di istituzioni impegnate per realizzare “il Regno”, la seconda di perplessità di fronte a tanta organizzazione di cui, io perlomeno, non riesco ad avvertire e soprattutto a beneficiare.

In quest’ultima rivisitazione mi sono soffermato qualche momento su una dicitura che compare forse solamente da un anno: “Ordo virginum”.

Tra le tante realtà ho scoperto che a Venezia c’è, seppur striminzita, una organizzazione ufficiale di donne vergini. L’annuario ne riporta nome, cognome, indirizzo, numero di telefono e perfino l’indirizzo di posta elettronica.

In verità lo scorso anno, ancora quando c’era il cardinale Scola, avevo sentito parlare della loro solenne consacrazione in basilica di San Marco, ora però di esse c’era tutto, ci mancava solamente la foto.

Per una strana associazione di idee mi venne in mente che il vecchio parroco della mia fanciullezza voleva che le ragazze e le donne di azione cattolica, durante le processioni, che erano piuttosto frequenti, sfilassero in centro con le bandiere dell’associazione in testa. Mi ricordo nitidamente ancora le critiche e gli appunti che la gente faceva nei loro riguardi, che credo poi tutto sommato fossero delle care creature, però come tutte le altre donne del paese

Ritengo che ci siano certe cose che esigono riserbo. Poi penso a quelle tante ragazze, signorine nubili e donne sposate, che sono dei tesori di bontà e di dedizione e che si spendono senza riserve, senza che alcuno offra loro una cornice più o meno preziosa o adeguata.

Talvolta ho parlato di una maestrina del sud che conduce il “Foyer San Benedetto”, la piccola struttura che dà alloggio ai famigliari degli ammalati dell’Ospedale dell’Angelo, a cui ricorro quando qualcuno bussa alla mia porta in cerca di alloggio e che sempre serena e sorridente risolve i casi più difficili e non appare nell’annuario della diocesi.

Ho deciso, nel mio cuore, che stamperò in proprio un “annuario segreto” per dar posto alle tante creature care e buone che incontro tutti i giorni.

“Accoglilo pure lui, Signore”

Recentemente ho sentito il dovere di dire la mia sul suicidio del grande regista Monicelli, vecchio e affetto da un male incurabile. Mi sono sforzato di ripetere che il mio discorso si rifaceva ad una visione ideale della vita e della morte. Per il dramma del singolo non provo che comprensione e calda pietà, per cui confesso che più volte ho pregato il buon Dio che accogliesse nel suo Cielo questo suo “Figliol prodigo”.

In quell’occasione ho pure scritto che nella mia lunga vita di prete mi sono trovato più volte coinvolto in questi gesti estremi e sempre ho provato un sentimento di sgomento, di profonda tristezza, quasi una desolazione di fronte a chi rinuncia a continuare a cogliere il dono della vita, a chi non comprende che nel magnifico ecosistema della società ognuno ha un compito ed ognuno deve fare la sua parte.

Sono pure convinto che queste scelte estreme non sono mai lucide e razionali, ma sempre determinate da uno stato d’animo in cui s’è rotto all’interno dell’animo un equilibrio per cui sfugge dalla volontà il dominio di sé.

Ricordo il colloquio con una ragazza credente che aveva tentato di suicidarsi con l’acido muriatico, ma che si riuscì a salvare. Le chiesi: «perché l’hai fatto?» e lei non seppe giustificarsi se non affermando: «In quel momento non ho visto di fronte a me che quella soluzione!».

Queste esperienze mi han sempre aiutato ad inquadrare positivamente il commiato religioso anche per questi fratelli, partendo dalla paternità del Padre e dall’altra parte dalla loro ricerca errata della pace interiore, che agli occhi del Signore equivale ad una preghiera angosciosa ed accorata.

Qualche giorno fa s’è celebrato nel piazzale del cimitero, sotto un sole cocente e in mezzo al traffico degli automezzi, il “funerale dell’architetto Peghin”. Nulla di più squallido e desolante; per chi vi ha partecipato; la vita è apparsa come un assurdo, un inganno ed una beffa della natura.

Nella stessa mattinata “ho salutato” un concittadino che, fiducioso, era stato sempre consapevole di camminare verso la casa del Padre per ricevere il suo abbraccio e per sentirsi dire: «Entra e facciamo festa, perché eri lontano e sei tornato». In quell’occasione ebbi l’opportunità di dire a Dio: «Accoglilo pure lui, Signore, Tu gli hai offerto la dimora eterna col battesimo e l’hai chiamato “figlio”, egli Ti “ha pregato” costruendo case per altri tuoi figli; Ti ha cercato sul sentiero dell’armonia e della bellezza, perseguite con la sua professione.»

Ora sono certo che il Signore gli ha aperto la porta senza esitazioni e che ora è con la sua amata sposa. Mi spiace solamente per chi, in quell’occasione, non s’è sentito ripetere queste splendide verità che danno senso alla vita e alla morte.

Perché questa diffusa allergia al matrimonio religioso?

Un paio di mesi fa dedicai “l’editoriale” a Cesare Prandelli, “l’eroe” d’Italia del 2012. Scrissi in quell’articolo di fondo che avevo molto ammirato quel tecnico del calcio, cresciuto in oratorio, con una famiglia regolare, con moglie e figli, con dei sani principi e dalla vita esemplare.

Ero stato edificato dal fatto che avesse messo da parte il calcio per due anni per essere accanto alla moglie in un momento particolarmente lusinghiero per la sua carriera di allenatore. Mi ero perfino commosso nel venire a sapere che aveva accompagnato con dignità e amore la sua sposa, che purtroppo è morta in ancor giovane età, tenendosi accanto i due figli.

Nel mondo corrotto, spendaccione, aperto a tutti i compromessi aver potuto incontrare un uomo dal volto pulito, che si comportava da vero educatore nei riguardi dei membri della squadra, ch’era forse più preoccupato di crescerli come uomini veri, piuttosto che essere impegnato a farne dei supercampioni, mi aveva rafforzato nell’idea d’aver finalmente scoperto, anche in questo mondo fittizio, un galantuomo ed un educatore esemplare.

Un amico, letto l’articolo, avendolo conosciuto personalmente, mi riconfermò quanto avevo appreso e vi aggiunse di suo.

Pur non essendo un fanatico del calcio, ho seguito il recente campionato europeo e m’è parso che veramente Prandelli avesse cresciuto un gruppo di ragazzi coeso di amici, compreso quel Mario Balottelli che deve essere, a mio parere, veramente un soggetto quanto mai difficile. L’aver letto che dopo la partita Prandelli andava in “pellegrinaggio” durante la notte, è stata la ciliegina per cui l’avrei proposto come vero campione in umanità.

Sennonché l’altra sera c’è stato un cronista che ha parlato delle “donne dei campioni”. E’ stato bello vedere questi campioni con i propri piccoli in braccio, o l’abbraccio del rude e scontroso Balottelli a sua madre a cui ha dedicato i suoi gol. Nella breve rassegna, il giornalista ha concluso che pure la “compagna” di Prandelli ha sempre presenziato alle partite.

Io non voglio e non posso giudicare alcuno, e questa notizia non cambia l’opinione e la stima sul tecnico della nazionale, ma sono costretto a chiedermi, una volta ancora, perché oggi c’è una allergia così diffusa al matrimonio religioso? Non c’è ormai famiglia, la mia compresa, che non sia colpita da questa scelta o da questa moda. E ancora, mi sto chiedendo se per Dio e per gli uomini sia importante che due creature si amino veramente o se invece si impegnino di fronte a Dio con l’attuale formula nuziale, anche se talvolta si scopre poi che han preso un abbaglio, ma che tra loro non c’era vero amore.

Un nubendo, laureato in storia, mi disse, qualche anno fa, che nella Chiesa il sacramento del matrimonio è relativamente recente, mentre in tempi lontani si chiedeva solamente aiuto al Signore con una preghiera.

Sono in affanno; ora prego che comunque la gente si voglia bene ed offra ai suoi figli un nido caldo di amore.