Don Didimo Mantiero

Avevo letto sul quotidiano “L’avvenire” la presentazione del un diario di un prete vicentino, nato nel 1912, che dopo essere passato per alcune piccole parrocchie della diocesi di Vicenza, terminò la sua vita come parroco a Bassano del Grappa. Leggendo la critica rimasi immediatamente incuriosito, sia perché il discorso sui diari dei preti, scritti a scopo pastorale, mi interessano perché ho modo di confrontarmi su una materia che mi impegna ogni settimana, sia perché nella presentazione si parla di un prete e di uno scritto che ha come punto di riferimento e di confronto le opere di due scrittori importanti, Bernanos, col suo “Diario di un curato di campagna” e Guareschi col suo “Mondo piccolo”, che racconta la vicenda di don Camillo, il parroco di Brescello.

Secondo motivo a suscitare il mio interesse sono le parole con le quali il Papa attuale Ratzinger, definisce don Didimo Mantiero, il protagonista di questo diario, affermando che egli è una delle figure più belle di parroco del nostro tempo e quelle di monsignor Giussani, il notissimo educatore di giovani, fondatore di “Comunione e liberazione”, che definisce questo umile parroco come un grande pedagogo del nostro tempo, che sorretto da una fede forte e generosa, affronta il difficile compito di educare la gioventù attuale.

Partendo da queste premesse avevo deciso di comperarmi il volume, sennonché un caro amico mi ha preceduto donandomelo, avendo intuito che ne sarei stato interessato.

Ho cominciato a sfogliarlo e sono stato così preso da questa figura pressoché indefinita di sacerdote, che ho avuto subito la tentazione di sospendere le letture in cui ero impegnato per leggere il racconto pulito, limpido, immediato e profumato di apparente ingenuità, ma anche di un sano realismo e di fede forte che anima il racconto di questo prete della pedemontana.

Per mettere a fuoco il “diario” e il suo autore, ne riporto una mezza paginetta, certo che presenterà in modo più autentico questo prete vero e fedele discepolo di Gesù a mia edificazione e a quella dei miei amici.

Mi misi in testa che proprio io, pretino da pochi mesi, dovevo avvicinare e convertire quella specie di bestione che era stato e continuava a essere lo spauracchio dei frati e dei preti.
Fatti i miei piani, da bravo sacerdote, li manifestai al Signore Gesù.
Andavo a trovarLo nelle ore in cui la chiesa era deserta e mi prendevo la confidenza di salire i gradini dell’altare.
Toccavo con riverenza, ma con la semplicità del fanciullo, il rosso conopeo, lo baciavo, quasi fosse stato, quello, un lembo della veste del Signore. Poi con l’indice della mano destra davo leggeri e confidenziali colpettini alla porta del tabernacolo, non so se per chiedere permesso o se per «svegliare» il Signore in riposo, e Gli parlavo così:
«Gesù, stammi a sentire. C’è un grosso affare in vista.
C’è l’anima di quel grosso peccatore da convertire: Vuoi, Signore, che facciamo l’affare? A cose fatte, io Ti lascerò l’anima del signor X e Tu mi lascerai la soddisfazione di avertela portata.

Eppure un prete così candido ha convertito una città e messo in piedi una struttura veramente grandiosa.

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