Esperienze preziose

Ringrazio veramente il Signore che durante la mia lunga vita mi ha fatto fare delle belle esperienze, rendendomi sempre curioso del nuovo e aiutandomi a non vivere mai nelle retrovie, ma sempre in prima linea, ricevendo talora qualche colpo dal “nemico” e, forse più spesso, delle “ferite” dal “fuoco amico”. Comunque sia quello che queste mi sono state sempre sostanzialmente di aiuto.

Con monsignor Vecchi, ripeto ancora una volta, ho sempre avuto un rapporto totalmente dialettico, rapporto che credo sia stato inevitabile a motivo dell’età, della provenienza e della sensibilità diversa, però per me lui è stato comunque un maestro valido per tanti motivi. Uno di questi è quello che monsignore mi insegnò che bisogna sempre verificare sul campo, accertarsi in prima persona per valutare ogni esperienza ed ogni scelta o orientamento pastorale.

A tal proposito voglio far riferimento a tre esperienze particolari. Al tempo in cui sembrava che la Francia fosse l’antesignana e la punta di diamante nel campo della pastorale e della liturgia, andammo insieme a vedere cosa si faceva in Francia. In realtà abbiamo scoperto cose interessanti, ad esempio l’uso del foglietto parrocchiale l’apprendemmo da quel viaggio e lo abbiamo propagato a Mestre.

In quella esperienza capimmo però che allora, in Francia, c’erano delle avanguardie interessanti, ma il grosso era ancora arroccato al tempo della post-rivoluzione.

Quando stavamo sognando la mensa per i poveri e quello che riguardava le iniziative caritative, andammo a Brescia, che a quel tempo rappresentava il top del settore. E quando, al tempo del Concilio abbiamo sentito il bisogno di verificare l’impianto dell’associazionismo giovanile, siamo andati a Milano, quando don Giussani aveva appena dato vita a “La gioventù studentesca”, la madre di “Comunione e liberazione”.

In quella occasione, avendo partecipato, in una grossa parrocchia, all’incontro di un numeroso gruppo di giovani del movimento appena nato, sono stato colpito dal modo con cui si svolgeva l’incontro. Fissato l’argomento, ognuno poteva ordinatamente offrire il suo contributo, ma non poteva polemizzare o anche ribattere su quello che aveva detto l’amico. Questo metodo evita inutili diatribe e discussioni e fa emergere il meglio che si possa ricavare su un argomento.

Ho tentato per tutta la vita di introdurre questa metodologia, poche volte ci sono riuscito. Molto probabilmente ciò non è avvenuto perché tutti devono essere d’accordo in partenza su valori di fondo, cosa che per l’individualismo della gente della laguna è piuttosto difficile.

Il vento della riforma

Da quando ho cominciato a prendere coscienza del bisogno di rinnovamento, ma soprattutto in quest’ultimo tempo, ho sempre sentito parlare di riforme, di rinnovamento.

Il discorso attualmente riguarda il mondo della politica e lo sa solamente Dio di quanto ci sia bisogno di svecchiare la nostra società, di cacciare i baroni che imperano e sperperano negli enti pubblici, di applicare anche ai dipendenti dello Stato e del parastato i criteri che regolano il lavoro dei dipendenti degli enti privati, di mettere in riga e di curare la produttività e l’efficienza della burocrazia, di tirar giù dall’empireo i magistrati, di ridimensionare gli stipendi degli sportivi e di purificare la classe politica, di dare regole più serie al sindacato e tant’altro ancora.

Però questo discorso che è pure esploso nei riguardi della Chiesa ai tempi del Concilio Vaticano secondo e nei tempi immediatamente successivi ad esso, si pone anche per la Chiesa che ugualmente è composta da uomini che sono fatti della stessa pasta di chi si occupa di impresa, di giustizia, di politica o di sindacato e di quant’altro.

Dopo la breve ed irrequieta primavera del Concilio, ho la sensazione che quasi tutto sia ritornato come prima e che il cammino della liberazione dalle incrostazioni della tradizione, della purificazione e del rinnovamento sia estremamente lento e fatto più di aspirazione che di fatti concreti.

Nel passato si è proceduto alla riforma del codice di diritto canonico, riforma pressoché inutile perché mi pare che tale codice serva veramente a poco e tratti spesso di questioni che non interessano ad alcuno.

Mentre penso che sarebbe quanto mai urgente e necessaria la riforma del breviario, ossia di quel testo di meditazione e di preghiera ch’è fatto dovere ad ogni sacerdote dedicargli un certo tempo ogni giorno. Io ho sempre recitato e recito ancora ogni giorno il breviario e spero che il Signore tenga conto almeno della fatica notevole che mi costa.

Sono veramente convinto che la Bibbia, nel suo complesso, sia uno degli strumenti con cui Dio ha scelto di parlare all’uomo di tutti i tempi, però auspico una radicale riforma nella scelta dei testi contenuti nel breviario.

In questo momento in cui sento un particolare e, credo, fecondo sentimento di rifiuto alla violenza, mi costa all’inverosimile leggere testi in cui si mette Dio a servizio della vendetta, della ferocia e della crudeltà, per favorire un piccolo popolo spesso prepotente, ambizioso ed interessato.
Mi auguro che il vento della riforma riprenda a soffiare anche nella mia Chiesa.

Ammettere le proprie debolezze

Quando i giornali hanno parlato del corvo nero che sta gracchiando in Vaticano, mi sono detto: “Ci mancava anche questa!”. Non so se siano i corvi i volatili che si nutrono delle carogne, comunque il corvo che ha cominciato a farsi udire dai palazzi di ciò che rimane dello Stato pontificio, di sicuro vive di marciume.

Vedere il nostro vecchio Papa sempre più fragile, piangere sui preti pedofili ed ora sentirlo anche tradito dalle persone che gli stanno più vicine e che dovrebbero collaborare per rendere la Chiesa più bella e più fedele al messaggio di Gesù, intuire che lo IOR, la banca del Vaticano, continua probabilmente ad intrallazzare come ai tempi di Marcincus, è un qualcosa che amareggia tutti i cristiani e che rende ancor più pesanti le chiavi di Pietro.

Non bastasse questo, in questi giorni è scoppiato pure lo scandalo di Villareggia, la promettente comunità missionaria nata una ventina di anni fa nel Chioggiotto e sviluppatasi in maniera portentosa. Povero Papa! Povera Chiesa!

Questa volta la piena ammissione della fragilità dei componenti di questa comunità e gli immediati provvedimenti per curare la ferita, sono stati, pur nella tristezza, un modo nuovo e più nobile di presentarli alla comprensione del mondo. Ammettere finalmente le proprie debolezze è un costume nuovo nella Chiesa, che spesso nel passato ha giudicato in maniera spietata gli altri, ora l’ammissione delle sue miserie che la rende più umana, più vera e più credibile.

Io partecipo fino in fondo al disagio, al dolore, alla richiesta di perdono da parte del Papa e di ogni cristiano, ed assieme a loro chiedo scusa ai fratelli e al mondo intero per questo scandalo che sporca il volto di Cristo. Però mi viene da dire: “Felice colpa! Che ci fa prendere coscienza della nostra povertà, ci rende tutti più umili e più comprensivi verso le miserie degli altri e più fiduciosi nella misericordia di Dio”.

Una volta ancora mi pongo un annoso problema che mi pare non ancora sufficientemente affrontato, almeno nella Chiesa cattolica: cioè non esiste solamente il sesto comandamento, ma ce ne sono dieci! Credo che nella confessione e nel pentimento dovremmo aggiungere pure altri peccati ecclesiastici che riguardano i preti in carriera, quelli con poco zelo, quelli che si pavoneggiano con vesti e con titoli, quelli che non si impegnano con i poveri, quelli che non si aprono al dialogo, quelli che non sono impegnati nella ricerca della verità, quelli che si accontentano di essere degli stipendiati dall’Ente Chiesa piuttosto che tendere ad essere testimoni e profeti di Cristo in questo nostro mondo.

Confesso che io temo che spesso non si prendano sempre in considerazione peccati diversi e non meno gravi di quelli della carne.

La pastorale del mondo dell’arte

Stavo cercando l’indirizzo di un mio confratello che la curia ha incaricato di occuparsi dei beni di valore artistico della Chiesa veneziana, sperando che sia pure delegato ad occuparsi della pastorale del mondo dell’arte.

Io sono appassionato di tutto quello che esprime armonia e bellezza, convinto più che mai che la “bellezza” sia una strada che porta a Dio. Nella mia vita ho cercato con tutte le mie risorse di portare nella mia comunità questo “raggio di Dio” così dolce e suadente.
La galleria “La Cella”, con le sue 400 mostre, la biennale di arte sacra e lo sterminato numero di quadri con i quali ho ornato le pareti delle strutture della comunità, sono una testimonianza di questa mia convinzione.

Ora sto continuando questo servizio pastorale con l’apertura della galleria “San Valentino”, presso il Centro don Vecchi di Marghera, ma sto incontrando notevoli difficoltà.

Consultando il Prontuario della diocesi per la ricerca dell’indirizzo dell’architetto don Caputo, mi sono lasciato prendere dal desiderio di scoprire il meccanismo estremamente complesso della nostra diocesi: nomi, strutture, commissioni, incarichi, deleghe, organismi… Ogni volta che consulto questo volume che la curia cura con estrema pignoleria e stampa puntualmente ogni anno, da un lato mi sento orgoglioso di appartenere ad una Chiesa che abbraccia ogni ambito, pensa e provvede ad ogni aspetto della vita di tutti i suoi membri, dispone di un numero straordinario di collaboratori specialisti in ogni settore – tanto che non potrei desiderare qualcosa di meglio – dall’altro lato resto pensoso sulle ricadute reali di aiuto che questa organizzazione offre ai combattenti della prima linea.

Il settore della cura pastorale di quello splendido mondo degli artisti e della loro produzione, forse non sarà il punto focale della pastorale diocesana, ma neppure può essere abbandonato a se stesso perché non cresca incolto come l’orto di Renzo Tramaglino di venerata memoria.

Constatando come a Mestre e nell’interland, con una popolazione di duecentomila anime non vedo quasi nulla in proposito, spero che la mia richiesta di aiuto trovi una risposta finalmente esauriente.

La Chiesa e l’apparato

Ho l’impressione che la stampa laica sia perfino troppo buona nel commentare ciò che sta avvenendo in Vaticano con la fuga delle notizie riservate e la cacciata del responsabile della banca relativa. Hanno un bel da fare padre Lombardi e il cardinal Bertone nel tentare di coprire con abbondanti foglie di fico le vergogne di questo staterello sopravvissuto alle logiche della storia e mantenuto in vita quasi a solo scopo folkloristico.

Mio fratello don Roberto, con parole veramente intelligenti e cristiane, ha scritto che la sua fede non rimane neppure scalfita da questi scandali, perché la Chiesa che ama e che vuol servire è tutt’altra cosa dal cartoccio storico che la avvolge a Roma. Anche per me è la stessa cosa. Voglio aggiungere che oggi l’amo ancor più di prima, quando credevo che tutto fosse bello, pulito e santo.

Detto questo però, per onestà, credo di dover aggiungere che anch’io sono tra quelli che desiderano portare una corona di alloro a porta Pia in ricordo e ad onore dei bersaglieri dei quali lo Spirito Santo si è servito per abbattere uno Stato antistorico e antievangelico che è sopravvissuto per troppo tempo.

Credo che farei più fatica a sognare la mia Chiesa umile, bella e libera dagli intrighi della politica e della finanza, se quelle mura non fossero cadute. Penso inoltre – e credo che questo pensiero e questo sogno non siano una colpa, ma un merito – che se qualcuno si desse da fare per smantellare quello che è rimasto di quello Stato, non della Chiesa, ma dell’apparato che crede di esserne l’ostensorio, gli si dovrebbe offrire una seconda corona.

Per me rappresentano nella memoria più autentica la comunità di Gesù i santi, i martiri, i profeti; non le porpore, i nunzi apostolici, lo IOR ed anche la scenografia, spesso troppo ampollosa, che pretende di essere la cornice dorata per offrire alle genti del nostro tempo il volto santo di Gesù.

Io ho speso la vita per la mia Chiesa, sono felice e lo rifarei, perché l’amo e voglio servirla con fedeltà ed amore, ma sono convinto che essa si farà più facilmente comprendere ed amare “vestita in grembiule”, piuttosto che con le vesti regali che erano proprie dei tempi passati definitivamente.

Il cammino di semplificazione e purificazione è in atto da tempo, ricordo ai tempi della mia giovinezza: le guardie nobili, i flabelli, il corpo militare pontificio, il triregno, la portantina. E credo che stia andando avanti in questa “liberazione” anche attraverso l’aiuto del “corvo” attuale, e così, a pari passo, come sono più belle e più evangeliche le persone degli ultimi papi, così diventerà più bello ed accettabile il loro “regno” che non è di questo mondo!

“Vogliamo vedere Gesù!”

Ogni anno, quando celebro la festa del “Corpus Domini”, la prima sensazione che provo è quella dolce, da ricordi della mia infanzia. Quando di primo mattino, il parroco con l’ostensorio usciva sotto il baldacchino portato da quattro cappati in tonaca rossa. Apriva la processione per le vie del paese la Croce, poi gli uomini, la banda, quindi i bambini con gran ceste piene di petali di fiori che spargevano abbondantemente dove doveva “passare Gesù”. Ultime le donne.

Ricordo ancora le prediche appassionate del mio vecchio parroco che “indicava” a Gesù dove doveva guardare, chi doveva aiutare e chi doveva raddrizzare!

Ora non so se avvenga ancora così, comunque a questi dolci ricordi si sovrappongono oggi nel mio animo pensieri ben più consistenti e vitali. Quest’anno, per il “Corpus Domini”, ho cominciato con l’invitare i miei fedeli a riscoprire il volto di Gesù, lasciando i ritratti al loro posto per decorare le pareti delle case e della chiesa, invitando invece a scoprire, come gli apostoli sul monte Tabor, l’affascinante figura del nostro Maestro e Salvatore, sottolineando più che mai, sulla frase di Pietro: “Da chi andremmo, Signore, se soltanto tu hai parole di vita eterna!”.

In un mondo in cui abbiamo scoperto che le personalità dei capi sono squallide, interessate ed avide di potere e di denaro, la figura di Cristo emerge come qualcosa di splendido e di insostituibile, unico punto fermo a cui affidare la nostra vita.

Poi ho tentato di condurre per mano la mia gente perché sia conscia che ogni giorno Gesù si ripropone nella figura dell’uomo in difficoltà e nel bisogno: avevo fame, ero ignudo, ero ammalato, ero in carcere.

Gesù oggi lo posso e lo devo incontrare vivo, soprattutto nella quotidianità; l’Eucaristia del tabernacolo è quasi solamente occasione per sentirmi ripetere da Cristo ove lo posso incontrare, servire ed amare realmente.

Infine ho ripreso il discorso dei greci razionalisti che chiedono a Filippo, l’apostolo: «Vogliamo vedere Gesù!». La gente del nostro tempo, infettata dall’illuminismo e dal positivismo, è satura di parole e non sa che farsene delle prediche, ma vuole vedere con i propri occhi la persona del nostro Maestro e Salvatore.

Allora raccontai come Madre Teresa di Calcutta andò a Bologna in un grande teatro a ricevere un premio. Presentava Romina Power, la quale chiese a questa vecchia suora in sahri, curva e dal volto grinzoso, che faticosamente aveva salito la scaletta del palco: «Ci dica qualcosa!». Madre Teresa disse poche frasi in inglese, con concetti quanto mai noti a tutti. Quando però tacque, la gente si alzò in piedi e continuò ad applaudire per dieci minuti, perché i presenti avevano visto in lei Gesù.

Terminai dicendo che di “pensieri religiosi” il mondo è saturo, ma invece esso è ancora desideroso di “vedere” in noi il volto e la persona di Gesù!
Noi oggi siamo, volenti o nolenti, “il corpo di Cristo”!

La resa dei cattolici

Un tempo avevo una collaboratrice che comperava “Il Gazzettino” quasi esclusivamente per leggere gli avvisi mortuari; era curiosa di sapere chi se ne andava dalla nostra città.

A quel tempo mi sembrava una scelta o, peggio ancora, una mania un po’ macabra. Poi mi accorsi che anch’io, tristemente, in qualche modo la sto imitando, quando in certi tempi dell’anno leggo con morbosità e amarezza che le suore se ne vanno dalle scuole materne, o i religiosi chiudono certe attività per mancanza di vocazioni.

Spesso ho la sensazione che “il mio piccolo mondo antico” in cui sono nato, cresciuto e in cui ho sognato, si stia sfaldando e che ogni tanto perda qualche pezzo. Certe notizie negative però sono più consistenti, tanto da mettermi in affanno e farmi provare un senso di desolazione e di sconfitta.

Poche settimane fa ho letto sui giornali un pezzo che forse a pochi sarà parso significativo e triste e invece per me è stato come aver sentito le campane a morto, perché s’annunciavano che i vescovi del Triveneto hanno deciso di non finanziare più “Telechiara”, l’emittente televisiva cattolica del Nordest che da trent’anni parla delle vicende della diocesi e delle comunità cristiane del Triveneto.

Io ho assistito, una trentina di anni fa, alla nascita di questa creatura così promettente. In quel tempo c’era un fermento tra i cattolici ed un forte desiderio e volontà di aver voce presso l’opinione pubblica. Fu il tempo in cui spuntarono dal niente decine di radio di matrice ecclesiale. Io ebbi la fortuna di partecipare a quella stagione felice e promettente in cui, da pionieri, abbiamo dato vita alle “radio private”. Infatti con “Radio Carpini” ho partecipato alla tentata conquista dell’etere da parte dei cattolici. In verità non fu un’impresa di popolo, ma solamente di alcuni volonterosi; preti, vescovi e le parrocchie se ne sono stati alla finestra a guardare passivamente.

Pian piano queste voci si spensero abbandonando e lasciando il campo libero a certe emittenti banali, prive di proposte e ricche di volgarità. La “morte” di Radiocarpini la piango ancora amaramente. Ora pare che sia giunta alla fine anche Telechiara, l’emittente televisiva.

Questo annuncio funebre mi addolora quanto mai, perché la sento come una grave sconfitta: un’altra volta ancora i cattolici si rifugiano all’ombra del campanile che, prima o poi, finirà anche lui per non suonare più le campane.

I cattolici si stanno ritirando sempre più in sagrestia, pare che rinuncino a confrontarsi con chi crea opinione pubblica, con chi impone la sua tesi.

Ho letto su “Gente Veneta” un pezzo di mio nipote don Sandro, vicedirettore del periodico diocesano, da cui mi pare di capire che anche il nostro settimanale “Gente Veneta” è ormai sulle “linee del Piave”. Temo che anche in questo settore non tiri più aria di conquista ma di resa e ciò mi addolora quanto mai.

Sono contro tutti i fannulloni!

Qualche persona mi ha chiesto come mai ce l’ho tanto con i preti, miei colleghi. Non credo proprio che le cose stiano così. Ho un’ammirazione sconfinata, che rasenta l”adorazione” verso certi preti, miei colleghi, impegnati, coerenti, che non si risparmiano, che sono in costante ricerca di soluzioni pastorali sempre più adeguate ai tempi nuovi, che amano la loro gente e soccorrono i loro poveri, che tengono bene le loro chiese, che si preparano le omelie, che curano i loro bambini e i loro giovani e si fanno in quattro per il bene della loro comunità.

Sentirei un forte desiderio di scrivere i loro nomi, ad uno ad uno, con accanto le motivazioni che mi spingono a questa stima.

Il clero della nostra città, tutto sommato, è un bel clero, ogni prete ha doti particolari, risorse specifiche, talvolta anche con risultati diversi perché ogni comunità può aver avuto, precedentemente, pastori più o meno validi, perché l’estrazione sociale è diversa, per la collocazione della chiesa, per la tradizione di ogni singola comunità. Comunque, quando scorgo un prete coerente e che lavora, mi tolgo tanto di cappello e provo rispetto, reverenza e stima nei suoi riguardi e mi dispiace che poco si apprezzino i risultati positivi.

Però quando vedo chiese chiuse la gran parte del giorno, canoniche con porte sbarrate, patronati deserti, chiese in disordine; quando apprendo che il parroco riceve si e no un paio d’ore alla settimana, quando nessuno risponde al telefono, quando le messe sono ridotte al minimo e le visite alle famiglie quasi nulle, quando il lavoro da prete si rifà a criteri sindacali, quando ogni motivo è valido per uscire dalla parrocchia, quando si accampa diritto di ferie o si afferma che non ci sono poveri nella parrocchia, allora provo la stessa tentazione di denuncia.

Qualche giorno fa ho letto su un “bollettino parrocchiale” che nei mesi di giugno, luglio e agosto, in una parrocchia con un numero di anime pressappoco uguale a quello che avevo io nella mia, si celebrerà una sola messa; allora scatta in me un sentimento di rifiuto.

Ritengo giusto che i cristiani sappiano quello che debbono pretendere dai loro preti. Oggi tutte le istituzioni, dalla politica alla scuola, dal sindacato alla pubblica amministrazione, sono messe sotto accusa e c’è una richiesta forte di bonifica dei fannulloni e dei furbi. Perché tutto questo non dovrebbe essere opportuno anche per il mondo ecclesiastico?

Sono convinto che una certa denuncia che nasce dall’amore verso la propria Chiesa, non sia una cattiveria, ma un sacrosanto dovere!

I nuovi scanali nella Chiesa

Ci mancava anche il corvo in Vaticano!
I giornali ci riferiscono della sofferenza del Papa e di certe macchinazioni di prelati della curia vaticana che stanno tentando di mettere le premesse per eleggere domani un Papa di loro gradimento.

Ho tentato di capire un po’, ho chiesto a della gente più preparata di me, ma non sono riuscito a cavare un ragno dal buco. Prima la cacciata in malo modo del presidente della banca vaticana con una lista di accuse pesanti, poi il maggiordomo che sottrae documenti segreti non si sa per farne che o consegnarli a non so chi, quindi una commissione di vecchi cardinali che si mettono a fare il mestiere della polizia giudiziaria e i pubblici ministeri! Mi ha dato l’impressione che si ritorni ai secoli di piombo, mentre il Santo Padre appare sempre più fragile, tanto da non riuscire più a fare i quattro passi per percorrere la basilica di San Pietro. Povero Papa, alle prese prima con i preti pedofili, poi con i prelati cospiratori!

Il Papa mi fa sempre più tenerezza e mi desta infinita ammirazione per il coraggio e la determinazione con cui tenta di far pulizia nell’apparato di Santa Madre Chiesa.

Tutti questi guai ci vedono sgomenti, però ci fanno anche sperare in una purificazione profonda che si sbarazzi dei rimasugli di un apparato burocratico, retaggio dei tempi del triregno.

La voce più onesta e più accorata tra le voci lagnose e scontate che ho sentito deprecare l’accaduto ed esprimere solidarietà al Papa, è stata quella di don Gallo, il vecchio prete dei portuali e dei poveri di Genova, il quale ha esclamato in maniera accorata: «Questa non è la mia Chiesa, la Chiesa che amo e per cui vivo!» Mi è parso di notare in quella voce l’auspicio di una “Chiesa in grembiule”, come l’ha sognata don Tonino Bello, il compianto vescovo di Barletta.

I preti e i cristiani, e soprattutto i prelati che non vivono a contatto con i poveri, che non sono in dialogo con gli uomini reali del nostro tempo, diventano fatalmente dei burocrati dell'”azienda Chiesa” e fatalmente sono tentati dalla spirito del “mondo” da cui Gesù ci ha nesso in guardia.

La dottrina di Madre Teresa di Calcutta

Proprio in questi giorni ho terminato di leggere il volume che il settimanale “Famiglia cristiana” ha recentemente pubblicato su Madre Teresa di Calcutta, fondatrice di una delle ultime congregazioni che sono nate nella Chiesa di oggi. Questo volume non si può definire “biografia”, perché di essa traspare solamente un po’ dal testo e un po’ dalle note di chi ne ha curato l’edizione. Credo che il volume si possa considerare il testo col quale questa piccola grande donna di Dio espone il suo pensiero e la sua dottrina.

Mi ero illuso di trovarvi dentro quei “pezzi di pregio” che vengono riportati un po’ ovunque nella stampa di carattere religioso, ma neppure questo vi si trova nel corposo volume. Il discorso che Madre Teresa fa, sembra la raccolta di ammonizioni che lei fa alle sue discepole per passar loro i punti fondamentali della sua scelta spirituale.

Madre Teresa ritorna, quasi in maniera ossessiva, su alcuni punti che devono caratterizzare la sua congregazione: vivere in maniera assolutamente povera, porsi al servizio dei poveri più poveri, fidarsi in maniera totale dell’aiuto di Dio e non chiedere aiuti da nessuno, amare e servire Gesù nei più poveri ed abbandonati, far capire che scegliere di aiutare i poveri è un dono ed una grazia, scegliere i loro assistiti tra gli ultimi nella scala della povertà ed abitare edifici semplici e modesti.

Ebbene, pur con questa “dottrina”, che sembra assolutamente ardua o forse impossibile, Madre Teresa ha reclutato in questo momento difficilissimo per le vocazioni religiose, un vero esercito di discepole e di aderenti e ha fondato case in tutti i Paesi del mondo, sia in quelli più poveri, come in quelli più ricchi, case aperte per gli uomini dell’ultimo livello umano e sociale. Con questa dottrina a Madre Teresa si sono aperte tutte le porte di nazioni di cultura cristiana, mussulmana o totalmente laica.

Il volume, confesso, mi ha messo in crisi, ma credo che metterebbe in crisi il Vaticano, i vescovi e le canoniche con i relativi occupanti.

Sono convinto che il messaggio di Cristo oggi possa farsi accettare dagli uomini del nostro tempo solamente quando si manifesta con scelte radicali e contro corrente e sia testimoniato con questa assoluta coerenza.

Il movimento neocatecomenale al Family Day: che bella testimonianza!

Qualche settimana fa ho seguito alla televisione il Family Day di Milano. E’ stato uno spettacolo veramente straordinario! Il cardinale Scola, che aveva fatto le prove generali a Venezia quando è venuto il Papa a San Giuliano circa un anno fa, ha superato se stesso, organizzando uno spettacolo veramente stupendo.

In ogni caso mi pare sia stato quanto mai opportuno riproporre all’opinione pubblica una visione alta e sublime della famiglia.

Io rimango del parere che le guide e i maestri della nostra nazione e dei popoli debbano proporre sempre e comunque i modelli più alti e più nobili, perché l’utopia, benché mai completamente realizzabile, deve costituire sempre una méta, un punto di riferimento a cui puntare, specie in questo momento di irrequietezza e di confusione nel quale non si fa che discutere su modelli più degradati e poveri di questa cellula della nostra società che sta alla base del vivere civile.

E’ stato straordinariamente bello vedere come ci sia un denominatore comune del concetto di famiglia secondo la concezione cristiana che attraversa i popoli di tradizione e di cultura più diversi. La testimonianza offerta da Milano non credo che non possa che far bene, in un mondo in cui i mass-media che costruiscono l’opinione pubblica, spesso danno voce ed immagine alle soluzioni più scadenti e più spesso alle patologie della famiglia piuttosto che alle realizzazioni più felici. Con questo non credo che si debbano dimenticare e non si debba provvedere anche ai modelli non riusciti e sfasciati.

In questa occasione avevo ingiustamente avuto la sensazione che la Chiesa veneziana fosse rimasta piuttosto assente a questo evento ecclesiale quanto mai rilevante, invece ho letto nel periodico della parrocchia mestrina di San Giovanni evangelista, che ben 330 fedeli di quella comunità erano partiti per Milano per dare la loro testimonianza.

Mi fa felice apprendere e segnalare questa partecipazione così numerosa. Io sono sempre stato perplesso, per motivi personali, nei confronti del movimento neocatecumenale, però sono felice di sottolineare questo aspetto positivo, che credo sia uno dei punti di forza di questo movimento ecclesiale.

Un altro punto di vista sulla questione dei cristiani divorziati

Il Sommo Pontefice, durante l’incontro oceanico del “Family day” di Milano, ha manifestato, ancora una volta, l’attenzione, la comprensione e l’amore della Chiesa verso i cristiani che per i motivi più diversi hanno divorziato, e li ha invitati a sentirsi parte integrante della comunità cristiana e a partecipare alla sua vita.

Però, in quella stessa occasione, ha ribadito che questi fedeli non possono accostarsi ai sacramenti, cioè a vivere in pienezza la vita della comunità dei credenti.

Il Papa è il Papa, ossia il successore di Colui al quale Gesù ha consegnato le “chiavi pesanti” della Chiesa, mentre io sono ben cosciente di essere un povero vecchio prete, poco colto e soprattutto poco santo, ma nonostante questo da decenni continuo a pregare perché gli uomini di Chiesa, quelli che “sanno” e che comandano, riescano a scoprire e a convincersi che qualche soluzione possibile ci deve pur essere e perché lo Spirito Santo li illumini in maniera più forte e risolutiva.

Fino a poco tempo fa mi sono aggrappato ad una frase di Gesù che ha detto, a chi gli obiettava che “il padre Abramo” aveva concesso il divorzio in casi particolari, che all’inizio non fu così e che Abramo aveva fatto una deroga al progetto illuminato di Dio “a causa della durezza dei loro cuori”. Motivo per cui mi veniva da suggerire a chi conta nella Chiesa che “la durezza delle coscienze degli uomini dei nostri tempi non è di certo meno dura di quella degli uomini del tempo di Abramo!”

Sennonché qualche mattina fa ho sentito a Radio Rai un prete che ha scritto un libro su questo argomento, che affermava che quando un divorziato pentito si fosse confessato del peccato di non aver mantenuto un patto che aveva sottoscritto davanti al Signore, era perdonato e così poteva convolare a nuove nozze. Il prete continuava affermando che così avveniva nella Chiesa primitiva, così avviene nella Chiesa ortodossa e in molte “confessioni” protestanti.

L’argomentazione m’è parsa convincente. Spero che qualcuno faccia pervenire il volume al Papa o alla congregazione dei sacramenti. Chissà che lo Spirito Santo non si serva di questo prete, di cui non ricordo il nome, per riaffrontare positivamente questa annosa questione. Noi preti dobbiamo assolvere anche il peggior delinquente. Perché non dovremmo concedere il perdono di Dio anche a chi ha sbagliato moglie o marito?

I titoli ecclesiastici e l’immagine della Chiesa di oggi

Mi è capitato recentemente di leggere un trafiletto su “Famiglia Cristiana” in cui un certo Giorgio D. riteneva esagerati ed anacronistici certi titoli ecclesiastici, quali “santità”, “eminenza”, “eccellenza”, “monsignore”.

Con mia sorpresa il curatore della rivista cristiana risponde con moderazione e con garbo, che lui pure è del parere che questi titoli oggi siano anacronistici e arrischino di far apparire la Chiesa “un pezzo di antiquariato” sopravvissuto ai tempi.

E’ da molto, che quando sento queste locuzioni – che pure io adotto per non apparire irrispettoso verso chi le porta, non so se per convinzione o solamente per tradizione – ho la sensazione di un retaggio spagnolesco che mi evoca, per associazione di idee, Don Chisciotte.

Io ormai ho un’età avanzata e qualche “anima candida” ritiene quasi impossibile che io non mi possa fregiare almeno del titolo di monsignore, data l’inflazione che c’è a questo riguardo, e perciò si rivolge a me appellandomi in tal modo; confesso che mi provoca un po’ di fastidio perché so che non appartengo alla categoria e, peggio ancora, non sono un fan della stessa.

Confesso inoltre che, pur accettando le vesti liturgiche, sempre che non siano troppo sgargianti ed ampollose, quando sacerdoti e vescovi compiono i sacri riti, non sono invece favorevolmente impressionato quando gli ecclesiastici che partecipano a cerimonie civili o semplicemente di carattere sociale, abbondano in tonache rosse o nere con filettature rosse in mezzo a persone in giacca e cravatta o semplicemente vestite come tutti.

Non sono per nulla convinto che il bene della Chiesa e l’affermarsi del messaggio evangelico dipenda da questo folklore ecclesiastico, ma è pur vero che provo lo stesso sentimento e sono tentato di valutare alla stessa maniera certe vecchie signore o onorevoli signori che si rifanno nel vestire più all’ottocento che al terzo millennio.

La Chiesa che sogno veste più poveramente e in maniera più simile alla gente del nostro tempo.

Ripeto che questo aspetto della vita della Chiesa è estremamente marginale, però arrischia che l’opinione corrente non la collochi nel presente, o peggio ancora nel futuro.

Un editoriale di don Gianni che ho apprezzato

Il mio attuale giovane successore nella parrocchia di Carpenedo ha un suo stile tutto personale nel redigere il settimanale di quella comunità cristiana. La linea redazionale di “Lettera aperta” – così continua a chiamarsi il periodico che ho iniziato ben quarant’anni fa – preferisce le notizie succinte, con le quali informare i fedeli sui ritmi e le iniziative parrocchiali, mentre “il fondo”, anche quando tocca argomenti importanti, è sempre breve, veloce e deciso: poche pennellate forti che lasciano al lettore il compito, se ne ha voglia, di sviluppare per conto suo il tema appena accennato.

Qualche settimana fa don Gianni, in preparazione della Pentecoste, ha appena accennato nel suo “editoriale” ad una questione ben importante che nella Chiesa non mi pare abbia trovato finora una soluzione tranquilla e recepita dalla comunità, ossia il rapporto tra la Chiesa, istituzione gerarchica e che cammina lenta, senza grandi scosse e grandi innovazioni, spesso insofferente dei suoi membri che tentano “fughe in avanti”, e la Chiesa del carisma, ossia la Chiesa che si manifesta attraverso i profeti, la Chiesa di quei cristiani “irrequieti”, sempre avidi di coniugarsi col nuovo e col diverso, desiderosa di incontrare Cristo in avanti, piuttosto che indietro.

Questo problema io lo avverto da decenni e confesso che mi hanno sempre più affascinato le prese di posizione dei profeti, anche se irrequieti, propensi a camminare sul ciglio, amanti del nuovo e convinti che sia mille volte più opportuno e doveroso cercare l’incontro con Cristo nel futuro piuttosto che nel passato.

Ricordo una bellissima pagina di don Mazzolari in rapporto al Risorto. “Cerchiamolo”, diceva questo profeta del passato recente “non nel sepolcro ma nel domani, non lo troverete più nelle cattedrali gotiche, pur belle e sublimi, ma dove si vive, si costruisce il domani, anche se colà non è tutto sicuro e tranquillo!”.

Don Gianni ha incorniciato questo discorso con intelligente prudenza, come qualcosa che viene dalla cultura teologica, non prendendo posizione, ma lasciando tuttavia intendere che non bisogna privarsi dell’apporto estremamente vivo ed importante che deriva dal carisma che la Chiesa istituzionale fa fatica ad accettare e spesso cerca di imbrigliare perché non “scuota troppo le mura con il vento della Pentecoste”.

Ho l’impressione che don Gianni indichi una strada senza esporsi e arrischiare qualche pericolo di troppo, o forse è molto più saggio ed equilibrato di me, esponendo una questione annosa nella Chiesa, affermando che c’è, ma affidando alla storia la sua soluzione.

Ecco come don Gianni, con penna leggera e felice, tratta l’argomento.

Qualcuno vede nel Nuovo Testamento due chiese: quella di Pietro, fondata sulla gerarchia dei ruoli (apostoli, discepoli, battezzati) e quella di Paolo, democratica, dove ciascuno ha un proprio carisma a beneficio di tutti. La prima sarebbe la chiesa pasquale, fondata sul Capo degli apostoli che per primo entra nella tomba del Risorto. La seconda sarebbe la chiesa di Pentecoste, ove lo Spirito viene donato a tutti in egual modo. Non credo a questa netta distinzione ma riconosco che in Italia trascuriamo il mistero di Pentecoste, festa dei talenti di ognuno. C’è un secondo passo. Qualcuno, anche fra noi, trova nella diversità una fatica. Essa è invece un’occasione per crescere. È lo Spirito di Pentecoste che unisce i figli di Dio diversi fra loro e tutti capiscono il linguaggio degli altri. Anche questo è un dono da chiedere nella liturgia di domenica prossima.

Ancora sulla polemica delle campane

Ho seguito con curiosità ed indignazione la polemica del suono delle campane. La mia partecipazione agli eventi che riguardano la mia chiesa non è mai disattenta e rassegnata. Sono di natura polemico ed interventista. Ho scritto più volte che ho sempre ammirato i giovani di Comunione e Liberazione perché non sono mai passivi e soprattutto nel settore della scuola, che è un loro specifico campo di azione, sono non solo presenti, ma quanto mai attivi.

Fui ammirato ed orgoglioso quando la feccia de “La Sapienza” impedì al Papa di parlare in quell’università, quando il mattino dopo i ciellini erano già agli ingressi dell’ateneo a denunciare con i volantini la meschinità di certi loro colleghi. La passività, la rassegnazione per il quieto vivere, il subire gli affronti senza reagire, non riesco né ad approvarli né ad accettarli.

Quando ho visto su “Il Gazzettino” che il giovane parroco di Carpenedo, a differenza della diplomazia curiale, aveva scritto: “Non le nostre campane facciamo tacere, ma facciamo zittire quei venti-trenta atei militanti che nella nostra città non hanno diritto di imporre le loro idee sulla stragrande maggioranza della popolazione”, ho pensato subito anch’io che non meriti troppa attenzione neanche quel certo numero di poltroni e di pigri ai quali non dà fastidio il rumore delle auto, ma solamente il concerto armonioso delle nostre campane, né credo si debbano prender troppo in considerazione i tecnici dell’Arpav che avrebbero ben motivo di cercare altrove le fonti dell’inquinamento acustico, invece di occuparsi di multare la musica delle campane.

Scrissi già che quando ero parroco avevo due parrocchiane che telefonavano “a nome di tutti”, come dicevano loro, per il fastidio che provocavano le mie campane. Dissi loro che le campane suonavano a Carpenedo fin dall’anno mille e perciò, quando hanno acquistato casa dovevano tener conto che l’acquistavano in un determinato contesto urbanistico. Io poi che “conoscevo i miei polli”, ben sapevo che non era il suono delle campane, ma quel che esse rappresentavano che infastidiva i loro sonni e le loro coscienze.

Una se n’è andata e l’altra si è rassegnata, perché io, memore del patriota italico Pier Capponi che affermò “…e noi suoneremo le nostre campane!”, ho continuato a suonarle e di gusto!

Romano Guardini ha scritto un bel volumetto sul valore dei “santi segni”, uno dei quali è il suono delle campane che sono la voce della comunità cristiana e che fanno memoria delle meraviglie di Dio.

Venuto a sapere della sottoscrizione di don Gianni, mi sono recato di buon mattino a mettere il mio nome sulla “contropetizione” e ad offrirmi a tirare le corde nel campanile se fosse necessario.