Il mio attuale giovane successore nella parrocchia di Carpenedo ha un suo stile tutto personale nel redigere il settimanale di quella comunità cristiana. La linea redazionale di “Lettera aperta” – così continua a chiamarsi il periodico che ho iniziato ben quarant’anni fa – preferisce le notizie succinte, con le quali informare i fedeli sui ritmi e le iniziative parrocchiali, mentre “il fondo”, anche quando tocca argomenti importanti, è sempre breve, veloce e deciso: poche pennellate forti che lasciano al lettore il compito, se ne ha voglia, di sviluppare per conto suo il tema appena accennato.
Qualche settimana fa don Gianni, in preparazione della Pentecoste, ha appena accennato nel suo “editoriale” ad una questione ben importante che nella Chiesa non mi pare abbia trovato finora una soluzione tranquilla e recepita dalla comunità, ossia il rapporto tra la Chiesa, istituzione gerarchica e che cammina lenta, senza grandi scosse e grandi innovazioni, spesso insofferente dei suoi membri che tentano “fughe in avanti”, e la Chiesa del carisma, ossia la Chiesa che si manifesta attraverso i profeti, la Chiesa di quei cristiani “irrequieti”, sempre avidi di coniugarsi col nuovo e col diverso, desiderosa di incontrare Cristo in avanti, piuttosto che indietro.
Questo problema io lo avverto da decenni e confesso che mi hanno sempre più affascinato le prese di posizione dei profeti, anche se irrequieti, propensi a camminare sul ciglio, amanti del nuovo e convinti che sia mille volte più opportuno e doveroso cercare l’incontro con Cristo nel futuro piuttosto che nel passato.
Ricordo una bellissima pagina di don Mazzolari in rapporto al Risorto. “Cerchiamolo”, diceva questo profeta del passato recente “non nel sepolcro ma nel domani, non lo troverete più nelle cattedrali gotiche, pur belle e sublimi, ma dove si vive, si costruisce il domani, anche se colà non è tutto sicuro e tranquillo!”.
Don Gianni ha incorniciato questo discorso con intelligente prudenza, come qualcosa che viene dalla cultura teologica, non prendendo posizione, ma lasciando tuttavia intendere che non bisogna privarsi dell’apporto estremamente vivo ed importante che deriva dal carisma che la Chiesa istituzionale fa fatica ad accettare e spesso cerca di imbrigliare perché non “scuota troppo le mura con il vento della Pentecoste”.
Ho l’impressione che don Gianni indichi una strada senza esporsi e arrischiare qualche pericolo di troppo, o forse è molto più saggio ed equilibrato di me, esponendo una questione annosa nella Chiesa, affermando che c’è, ma affidando alla storia la sua soluzione.
Ecco come don Gianni, con penna leggera e felice, tratta l’argomento.
Qualcuno vede nel Nuovo Testamento due chiese: quella di Pietro, fondata sulla gerarchia dei ruoli (apostoli, discepoli, battezzati) e quella di Paolo, democratica, dove ciascuno ha un proprio carisma a beneficio di tutti. La prima sarebbe la chiesa pasquale, fondata sul Capo degli apostoli che per primo entra nella tomba del Risorto. La seconda sarebbe la chiesa di Pentecoste, ove lo Spirito viene donato a tutti in egual modo. Non credo a questa netta distinzione ma riconosco che in Italia trascuriamo il mistero di Pentecoste, festa dei talenti di ognuno. C’è un secondo passo. Qualcuno, anche fra noi, trova nella diversità una fatica. Essa è invece un’occasione per crescere. È lo Spirito di Pentecoste che unisce i figli di Dio diversi fra loro e tutti capiscono il linguaggio degli altri. Anche questo è un dono da chiedere nella liturgia di domenica prossima.