Un tempo ho letto in un libro di meditazione che l’abitudine è un grosso pericolo, è un vizio sempre in agguato che svuota la ricchezza dei rapporti e la capacità di cogliere e di godere appieno della realtà in cui ti incontri tutti i giorni.
L’abitudine non ti fa godere dei volti delle persone care con cui vivi, ti toglie la possibilità di valutare il grande dono della vita, ti fa ritenere scontata la bellezza del Creato, ti toglie ebbrezza, incanto, poesia ed amore per quanto c’è di bello nella vita e nel mondo.
Bisognerebbe avere la capacità dei poeti, che hanno una sensibilità particolare per percepire ogni segno e manifestazione dell’armonia, per cogliere appieno il dono che il Signore ci ha fatto.
In questi ultimi tempi mi è venuto da riflettere su un aspetto particolare di questo pericolo di impoverire e svuotare di contenuti preziosi anche il nostro rapporto col mistero di Dio. Mi pare di essere arrivato alla conclusione che per un prete l’abitudine, cioè il ripetere frequentemente certi gesti e parole sacre, l’estrema dimestichezza col mistero e con i gesti atti a percepirlo, a sentirlo vivo, che si esprimono nei riti religiosi, costituisce ancor di più un pericolo veramente micidiale.
Un tempo tutto il rapporto col sacro era tutelato da genuflessioni, inchini, vesti, per avere la sensazione e la percezione del mistero. Recentemente ho assistito alla messa di un prete tradizionalista, discepolo del vescovo Lefèvre e, quasi con sorpresa, ho riscoperto quello che per moltissimi anni della mia vita anch’io ho praticato: genuflessioni, inchini, gesti delle mani, le modulazioni della voce.
Ora però, vedendo il prete tradizionalista, rimasi turbato, mi sembrava quasi un’operetta! Ora noi preti del post-Concilio, abbiamo semplificato tutto, rese quasi più domestiche le manifestazioni del rapporto con nostro Signore: così nelle parole che nei gesti, nelle genuflessioni che nelle vesti sacre, nelle candele, ecc.
Allora mi sono domandato: “Tutto ciò ha arricchito o impoverito la mia fede? Sono rimasto perplesso! Questo “dare del Tu” a Dio, ho l’impressione che arrischi di farmi perdere il senso del sublime, dell’assoluto e del mistero, del senso di Dio, creatore, ordinatore, padre e giudice.
Per ora ho deciso di avere un rapporto più pacato, più attento anche nell’aspetto esteriore perché, per conservare ed arricchire “il contenuto” credo che abbia importanza anche curare di più il contenitore.