Nella Chiesa s’è sempre parlato di comunità, ma ai nostri giorni se ne parla più di sempre.
Monsignor Vecchi, che cito di frequente e non potrei fare altrimenti, perché lui fu uno dei maestri che incise maggiormente sulla mia educazione – era solito dire che quando si cita tanto di frequente un termine, significa che la gente ha già smarrito la sostanza. Credo che avesse ragione perché le nostre comunità di fede, ossia le parrocchie, a livello di spirito comunitario sono tanto striminzite e carenti, per cui il dialogo tra i loro membri e l’aiuto reciproco sono pressoché venuti meno. Se poi si esamina con obiettività e sano realismo l’impegno che la comunità dovrebbe necessariamente avere nei riguardi dei più poveri, c’è veramente da essere preoccupati e delusi.
Un tempo la gente si conosceva all’interno della parrocchia e quasi sempre dava personalmente una mano a chi annaspava nel bisogno, ma oggi c’è una organizzazione sociale e una mentalità che esige sempre associazioni, servizi e strutture che avvertano i bisogni e diano una risposta.
Gli strumenti nati nelle parrocchie e nell’ultimo mezzo secolo, per aiutare i poveri, sono la San Vincenzo, la Caritas – che è giunta più tardi e ne è una copia mal riuscita – e, un tempo, il tentativo del FAC (fraterno aiuto cristiano) che però mi pare sia totalmente scomparso. Al di fuori di questi gruppi caritativi si possono trovare in qua e in là, altri servizi diversi, ma sono pochi e spesso sorgono ove c’è già una sensibilità ed una qualche organizzazione di solidarietà.
La situazione, a mio avviso, è semplicemente desolante. Spero che l’anno della fede, proclamato all’interno della Chiesa italiana, produca il frutto naturale della fede che è la carità. Mi auguro che quest’anno ci sia una fioritura a livello personale e parrocchiale di questa virtù. Se ciò non avvenisse vorrebbe dire che l’anno della fede sarebbe fallito.