Generosità e…

Le vicende della vita sono sempre per me varie e sorprendenti, ma credo che lo siano un po’ per tutti.

Qualche settimana fa, dopo avermi lungamente cercato, su e giù per i meandri del “don Vecchi”, mi ha finalmente scoperto nella hall un parroco di mezza età della nostra città.

La parrocchia di questo “collega” non è mai stata nota per navigare nell’oro, anzi; pure questo prete non è riconosciuto come molto abbiente. Io lo conosco da molti anni, il nostro rapporto è sempre stato corretto, ma mai particolarmente intimo, un po’ perché lui è riservato ed io ancora di più, e un po’ perché solamente per un po’ di tempo abbiamo “lavorato” assieme in una delle tante commissioni, pressoché inutili della diocesi; ma nulla più!

Comunque là nella hall, su due piedi, presso il “tavolo della cortesia”, mi consegnò un assegno di cinquemila euro. Rimasi di stucco, non mi capita di frequente che uno, senza averlo pregato, mi consegni dieci milioni delle vecchie lire e non m’è quasi mai capitato che l’abbia fatto un parroco!

Il contributo del confratello m’ha fatto più felice di quanto lo sarei stato se avessi vinto i centosettanta milioni dell’Enalotto!

Versai subito l’assegno al Banco San Marco per paura di perderlo, sennonché tre o quattro settimane dopo, la direttrice del Banco mi avvertì che la filiale di viale San Marco della Cassa di Risparmio aveva fatto una segnalazione alla Banca d’Italia, per motivi di antimafia, perché l’assegno superava di un centesimo quelli permessi senza la scrittura “non trasferibile”!

Persi la pazienza e la grazia di Dio, constatando che in questo povero mondo non ci sono solamente parroci generosi, ma anche bancari cretini.

I giorni della cerca

Non so proprio come i frati di una volta si comportassero quando ritornavano dalla cerca; suppongo che si presentassero dal padre abate deponendo, talvolta con gioia, il frutto del loro mendicare, quando esso era stato abbondante e con un po’ di delusione e tristezza, quando invece il loro bussare alla porte dei loro concittadini fosse stato con risultati deludenti.

Io sono in grado solamente di riferire al mio “Padre Celeste” che sta in alto, le mie prime esperienze. Dopo pochissimi giorni, dall’inizio del mio “questuare” per raccogliere il denaro per pagare il “don Vecchi” di Campalto, mi è venuta a trovare, nella mia “chiesa – baita tra i cipressi”, una vecchierella un po’ in malarnese con le lacrime agli occhi: «Don Armando, mi spiace tanto, ma non posso darle niente, non ce la faccio veramente con la mia pensione».

La sua era certamente una campanella da non suonare, comunque, avendo bussato alla sua porta per stendere la mano per i vecchi della città, la rassicurai: «Sono invece io in grado di aiutarla, fornendo viveri, vestiti o qualcos’altro se le serve per la sua casa!» E lei prontamente: «Ma, don Armando, mi dà già da mangiare; vengo infatti al banco degli alimentari del “don Vecchi”!» «Bene, continui, vedrà che non verrà mai meno la Provvidenza, né per lei, né per me!»
Se ne andò rasserenata.

Spero che il “Padre abate” sia rimasto comunque contento del mio primo giorno di cerca! Ma spero pure che dietro i campanelli delle venti famiglie che ho “visitato” ogni giorno, ci sia anche chi non ha bisogno, ma che invece possa dare “un pane per amor di Dio”.

Mendicante a ottant’anni

La mia è stata una decisione sofferta ma necessaria. Dopo essermi lambiccato il cervello, vedendo che le istituzioni pubbliche e le banche, quasi tutte, non si sono neppure degnate di rispondere alla mia richiesta di contributi per il “don Vecchi” di Campalto e vedendo che le sottoscrizioni delle azioni della Fondazione Carpinetum andavano a rilento e risultavano insufficienti a completare ciò che mi mancava per coprire le spese per la costruzione del “don Vecchi” di Campalto, come Cesare ho “gettato il dado” e mi sono deciso per la soluzione estrema: mendicare!

L’idea mia è venuta qualche mese fa quando, essendo andato con i miei anziani in pellegrinaggio al Santuario della Madonna dell’Olmo, ho appreso da un confratello laico che i Cappuccini mantenevano la mensa dei poveri andando alla cerca, come i vecchi frati di un tempo. In verità avevano adottato qualche aggiornamento, sostituendo la vecchia e tradizionale bisaccia con l'”Ape”, il motocarro leggero della Fiat a suonare la campanella delle case, con l’uso di un “portafoglio clienti” costruito pian piano nel tempo. Per queste varianti operate dal convento dei “frati mendicanti” mi sono sentito autorizzato anch’io ad apportare qualche variazione alla cerca tradizionale.

Ho scritto una lettera, scegliendo di giocarmi in prima persona, mettendo nel foglio una mia foto, chiedendo l’elemosina mediante il conto corrente accluso alla lettera e prendendo gli indirizzi dei mestrini dall’elenco telefonico.

Ho cominciato il primo giorno con i primi 20 nomi della lettera A, il secondo della B e così via. Perché fosse un vero sacrificio anche per me, ho scelto di fare questa operazione dopo cena, nel tempo che di solito dedicavo alla televisione.

Questa cerca mi ha riportato al tempo in cui, da parroco, ho suonato alla porta per 35 anni ad ognuna delle duemila quattrocento famiglie della parrocchia. Là era più difficile ancora perché, non solo non sapevo chi trovavo, ma vedevo dall’accoglienza anche i sentimenti di chi mi accoglieva: talora cortesia fredda, talora atteggiamento di sopportazione, talvolta perfino la sensazione che mi considerassero lo stregone del villaggio!

Scrivendo ogni sera i 20 indirizzi, spesso il rossore mi sale dal cuore al volto, preoccupato della reazione di chi aprirà la mia lettera.

Spero solo che il Signore mi addebiti a credito anche questo mio sacrificio fatto per chi ha bisogno. Altro che “mania della pietra” o vanagloria!

Comunione di intenti fra preti, a Campalto succede

Spesso tra noi preti facciamo dei discorsi complicati e macchinosi sulla fraternità sacerdotale e sui mezzi per acquisirla e consolidarla. I risultati in verità non sono molto appariscenti. Se penso alle parrocchie della nostra città e ai parroci relativi, mi pare di trovarmi di fronte un arcipelago di isolette con campanili diversi, sempre circondate dai caselli doganali ai loro confini. Siamo ancora ben lontani dall’aver realizzato una sinergia di intenti, di iniziative e di mentalità.

E’ più che giusto che ognuno curi il suo orticello con passione, però dovrebbe essere altrettanto giusto che si tenesse conto dell'”economia di mercato” e che non lasciassimo a nessuno le problematiche che superano il respiro parrocchiale. Oggi fortunatamente non ci sono più le liti di un tempo ed è raro che qualcuno si metta a sentinella ai confini della sua repubblichetta, però ci vorrà ancora tempo per aver coscienza di dover sviluppare una pastorale d’insieme.

Ho la sensazione che a questo riguardo non solo nei due ultimi decenni non si sia progredito un granché, ma addirittura che si sia più vicini al regresso che allo stallo!

Fortunatamente ogni tanto avvengono dei “miracoli” che aprono il cuore alla speranza. A me è capitato qualche settimana fa, in rapporto alla costruzione del “don Vecchi” di Campalto. Vicino alla nostra struttura si dovrebbe costruire una chiesa copta e il terreno antistante alla nostra struttura è di proprietà di questa chiesa cristiana, ma separata, per non so proprio per quali motivi, dalla Chiesa di Roma.

L’impresa ha trovato comodo usare questa fascia di terra massacrandola con il trasporto dei materiali, promettendo ai preti copti che una volta terminati i lavori, avrebbero ripristinato il terreno e “pagato il disturbo”.

Questi sacerdoti, che io non ho neppure mai visto, risposero che semmai suddetto importo lo dessero a me per completare i lavori. Sono rimasto quanto mai edificato da questa amabile fraternità.

Con queste premesse, tra il “don Vecchi” e la chiesa copta di Campalto non solo ci sarà un assoluto rapporto ecumenico, ma arriveremo fin dall’inizio alla comunione completa, prima che ci arrivino gli esperti dei vertici copti e cattolici! Ancora una volta si capisce che i fatti risolvono molto di più che le parole!

Confido nella provvidenza… per l’assistenza notturna agli anziani

Con il progetto degli alloggi protetti facciamo passetti da formica e andiamo avanti come le lumache nel dialogo con il Comune per mettere a fuoco un progetto pilota che permetta agli anziani in perdita di autonomia di rimanere più a lungo possibile nel nostro “Centro” e così vivere una vita dignitosa e possibile anche per chi ha pensioni minime.

Abbiamo ribadito più volte che il Comune attualmente spende un euro e venti centesimi per ognuno dei trecento e più anziani che vivono nei duecentocinquanta alloggi che il “don Vecchi” mette a disposizione. Un po’ pochino, no?

Abbiamo presentato un progetto di una struttura pensata per chi è in veloce perdita di autonomia, ma quella della struttura rappresenta solamente una componente per una soluzione, l’altra componente è rappresentata dal personale di servizio da mettere a disposizione per chi ha pensioni irrisorie e al “don Vecchi” la stragrande maggioranza non arriva ai settecento-ottocento euro mensili.

Chi ha soldi, e al “don Vecchi” è una minoranza assoluta, si prende la badante, ma il problema rimane scottante per chi non ha, e la Fondazione, per scelta, accoglie le richieste di alloggi dando l’assoluta preferenza ai meno abbienti.

Ora stiamo trattando per l’assistenza notturna, perché non è purtroppo raro che qualche anziano sia trovato solamente nella tarda mattinata per terra a causa di uno scivolone o di qualche malore. Il problema è grave perché per avere due persone per notte a vigilare su duecentocinquanta alloggi, serve l’assunzione di sei soggetti, date le ferie, i permessi, le festività e mille altre voci, favorevoli per chi lavora, ma costose in assoluto per chi deve tirar fuori i soldi.

Solamente per uno “straccio” di assistenza notturna serve un contributo di centocinquantamila euro! Con l’aria di crisi che tira, temo che ci vorrà mezzo miracolo, ma penso che non sarebbe sprecato perché aprirebbe la strada ad una soluzione veramente provvidenziale per gli anziani con scarsa autonomia.

Quella massima che devo ricordare!

Qualche settimana fa ho ricevuto la notizia che un nostro coinquilino ultranovantenne è morto in una struttura per anziani non autosufficienti al Lido di Venezia. L’annuncio di una morte è sempre una brutta notizia, ma quella del vecchio Toni è stata per me ancora più brutta.

I coniugi Fornasier sono vissuti al “don Vecchi” una decina d’anni fa. Non so a che titolo siano entrati, perché lui era stato un bravissimo capomastro e godeva di una pensione discreta, specie se confrontata a quelle magrissime dei residenti al “don Vecchi”. I primi anni trascorsero quanto mai sereni; credo senza vanto di sorta, che la soluzione di vita offerta al “don Vecchi” sia quella più auspicabile e confortevole per gli anziani: autonomia assoluta, supporto sociale ed organizzativo, struttura accogliente che tiene conto del bisogno di vivere in un clima quasi paesano, senza responsabilità dirette, in un ambiente strutturato con molti spazi comuni per facilitare le relazioni umane e supportare la fragilità dell’anziano.

Passati i primi anni, insorsero però gravi acciacchi per la moglie, tanto che dovette essere ricoverata in una struttura per non autosufficienti ove, dopo poco tempo, è morta. Toni rimase solo, e ben presto s’accorse che pure il litigare con la moglie aiuta a vivere! La mente del nostro ospite cominciò ad annebbiarsi e poi a smarrirsi, tanto che neanche l’ausilio della badante riusciva a fargli vivere una vita passabile.

Noi della direzione, prima suggerimmo il ricovero in una casa di riposo e poi ci parve di doverlo imporre, perché la situazione diveniva di giorno in giorno non più sostenibile. Con immensa fatica il figlio trovò il posto al Lido, località quanto mai scomoda per i famigliari. Pur avendo una forte fibra, dopo pochissime settimane il nostro amico ci lasciò per sempre. Se avessimo pazientato ancora un po’, sarebbe morto nel luogo dove visse stagioni serene della sua vecchiaia.

Questa partenza mi ha posto, ancora una volta, il problema del dovermi fidare di Dio e della sua Provvidenza.

Ricordo, ma devo averla sempre più presente, una massima di Gandhi: “La carità risolve ogni problema, ma quando a noi pare che non lo risolva, non è che l’amore diventi impotente, ma che il nostro amore non è autentico!”

E’ indispensabile dare agli anziani in perdita di autosufficienza una vita dignitosa!

Io non sono certamente un ammiratore delle case di riposo per mille motivi, primo fra tutti perché l’anziano viene privato di ogni seppur minima possibilità decisionale.

Qualche settimana fa sono stato a visitare un mio “confratello” ricoverato in una casa di riposo che, peraltro, gode di ottima fama a Mestre e che in realtà non è un’azienda in cui degli azionisti abbiano investito del denaro pensando che il rendimento sia maggiore e più sicuro! Ebbene l’ospite, pur se con una coscienza ormai limitata e fragile, mi raccontava, amareggiato e stupito: «Qui tutto è proibito “non deve far questo, non può andare là … ” ogni decisione è in mano dell’infermiera!»

Normalmente poi il bacino in cui si pesca il personale di servizio è certamente povero, spesso fatto prevalentemente da extracomunitari, che se non altro, hanno una cultura ed una sensibilità tanto lontane dalla nostra e sono sempre costretti ad accettare i lavori più ingrati che la nostra gente non vuole più fare. Comunque ci sono delle situazioni che, nel tipo di società in cui viviamo, dobbiamo accettare ricorrendo a questa soluzione, pur riveduta, corretta e umanizzata al massimo.

Io convengo con la dottoressa Corsi, alto funzionario del Comune di Venezia per quanto riguarda la terza età. Ella afferma: «L’anziano deve rimanere nella sua casa ed essere accudito come un tempo lo erano i nostri vecchi, accompagnati con amore al termine dei loro giorni». Io convengo totalmente su questo progetto e penso che la stragrande maggioranza dei nostri vecchi potrebbe vivere in questo contesto, ma a condizione che si possa ricreare la grande e numerosa famiglia patriarcale, con la coscienza di poter sorreggere con rispetto e amore l’anziano in perdita di autosufficienza.

So che questo obiettivo è difficile da perseguire, perché il contesto sociale è individualista o peggio ancora egoista, perché i famigliari spesso tentano di scaricare il “vecchio incomodo”; perché talora l’anziano rappresenta “un’entrata” da sfruttare col minimo sforzo e costo possibile; perché le norme burocratiche sono ben lontane dall’aver questa sensibilità e quindi l’importante per l’apparato è erogare comunque un servizio senza poi accertarsi se esso funziona e rispetta la dignità dell’anziano.

Noi al “don Vecchi” ci troviamo nella quasi tragica situazione che le case di riposo per non autosufficienti hanno sempre fuori il cartellino “completo”. Nel Centro non riusciamo ad avere quell’elementi giovani e disposti ad accettare la fragilità esistenziale del vecchio, qualora ce li cercassimo, e ciò sarebbe possibile, lieviterebbero i costi così che i “poveri” non potrebbero rimanere.

Spesso sarei tentato di “mollare”; per ora m’aiuta anche a non farlo una cara alunna di anni lontani, che pur dentro al groviglio burocratico del Comune, continua a credere ed operare come venti anni fa le ha insegnato questo “vecchio docente”.

Gli oleandri del Don Vecchi

Ogni tanto mi salgono alla mente certi proverbi, certi detti popolari, che mi sembrano dei segnali stradali quanto mai opportuni per raggiungere la meta.

Normalmente sono sentenze certamente, se non sapienti, almeno di buon senso, che si ricordano o per la rima o perché evocano istintivamente intuizioni o immagini che mettono a fuoco una verità o un obiettivo.

Qualche giorno fa , passeggiando lungo il vialetto che separa l’edificio del “don Vecchi” col filare di carpini, ormai possenti, che segnano oltre il prato, il confine del parco, osservavo con molto piacere la sequenza di oleandri che ora sono ancora in fiore. Essa costituisce quasi una scia colorata di bianco, rosetta, rosso e crema che ti accompagna lungo il vialetto e pare che ti sorrida con lo sguardo carico di simpatia.

Tra me e il filare di oleandri c’è una storia quanto mai impegnativa e non sempre idilliaca. Durante un torrido luglio di cinque, sei anni fa, un ipermercato ci ha regalato una ottantina di piccole piante in vaso di oleandro (al “don Vecchi”, come ad ogni ente caritativo, si regalano, come fosse oro, le cose più strampalate). Il vecchio Mario, che ora se li gode guardando giù dal cielo, le piantò scavando solo un buchetto col piccone, perché i muratori avevano seppellito sotto un lieve manto di terra tutte le macerie del cantiere. Per tutta l’estate li curarono col biberon perché non morissero in culla. Passati i primi due anni cruciali, crebbero fin troppo, creando una barriera verde che nascondeva il prato e che mi costava ogni anno più di mille euro perché non andassero a disturbare le stelle.

Pur sapendo che gli oleandri sono nati come arbusti, mi sono accorto che con un opportuno “addestramento” si adattano, pur con qualche ritrosia, ad erigersi come alberelli col fusto un po’ contorto, ma con una chioma quanto mai bella.

“Volere è potere”, dice il proverbio, ed io, come l’Alfieri, “volli, sempre volli, fermamente volli!”. Ora l’operazione non è ancora completa, però ogni giorno i miei occhi si posano con dolcezza e legittima soddisfazione su quei filari di cappellini multicolori, e penso con riconoscenza ed affetto, al vecchio Mario che mi ha lasciato in eredità tanta bellezza.

Non beneficienza ma solidarietà!

Qualche tempo fa ho manifestato la mia indignazione nei riguardi di un “confratello” che, pur avendo nella sua comunità una organizzazione caritativa e pur sapendo che io sono pensionato e non svolgo più alcuna funzione specifica nel campo della solidarietà nella Chiesa veneziana, mi mette in imbarazzo inviandomi qualche “povero” con il consiglio “solamente don Armando ti può aiutare”. Ci sono però delle buone donne che non hanno assolutamente questa perfidia, che meno che meno hanno la più pallida idea su quello che faccio al “don Vecchi”, le quali, spinte dallo zelo e dal desiderio di far del bene, suggeriscono spesso a chi si trova in difficoltà di venire da me per avere aiuto.

E’ vero, al “don Vecchi” in quattro anni abbiamo creato un polo caritativo che non ha eguali né a Mestre né nell’intera diocesi, una organizzazione quanto mai efficiente, supportata da una dottrina precisa ed innovativa che tenta di fare da volano alla solidarietà cittadina, tanto da far maturare una nuova cultura nei rapporti tra concittadini. Il principio fondamentale è che solamente la solidarietà può risolvere il problema del bisogno e che anche i poveri debbono e possono aiutare i più poveri.

Sono straconvinto che non ci siano nel patriarcato “agenzie solidali” alle quali ricorrono tanti bisognosi quanti vengano ogni giorno al “don Vecchi” e non ci siano altri gruppi di solidarietà che forniscono un volume di aiuti quanti sono forniti ogni giorno al “don Vecchi”.

Però da noi ognuno deve concorrere con un contributo, seppur quasi solamente simbolico, per chi è ancora più povero, perché convinto che solamente la cultura e la prassi solidale matura la nuova civiltà. Questa dottrina sta già producendo i suoi frutti, infatti i principali finanziatori del nuovo centro di Campalto sono: le associazioni di volontari “Vestire gli Ignudi”, “Carpenedo solidale” e la “Fondazione Carpinetum”, che aiutano chi ha bisogno e nel contempo gli chiedono un contributo seppur minimo, per chi è ancora più povero.

Il termine beneficenza al “don Vecchi” è assolutamente bandito per far posto al nuovo: solidarietà!

Al Don Vecchi vogliamo bisogna essere sognatori!

Sono sempre più convinto che il “don Vecchi” viva ancora nella cornice dell’utopia e temo quanto mai che ne esca.

Qualche giorno fa ha iniziato il suo inserimento per una collaborazione un giovane pensionato. La morte prematura della moglie, il pensionamento ad un’età relativamente giovane e, soprattutto, le sue radici culturali maturate nell’associazionismo di una comunità parrocchiale – oltre l’incontro con questo vecchio prete che va costantemente “alla pesca” di uomini per la solidarietà, l’hanno fortunatamente spinto a questa decisione.

Il passato lavorativo di questo signore è partito dalla laurea in scienze politiche, per portarlo alla funzione di amministratore delegato di un’azienda collegata ad una grande società petrolifera che opera in tutto il mondo. Io ci vivo dentro al “don Vecchi” e perciò mi sono abituato alle sue vicende, alla sua amministrazione assai leggera, concentrata su un “vecchio” ragioniere e su un vecchio prete imperdonabile sognatore, con qualche leggerissimo ausilio da parte di anime generose, ma impegnate in mille altre faccende.

Non avevo previsto l’impatto tra l’esperienza di un manager con l’avventura amministrativa e gestionale di uno staff minuto di creature che sognano un mondo nuovo. Di primo acchito ha compreso che tutte le mansioni previste in un’azienda di qualche consistenza poggiavano solamente su un paio di “avventurieri” (si fa per dire, con termine improprio). D’istinto gli venne da far osservare che bisognerebbe assumere almeno un direttore, un’assistente sociale, un geometra, un economo, un addetto alle relazioni pubbliche e probabilmente anche altro!

Dovetti ricordargli che al “don Vecchi” vivono anziani che con cinquecento euro di pensione debbono pagare l’affitto, luce, gas, medicine, tassa rifiuti, telefono, acqua calda, acqua fredda e spese condominiali, persone che hanno poi il vizio di vestirsi, lavarsi, mangiare e, talvolta, anche ammalarsi!

Credo che abbia capito! Al “don Vecchi” si assumono solo sognatori e gente che crede nell’utopia che anche gli anziani poveri hanno diritto alla vita.

Il mio insuccesso

I miei successi personali hanno fortunatamente come risvolto positivo il costringermi ad essere più tollerante e comprensivo nei riguardi degli sforzi che le singole comunità cristiane e la Chiesa italiana compiono per generare l’uomo nuovo.

Quando il fariseo Nicodemo – il quale avvertiva che Cristo aveva un messaggio valido per la vita, ma tentennava per incertezza e titubanza – si decise, ma solo di notte, ad andare a incontrare Gesù, questi gli disse che ha la vita se non chi nasce nuovamente.

Il discorso di Gesù lasciò perplesso questo povero galantuomo, tanto da spingerlo a fargli la domanda banale; come avrebbe potuto quest’uomo nuovo recuperare il processo fisico avvenuto con la nascita. La rinascita di cui parla Cristo consiste nel nuovo modo di vedere la vita, di interpretarla, di dare alle sue varie espressioni il valore che si rifà al Vangelo, non a quello della tradizione atavica, dell’opinione pubblica o dei mass media.

L’uomo nuovo è quello che accetta la profonda rivoluzione che fa subentrare all’individualismo l’altruismo, all’egoismo la solidarietà. L’uomo nuovo è quello che fa suo il Vangelo di Gesù predicato da Lui con la sua parola e con la vita.

Avevo sperato, con l’infinito ripetermi su questi concetti nei miei sermoni, e con la mia seppur povera testimonianza, d’aver pensato più agli altri che a me stesso; il fatto poi che a più di ottant’anni i miei coetanei mi vedano ancora impegnato per aiutarli, speravo avesse fatto breccia; speravo che questo modo di agire, diverso da quello corrente, avesse toccato le loro coscienze. Invece mi pare che li abbia scalfiti un poco, ma molto poco; ho l’impressione che pensino soprattutto a se stessi, ai loro vantaggi, al loro benessere, ai loro figli e alla loro famiglia. Di certo il “Don Vecchi” non è abitato da “uomini e da donne nuove”.

Stando così le cose bisogna che impari ad essere più cauto nel pretendere che gli altri riescano in quello in cui io ho fallito.

Una celebrazione quotidiana di carità e nell’altruismo

Ogni giorno, verso le sedici, faccio una capatina nell’interrato del “don Vecchi” perché, dalle 15 alle 18 il “don Vecchi” di sotto ha il volto di una casba araba pulsante come il centro commerciale di una metropoli internazionale.

Il “giro” che compio è soprattutto teso a gratificare il centinaio di volontari che per cinque giorni la settimana dedicano pressoché l’intero pomeriggio al “servizio della causa”! Però la visita quotidiana rappresenta anche per me la celebrazione eucaristica vespertina. Il corpo di Cristo si muove e vive per cinque giorni alla settimana nei grandi magazzini del “don Vecchi”.

La celebrazione del corpo del Signore non si esaurisce in una lode tra pochi fedeli di una “messa” privata, ma al don Vecchi si celebra ogni giorno un pontificale maestoso, solenne ed affollato.

Proprio qualche giorno fa, in una lettura del breviario, ho letto una meditazione di san Giovanni Crisostomo (Crisostomo significa bocca-voce d’oro) che pensa esattamente come me, o meglio sono stato felicissimo di riscontrare che le mie convinzioni sono uguali a questo grande padre della Chiesa.

Crisostomo afferma con chiarezza assoluta di termini che il Signore si venera non tanto con le pietre preziose di un tempio o nella sfarzosità dei riti, ma nell’amore e nel servizio ai poveri, che rappresentano e sono il corpo reale del Signore.

Confesso che nelle due settimane di agosto, quando i magazzini sono rimasti chiusi, mi è sembrato che il don Vecchi fosse diventato un monumento ai caduti e non quella cittadella della solidarietà nella quale i cittadini del mondo possono incontrare il volto più reale e più bello della Chiesa e del messaggio di Gesù.

Dopo l’estate la vita è ripresa quasi per incanto e le brezze autunnali hanno determinato veramente il tutto pieno.

Mi fa felice e mi esalta l’andirivieni frettoloso di questo mercato atipico, ma vivace e ricco di altruismo. Talvolta mi capita di domandarmi come tante comunità parrocchiali pare non abbiano capito che la solidarietà è il sangue vivo che scorre nelle vene della Chiesa e che un corpo senza sangue è morto?

L’ispezione

Stavo aspettando, nella mia cattedrale tra i cipressi, quando suor Teresa mi avvisò, col volto preoccupato, che avevano telefonato dal “don Vecchi” che erano arrivati i Nas. Io non so da che cosa risulti questa sigla, ma so invece che la visita dei Nas rappresenta per una qualsiasi azienda un qualcosa ancora di più nefasto che una grandinata per i contadini che attendono la vendemmia.

Proprio ieri la superiora di Villa Salus, che avevo incontrato per degli esami, chiacchierando del più e del meno, m’aveva detto, quasi sottovoce: «Sono venuti perfino i Nas!» Io conoscevo questa attività, meno bella della Benemerita, per una visita a Ca’ Letizia, sollecitata da un questuante che non avevo accontentato, un’altra visita una ventina di anni fa, probabilmente richiesta da chi voleva preservare il quartiere dai poveracci e dai vecchi e poche altre più recenti. I Nas sono sempre una rogna! Le leggi e le disposizioni della burocrazia sono davvero infinite. Credo che in maniera assoluta nessuno possa dirsi a posto con esse. Spesso sono norme valide, ma altrettanto spesso, anzi di più, sono cretinerie che fan perdere solamente soldi senza risolvere i problemi della vita.

Io sapevo che al “don Vecchi” siamo a posto con le carte, ma soprattutto con l’igiene, il buon senso e l’attenzione alla vita e all’uomo; però sapevo altresì che anche nella visita più favorevole essi avrebbero trovato qualche cosa che non va e che nel verbale non sarebbero mancate alcune prescrizioni aggiuntive. E’ così per tutti gli enti ispettivi, purtroppo!

Ho perso una mattinata perché lo scrivano adoperava appena due dita, la pace e la pazienza perché non era facile spiegare su due piedi che cosa sono “gli alloggi protetti” – una realtà giustamente misteriosa e non catalogabile per i carabinieri – e la pace interiore perché, una volta ancora, mi incontravo con l’aspetto più grigio, inutile e dannoso dello Stato: la burocrazia.

Me la son cavata con tre ore di discorsi accattivanti e con qualche prescrizione che lo scorso anno gli stessi Nas non avevano preteso e che neppure quelli di una visita ancora precedente avevano domandato, ma è sempre così! Nel passato subii un’ammenda di cinquantamila lire, scrissi un articoletto indignato su “Lettera aperta”, che mosse un’associazione di federalisti europei ad esprimermi solidarietà, ed in aggiunta un’offerta di 300.000 lire. So però che fortune del genere capitano si e no una volta nella vita.

Per fortuna ci sono poveri che aiutano i poveri, perché chi potrebbe latita

Un mese fa ho spedito, molto speranzosamente, una serie di lettere raccomandate con risposta pagata, per essere certo che esse arrivassero a chi di dovere e che nel nostro mondo tiene le chiavi della cassaforte, per chiedere un contributo a favore dei nuovi 64 alloggi per gli anziani poveri della città.

Quasi due terzi del costo li ho raccolti, o li sto raccogliendo, goccia a goccia, tra la povera gente: le persone dallo stipendio di “mille euro al mese”, quelli che hanno la pensione minima di 516 euro, e chi perfino molto meno. Supponevo quindi che chi manovra le grosse cifre della finanza pubblica ci avrebbe aggiunto, senza grande fatica – constatando ogni giorno l’infinito, ripeto l’infinito, spreco di denaro pubblico – l’ultimo tassello.

“Illusione, dolce chimera sei tu!”.
La prima risposta è stata quella dello Stato, il quale, mentre dichiara mediante il Governo e perfino mediante i suoi uscieri, quanto abbia a cura i poveri, mi dice che non solamente non è disponibile a scucire un centesimo, ma anzi pretende il dieci per cento della spesa, chiamando IVA il furto!

Lo Stato di Napolitano, di Berlusconi, di Bersani, di Di Pietro e di Bossi pretende ben trecentocinquantatremila euro (settecento vecchi milioni), perché mi fa il benevolo piacere di permettermi di aiutare i vecchi più poveri della mia città!

La Chiesa mi invita spesso a pregare per “le autorità del nostro Paese”. D’ora in poi pregherò più insistentemente e più devotamente perché il buon Dio conceda loro quel che si meritano.

Allo Stato finora ho versato già 14.500 euro, pari a quasi trenta milioni, sempre di vecchie lire, per la prima trance.

Seconda risposta in ordine di tempo e di mia speranza: Fondazione Venezia. La vecchia Fondazione della Cassa di Risparmio che per il “don Vecchi 2” aveva contribuito con l’acquisto dei blocchi cucina (mi pare con trecento milioni di vecchie lire), m’ha risposto, medianta una lettera del suo presidente, prof. Segre, che per statuto e scelte della Fondazione stessa, non può assolutamente accogliere la mia richiesta. E due!

In attesa delle altre risposte alle mie richieste – ma se dal mattino si può arguire cosa ci riserverà il giorno – credo che ci sia poco di buono da sperare.

La prima e parziale mia conclusione è questa: per fortuna a Mestre ci sono ancora i poveri disposti ad aiutare i più poveri! La seconda: mi procurerò una bisaccia da frate da cerca ed andrò di casa in casa a domandare, per amor di Dio, qualche soldino per la casa dei nostri nonni!

Al Don Vecchi Marghera c’è un dipendente modello come pochi se ne trovano!

Al “don Vecchi” preferiamo non fare assunzioni perché ogni stipendio va a finire nell'”affitto” degli anziani residenti, molti dei quali “godono” di condizioni economiche modestissime. C’è almeno una decina di persone che non giungono neanche ai cinquecento euro di pensione al mese, ed un’altra quarantina e più che arriva alla fatidica somma di 516 euro, la pensione minima erogata nel nostro Paese.

Puntiamo sul volontariato, ossia dobbiamo puntare sul volontariato, ma qualche volta questo non arriva, o non arriva quello di cui abbiamo bisogno. Talvolta però, pur con fatica e preoccupazione, siamo costretti ad assumere qualcuno.

A Marghera, almeno ogni dieci giorni, qualcuno doveva tagliare l’erba nel parco. Per fortuna di tutti, finora avevano provveduto, da volontari, alcuni residenti, ma è noto che noi accogliamo persone già avanti con gli anni. Ogni taglio costituisce un problema per la vecchia tosaerba e per i vecchi operatori, anche per lo smaltimento di una trentina di sacchi di erba tagliata. Lino e Stefano, i gestori del Centro, dopo interminabili consultazioni col ragionier Candiani e don Armando, e parecchi accertamenti sulla capacità, affidabilità e rendimento del candidato alla assunzione con la qualifica di giardiniere generico addetto al taglio dell’erba, hanno fatto una proposta e la Fondazione l’ha accettata.

L’altro ieri sono andato a Marghera per conoscere il nuovo assunto. In verità l’aspetto non è proprio incoraggiante: m’è sembrato un nanerottolo poco più grande di un coniglio, ma pare che sia un lavoratore di quelli che non se ne trovano più. Orario di lavoro pattuito: otto ore al giorno dalle 8 alle 12 e dalle 16 alle 20, ferie solamente d’inverno e, quando piove, come i muratori, paga mensile euro 1,8. Quello però che m’ha sbalordito è stata la buona volontà: mai un minuto per riposare; meglio ancora la produttività: il prato m’è sembrato un tappeto con una rasatura a pennello!

Ho concluso che i futuri dipendenti li assumo tutti dalla fabbrica che produce questo robottino. Senonché suor Teresa, che ha udito questa mia scelta, mi ha informato che anche Alberto Sordi, il compianto e simpatico attore romano, aveva scelto una robottina del genere, ma presto gli si era innamorata, ma soprattutto era tanto gelosa che quando si accorgeva dell’insistenza di qualche concorrente, pestava i piedi, sbatteva le porte e rompeva piatti. Spero proprio che non mi accada una cosa del genere e che, una volta ancora, non rimanga deluso dai dipendenti!