L’annuncio del Signore al don Vecchi

Ho terminato da pochi giorni la visita alle famiglie della mia “parrocchietta” del “don Vecchi” o, per adoperare il linguaggio della tradizione,”ho finito di benedire le case” della mia comunità cristiana. La mia parrocchia è piccola – 192 famiglie con 230 anime. Il “don Vecchi” però non è la più piccola comunità cristiana della diocesi di Venezia. Infatti Ca’ Corniani ha 147 anime, Marango 52, Brussa 88, Altino 116, per giungere a Torcello che non supera i 16 (sedici) parrocchiani, divisi in due chiese!

Nella mia visita ho tentato di aprire la porta ed introdurre Gesù nella speranza che la parola e la presenza di Cristo operi lo stesso effetto di quando entrò nella casa di Zaccheo. In quell’occasione la luce del Figlio di Dio fece esplodere tutte le contraddizioni e le incongruenze, tanto che “il banchiere” disse: «Darò quattro volte quanto ho frodato e offrirò metà dei miei beni ai poveri!»

Finora non è avvenuto questo “miracolo”, infatti il “don Vecchi” è un campione esatto della nostra società e, a livello religioso, si parte da qualcuno che non desidera la visita del prete, di qualche altro che si fa trovare regolarmente assente, a chi ti accoglie con cortesia, a chi invece ti abbraccia come il padre atteso e l’inviato del Signore.

Io ho già detto che immaginavo che il “don Vecchi” fosse quasi un convento di frati e suore, perché a nessuno abbiamo nascosto il nostro sogno e il nostro tentativo di dar vita ad una comunità di fratelli e di cristiani. Al momento dell’accettazione sembrava che tutti abbracciassero questo sogno, in realtà dopo poche settimane ognuno riprende le vecchie abitudini e lo stile di vita proprio delle nostre parrocchie che annoverano dal bigotto, al praticante, all’apostolo, ma scendono poi all’ateo, all’indifferente, al praticante in certe occasioni, al presente a Pasqua e Natale, al cristiano nominale, per arrivare perfino a chi ha cercato di sbattezzarsi.

Io poi in questa realtà mi ritrovo nell’ambigua situazione del Papa-re nello Stato Pontificio: presidente del consiglio di amministrazione e nello stesso tempo sacerdote che, come invita san Paolo, dovrebbe “parlare, insistere a tempo e fuori tempo con ogni argomentazione ed ogni sforzo, per far accettare la Parola del Signore”.

Mi auguro che allo scadere di questo consiglio di amministrazione ci sia un presidente laico a dirigere ed un prete ad annunciare il Regno, due compiti ben distinti, in modo che ognuno possa sviluppare al meglio la sua funzione.

Cerco l’aiuto solo di chi crede alla solidarietà!

A me capita di sbottare talvolta e forse troppo spesso e troppo violentemente; la pazienza, la ponderazione e la moderazione non sono il mio forte!

Ho scritto e riscritto su “L’incontro”, il periodico che accoglie tutti i miei sfoghi, le mie angosce e i miei pensieri, che alcuni mesi fa me la sono vista veramente brutta quando la Fondazione Carive, che di solito mi aveva generosamente aiutato, a firma del presidente Segre mi ha detto, quasi cinicamente, che da essa non dovevo aspettarmi neppure un soldo; così aveva comunicato la Banca Antoniana presso cui la Fondazione movimenta ogni anno molto denaro. La Regione mi ha risposto dopo quattro mesi che non spetta ad essa erogare denaro per gli alloggi protetti. il Comune, la Cassa di Risparmio: silenzio assoluto. Mentre il Banco di san Marco ha stanziato per il “don Vecchi” di Campalto la bella somma di mille euro.

In questa situazione ho avuto paura! Come san Pietro ho dubitato ed ho cominciato ad affondare. Fortunatamente sono intervenuti i cittadini e la Provvidenza, motivo per cui non sono “annegato”, anzi vedo già la Terra Promessa.

Ma il motivo che mi ha mandato in bestia sono state alcune voci arrivatemi, che dicevano che i confratelli – non tutti per fortuna, perché don Liviero, il parroco di viale san Marco, don Bonini del Duomo, don Cicutto ed altri non è stato così anzi mi hanno aiutato, – mi criticavano perché non avrei dovuto mettermi nei guai perché non tocca ai preti pensare ai poveri, ma al Comune e allo Stato.

Poi ci fu qualche altro che mi fece capire che non è opportuno chiedere sempre, quasi dicendomi la frase fatidica di Berlusconi: “Non si deve mettere le mani nelle tasche dei cittadini!”. Non tutti la pensano così, ne fa fede la lista di offerte che pubblico ogni settimana. Tuttavia questo mi ha fatto scrivere quello che ribadisco: “Non voglio assolutamente i soldi di chi non ha fiducia in me, di chi non ritiene opportuno aiutare i vecchi in povertà, di chi è convinto che la Chiesa debba occuparsi solamente delle anime e del Paradiso, di chi è convinto che le cose debbano cadere dal cielo!

So di non avere la fede e l’umiltà del Cottolengo, di san Vincenzo de Paoli, dell’Abbé Pierre o di Teresa di Calcutta, ecc…, però lasciatemi dire che chi crede che sia giusto pensare solamente a se stessi e ai propri famigliari, i suoi soldi se li tenga, io e chi la pensa come me ci faremo aiutare da chi crede comunque alla solidarietà!

Uno dei fiori all’occhiello del don Vecchi ha 96 anni e molto da insegnare

Il primo sabato del mese vado sempre a portare la comunione ad una mia coinquilina del “don Vecchi”. Questa signora porta bene i suoi novantasei anni; un po’ lenta nei movimenti perché “robustina”, ma se ci vedesse un po’ di più potremmo dire che sta bene! Vive da parecchi anni con grande serenità nel suo appartamentino, che s’affaccia sul grande prato verde di viale don Sturzo.

Una volta fatta la comunione e recitate assieme le principali preghiere della nostra fede, mi siedo a conversare un po’ con lei. Mi racconta della sua vita, delle figlie che le vogliono tanto bene e la vengono spesso a visitare, di un mondo di nipoti, pronipoti ed assimilati; è felice perché si sente tanto amata e le pare di vivere da regina nel suo piccolo regno fatto della cucina-soggiorno, della stanza da letto, del bagno e di un bel terrazzino nel quale cura con infinito amore le sue piante.

Non esce quasi mai perché vede solo qualche penombra ed ha paura, ma nonostante questo mi dice che passa con tanta serenità le sue giornate: un po’ riordina la casa, un po’ prega, un po’ segue soprattutto il parlato della televisione e poi ascolta la radio durante la notte.

Credo che questa vecchia donna abbia veramente tutta la felicità possibile a questo mondo e relativa ai suoi anni. Da tanto tempo io la ritengo un fiore all’occhiello del “don Vecchi” ed un sicuro punto di riferimento nel proporre il modello degli alloggi protetti con assoluta convinzione.

L’ultima volta che sono andato da lei mi ha raccontato della sua infanzia, passata in una vecchia casa tra i campi della Bissuola. E’ rimasta orfana ancora bambina, da poco finita la prima guerra mondiale, assieme ad altri cinque fratelli più piccoli di lei. Andò a vivere con una zia, anche lei con sei figli, che è morta anch’essa un mese dopo la sua sorella. Alla nonna, in 30 giorni, sono rimasti 12 bambini piccoli da crescere, oltre il dover badare alle galline e ai campi.

La mia inquilina mi parla sempre con venerazione e riconoscenza infinita di questa nonna che ha cresciuto questa tribù di bambini, passando loro valori e coraggio di vivere, senza aver fatto corsi di psicologia.

La “nipotina orfana” del dopoguerra ha 96 anni e vive ancora appoggiandosi a quei sani principi che la nonna, pur in situazioni impossibili, le passò con sicurezza e amore. Ogni volta che questa creatura mi parla d’altri tempi, mi verrebbe voglia, se ne avessi la possibilità, di offrirle una laurea honoris causa ed una cattedra all’università di pedagogia, alla cui frequenza obbligherei tutte le ragazze della nostra città.

Lo sguardo al futuro e la gratitudine per chi ha lavorato con noi fin qui

Qualche giorno fa, dopo la messa prefestiva alla quale partecipano molti residenti del Centro “don Vecchi”, la direzione ha organizzato un rinfresco in occasione del pensionamento del responsabile della sorveglianza, il signor Paolo Silvestro. I residenti si sono ritrovati nella hall, illuminata a festa, per ringraziare e porgere un piccolo dono per il decennio di servizio prestato dal signor Paolo, il cui lavoro è iniziato con l’apertura del “don Vecchi 2”. Il direttore, ragionier Rolando Candiani e il presidente della Fondazione, don Armando, hanno rivolto parole di circostanza e di ringraziamento a questo funzionario collaboratore dei responsabili dei Centri “don Vecchi”, i quali hanno elaborato e perfezionato poi sul campo la “dottrina” per questa struttura residenziale, che costituisce un progetto pilota nei riguardi di una fetta sempre più vasta di cittadini, compresi tra il pensionamento e la vecchiaia.

Al progetto, studiato a tavolino, si stanno apportando modifiche, in rapporto ad una sperimentazione in atto, che suggerisce soluzioni sempre più adeguate.

Allo stato delle cose si sta attualmente puntando, da un lato, ad una sempre più completa autogestione da parte dei residenti, eliminando il personale di servizio. Questo orientamento si sta mostrando vincente a Marghera ed è, oltre che motivo di un sempre più completo coinvolgimento dei residenti, motivo di risparmio, in quanto gli aspetti amministrativi e gestionali vengono sempre più demandati ai residenti e al volontariato.

Dall’altro lato si sta puntando a disporre di un piccolo nucleo di collaboratrici familiari, valide e residenti al “don Vecchi”, che accudiscano, sotto ogni aspetto, le persone in perdita di autosufficienza e che non dispongono di risorse economiche per pagarsi questi servizi.

La Provvidenza ci ha “messo a disposizione” la signora Rosanna Cervellin, estremamente esperta del settore, che attuerà e gestirà questo servizio.

Ci auguriamo che queste sperimentazioni possano offrire al Comune e alla Regione un modello adeguato per regolamentare questo settore di assistenza sociale.

La Befana è andata anche da un vecchio prete in pensione!

Quest’anno ho fatto più che mai fatica per cogliere, come nei tempi lontani, la poesia e l’incanto del Natale. Per scelta, da tanti anni rifiuto il Natale-magico che, come per incanto, dovrebbe creare nel mondo una situazione idilliaca: ciò perché esso è evasione dalla realtà e mistificazione del “mistero” evangelico e perciò ad esso preferisco l’annuncio che Dio continua a colloquiare con le sue creature, ci è vicino e non disdegna di camminare con noi. Con ciò non rinuncio, anzi desidero vivere ancora l’incanto del presepio, dell’albero di Natale, della Befana e delle pastorali delle zampogne.

Forse la mia è fatica sprecata, perché certe sensazioni sono legate all’infanzia, al candore dell’anima, realtà per me lontane e difficilmente recuperabili. Però, anche senza troppa speranza, ci ho tentato. Anche quest’anno mi sono soffermato con curiosità e nostalgia a guardare le carrellate dei telegiornali, per vedere i magazzini ove le befane del terzo millennio si sono rifornite per riempire le calze dei nostri bambini, meravigliandomi e quasi protestando perché la befana della mia infanzia aveva poca fantasia e soprattutto era tanto parsimoniosa!

Anche quest’anno ho attaccato, fuori della porta – perché il mio piccolo alloggio del “don Vecchi” non ha camino, la calza, per poter vedere quanti dolci e quanto carbone le “befane del don Vecchi” m’avrebbero portato. Ebbene, la befana s’è fatta viva, nonostante la mia veneranda età: mi ha messo una busta bianca sotto la porta con cento euro, firmandosi “La befana”. Mentre aprivo questa piccola busta bianca, recuperando per un momento l’incanto e la sorpresa di tempi ormai tanto lontani, ho compreso che essa era stata con me più cara e più generosa di sempre, perché durante il duemilaedieci m’ha messo nella calza più di mezzo milione di euro!

Dopo questa esperienza mi sono detto che la mia fede nella befana non verrà mai meno, anche se vivessi mille anni.

Grazie a chi ci aiuta!

La scorsa settimana ho sentito il dovere e il bisogno di rassicurare gli amici, i lettori de “L’incontro” e i concittadini, che i tempi della “grande paura” quasi certamente sono passati e che intravedo già una luce in fondo al tunnel.

Credo di non essere per nulla un temerario o uno sprovveduto. Quando siamo partiti col “don Vecchi” di Campalto avevamo in cassa quasi i due terzi della somma necessaria e avevamo già approntato “il paracadute” con l’apertura di un conto corrente ipotecario presso la Banca Prossima, con una garanzia di due milioni, in modo da pagare solamente lo 0,60% su quello che avremmo prelevato e comunque restituibile in dieci anni.

Pensavo che i contributi degli enti pubblici, quali il Comune, la Provincia, la Regione, la Fondazione della Cassa di Risparmio e le banche avrebbero fatto il resto, perché sono, o dovrebbero essere le realtà più sensibili alle soluzioni sociali più valide e più economiche.

Come riserva, da mestrino di adozione, contavo anche sulla fiducia che i concittadini mi hanno sempre dimostrato e, da prete poi, per dovere e soprattutto per esperienza, sapevo che potevo contare sulla Divina Provvidenza.

In realtà le certezze di ordine costituzionale sono venute totalmente meno, così che ho dovuto aggrapparmi disperatamente alla città e al buon Dio. Città e buon Dio non solo non mi hanno abbandonato, ma stanno aiutandomi con una generosità che mai avrei potuto sperare. I cittadini molto probabilmente non hanno creduto opportuno che uno dei loro preti, che per più di mezzo secolo aveva cresciuto i loro ragazzi, insegnato nelle scuole cittadine, accompagnato i loro morti al camposanto e benedetto le loro nozze e sorretto i vecchi, se ne andasse con la bisaccia da frate da cerca a chiedere l’elemosina; e la Provvidenza, ritenendo valida la causa, ha provveduto brillantemente e con abbondanza, mediante un’apertura di credito senza interessi e senza dovere di restituzione.

Le cose stanno andando così tanto bene che, ancora una volta, mi tormenta l’animo il dolce rimprovero di Cristo: «Uomo di poca fede!»

Chissà che d’ora in poi non riesca a comprendere che il buon Dio è da un’eternità che ci pensa e riesce a far funzionare il mondo anche senza di me e senza l’aiuto degli enti pubblici!

Quante cose vorrei riuscire a fare più spesso!

Talvolta mi accorgo di subire il tentativo di autoingannarmi, ed avverto questo imbroglio che uso nei miei riguardi quando tento di convincermi che non ho tempo per far certe cose perché troppo impegnato.

Quando poi ricupero un po’ di lealtà con me stesso, mi confesso che non basta solamente la buona volontà per fare quello che riterrei opportuno o doveroso fare, ma ci vogliono pure risorse fisiche e mentali che io, a causa dell’età, non ho più.

M’ero riproposto di andare con molta frequenza al “don Vecchi” di Marghera per portare la mia solidarietà e per offrire orizzonti più larghi di quelli che hanno, ai settanta residenti; poi, per un motivo o per un altro, finisco per andarci solamente un paio di volte al mese.

In passato sapevo che don Ottavio, “il parroco territoriale”, era affezionato ed amava il “don Vecchi”, perciò mi dicevo che la mia sarebbe stata quasi una intromissione nella parrocchia di un altro. Ora don Ottavio se n’è andato e il nuovo parroco, per età e per altri impegni, penso abbia poco tempo da dedicare in maniera specifica agli anziani di quella struttura. Sono stato quindi costretto a superare la mia fragilità ed ho accettato, dopo molti rimandi, di celebrare una messa in preparazione al Natale.

La giornata era proibitiva, neve e gelo, ma se avessi mancato sarebbe stato veramente un tradimento che non mi sarei mai perdonato. L’accoglienza è stata festosa, la struttura “vestita da Natale”, la partecipazione totale e il rinfresco da principi, preparato da un cuoco di livello internazionale.

Sono stato felice, mi hanno riempito di doni, e sono ritornato pensando di ripetere tanto più frequentemente questi incontri che danno ricchezza umana alla convivenza; so però che non riuscirò a farlo come sognerei e vorrei. Debbo arrendermi alla realtà che ad ottantadue anni si è vecchi e non si può più fare quello che piacerebbe, o meglio si è convinti di dover fare.

Sempre più frequentemente penso al secondo “pensionamento”, a quello reale! Se non l’ho ancora fatto credo sia perché, nonostante io stia ancora tentando di illudermi, non vedo che esistano persone disponibili per questa avventura cristiana!

“Allontanati da me, o Signore, perché sono un uomo di poca fede!”

San Pietro, in occasione della pesca miracolosa, dopo l’abbondante pescagione, si buttò ai piedi di Cristo e disse: «Allontanati da me perché sono un peccatore!»

Credo che tutti sappiano come sono andate le cose. Pietro e la sua cooperativa avevano pescato a lungo nel lago, ma senza alcun risultato, per cui lui e i suoi compagni erano stanchi e delusi. Sennonché Gesù disse a Pietro, capobarca: «Butta le reti in mare per la pesca». Pietro era pescatore di professione ed anche i suoi amici erano esperti in questo mestiere, mentre era certamente loro noto che Gesù per trent’anni aveva fatto il falegname, motivo per cui non poteva intendersi di pesca.

Pietro allora fece osservare: «Abbiamo tentato tutta la notte di buttare le reti, ma inutilmente». Poi, forse per soggezione o per affetto e per dimostrare al Maestro l’inutilità di quella ulteriore fatica, controvoglia e di malumore, aggiunse: «Ma sì, sulla tua parola, per accontentarti, butterò la rete». Non è però improbabile che in cuor suo abbia anche mandato Cristo a quel paese! Di certo non fu entusiasta e poco rassegnato ad una ulteriore delusione. Ma quando tirarono su le reti, Pietro fu sorpreso e provò un senso di colpa per aver dubitato; da questo, di certo, è nata la sua confessione.

A me sta capitando la stessa cosa. Ho chiesto accoratamente aiuto per il “don Vecchi” di Campalto al Comune, alla Regione, alla Provincia, alla Fondazione Carive, alle banche Antonveneta, Cassa di Risparmio, Banco di San Marco, Banca popolare, alla Associazione Industriali. Risposta: niente!

Allora ho tentato con la sottoscrizione dei “Bond del Paradiso”, come un giovane amico giornalista ha definito la sottoscrizione di azioni della Fondazione di cinquanta euro l’una. Infine mi sono “messo sulle spalle la bisaccia da frate da cerca” e ho suonato a 400 campanelli della città. La risposta a questa iniziativa è stata tra il modesto e il discreto, però non ha mai raggiunto l’adeguatezza ai bisogni.

Stavo per sconfortarmi, sentendomi abbandonato dagli uomini e da Dio, quando improvvisamente ed inaspettatamente s’è fatto vivo il buon Dio, battendomi una mano sulla spalla e dicendomi: «Prete di poca fede!», facendomi balenare una prospettiva, di cui non oso ancora parlare, ma che potrebbe tirarmi fuori dalle angustie. Sulla proposta del Signore, anche se stanco e deluso, ho ributtato le reti in mare, confessando in anticipo: «Allontanati da me, o Signore, perché sono un uomo di poca fede!»

Ostacolare in qualche modo un’opera di carità è sacrilegio!

Per temperamento sono poco o nulla indulgente verso chi non è di parola, rimanda o tira le cose per le lunghe. Non credo di sbagliarmi, ma pur essendo cosciente che aver a che fare (come è costretto l’architetto che ha progettato e cura la costruzione di Campalto) con la burocrazia comunale, non sia proprio una cosa facile e sbrigativa.

Un giorno questo architetto, che io incalzavo più di sempre, avvertendo la mia impazienza per nulla disposta a subire lungaggini e ritardi, a sua discolpa e per giustificare la sua mancanza del rispetto dei tempi stabiliti, mi disse: «Sa, don Armando, lei ha tanta gente che le vuole bene, ma anche della gente che non è troppo propensa ad assecondare i suoi progetti!»

Sono ben convinto che le cose stiano così, non per questo cesserò di pretendere che ognuno faccia il suo mestiere e lo faccia bene, anche se ha la possibilità di insabbiare l’iter burocratico di certi percorsi ad ostacoli ai quali i poveri cittadini sono costretti dalla burocrazia comunale.

Io non ho mai preteso o ambìto di avere il consenso di tutti, perché questo esigerebbe compromessi con la mia coscienza, avallerebbe la pigrizia di certuni, ma soprattutto perché sono convinto che i poveri debbano avere percorsi agevolati e privilegiati.

Io, alla mia età, non domando più nulla per me, ma credo di dovermi fare portavoce dei più indifesi.

Da qualche anno, vedendo la condizione miserrima in cui vivono gli extracomunitari a Mestre, avevo sognato un ostello ove fossero ospitati civilmente. Non appena la stampa diede notizia del progetto, c’è stato qualcuno che abita vicino al luogo ove doveva nascere la struttura, che s’è opposto con decisione e caparbietà. Inizialmente tentai di rassicurare che avrei vigilato perché non avesse fastidi di sorta, ma più tentavo di far presente che anche questa povera gente che viene dalla miseria ha diritto a ricevere una mano da gente civile e cristiana, più costui dimostrava rifiuto ed opposizione, tanto che ad un certo momento la diga della mia pazienza non resse più e sbottai: «A casa mia e con i soldi miei faccio quello che ritengo giusto!»

Poi, per una serie di considerazioni, ripiegai sulla scelta di una struttura per anziani poveri, ritenendomi non preparato per l’altro progetto. Però il mio contestatore se la legò ad un dito e ha tentato con ogni mezzo di ostacolare il progetto del “don Vecchi 4”.

Scrivo questo senza malanimo o rancore di sorta, ma ripeto ai miei concittadini e soprattutto ai fratelli di fede: «La carità ha sempre un prezzo, ed è un prezzo che è doveroso paghino anche i preti, ma non è giusto pretendere che lo paghino solamente loro, e che la loro carità non scalfisca neppure le fisime di chi è solamente preoccupato del proprio tornaconto. E perché tutti sappiano come la penso, mi sento di dover affermare pubblicamente che ostacolare in qualche modo un’opera di carità è sacrilegio!

La benedizione annuale delle case, da sempre per me un momento di gioia!

A tutt’oggi non ho ancora perduto il vecchio “vizio” di andare a “benedire le case”.

Il mio carissimo amico, già direttore della Banca Cattolica del Veneto e membro della Conferenza della San Vincenzo, a cui partecipavo ogni settimana, era solito dire in maniera scherzosa e quasi come un vezzo: «Io, don Armando, sono così affezionato a certi peccatucci che proprio non ho alcuna intenzione di abbandonarli!» In realtà alludeva a qualche convinzione o pratica personale, non universalmente condivisa, a cui egli credeva e che, pur controcorrente, egli intendeva mantenere.

Così anch’io, pur essendo rimasto fino alla pensione uno dei pochissimi parroci della città a visitare ogni anno tutte le duemilaquattrocento famiglie della parrocchia per la “benedizione annuale”, ho continuato a farlo ogni anno e per tutti i 35 anni che ho fatto il parroco.

Ora che sono “parroco” per modo di dire della borgatella delle 194 famigliole del “don Vecchi” 1° e 2°, continuo a “benedire le case” dei miei nuovi parrocchiani, ricevendo le confidenze ed ascoltando i problemi della mia gente. Ogni giorno “benedico” una decina di “case” e mi si allarga ogni giorno il cuore sentire quanto i miei parrocchiani si sentano contenti di vivere in un ambiente protetto, al caldo, senza preoccupazioni di ricevere uno sfratto e con la serenità di poter arrivare alla fine del mese senza debiti e pensieri.

Quest’anno poi, alla consolazione di sempre, mi si aggiunge il fatto che tutti, proprio tutti indistintamente, mi stanno porgendo la loro offerta, pur non richiesta, magari di soltanto cinque euro, per il “don Vecchi” di Campalto.

Questa calda ed affettuosa solidarietà mi lenisce la ferita del constatare che tanta gente piena di denaro, e tanti amministratori pubblici, così amanti dei poveri durante la campagna elettorale, continuano a lasciar cadere nel vuoto le mie accorate richieste d’aiuto.

Una rassicurazione per gli amici!

Avverto gli amici e i lettori, che mi stanno passando i momenti della “grande paura” di non farcela!
Sento che la Città è con me; non passa infatti giorno ed occasione che chi incontro non mi porga il suo aiuto!
Ormai sono convinto, che assieme alla povera gente, per il prossimo anno 1° settembre inaugureremo il don Vecchi 4° di Campalto.
A tutti grazie di cuore!

Silenzi, ritardi e rifiuti!

Purtroppo sono ben cosciente di non tener conto di un saggio consiglio che Papa Roncalli ha ripetuto più volte quando era Patriarca a Venezia: «Quando sei turbato da una notizia, dormici sopra almeno una notte prima di reagire». Non ci riesco proprio. Sarà per un’altra volta che metterò in pratica il consiglio del Papa buono!

Ho appena aperto la lettera della Regione nella quale, dopo tre mesi dalla mia richiesta di un contributo economico per finanziare il “don Vecchi” di Campalto, mi si risponde che “La Regione finanzia le strutture per anziani non autosufficienti, mentre gli alloggi protetti, quali sono quelli del “don Vecchi” – in quanto del settore sociale – sono a carico del Comune. Distinti saluti”.

Nella stessa data, cioè in agosto, avevo inviato una richiesta simile al Comune, ma a tutt’oggi non mi è arrivata alcuna risposta.

Questo ritardo, da parte del Comune, lo posso anche ben comprendere, perché avendo esso solamente quattromilaseicento dipendenti, fa fatica ad essere tempestivo nelle risposte. Probabilmente la Regione ha qualche migliaio di dipendenti in più e perciò riesce in soli tre mesi a dare una risposta!

Alla Regione voglio dire: «Perché allora non accogliete gli anziani non autosufficienti attualmente residenti al “don Vecchi” che da anni vi supplico di accogliere e che sono a posto con tutte le schede SWAM che voi richiedete? D’altronde penso che voi vi sentiate con la coscienza tranquilla sapendo che il Comune ci passa euro 1,25 per anziano. Voi pensate di fare un affare risparmiando, mentre voi e il Comune dovreste spendere cento euro per ogni anziano che dovesse venire nelle strutture per non autosufficienti che voi finanziate!»

Il Comune poi, penso che non abbia scrupoli del genere, perché per averli bisogna avere una coscienza, ma temo proprio che esso non l’abbia affatto, vedendo come si comporta!

Il prete mendicante

Sto tentando con ogni mezzo di convincere i fedeli, che con me ogni domenica ascoltano la “parola di Dio”, che questa Parola non possiamo lasciarla passare sopra i nostri capelli senza investire la nostra mente e il nostro cuore e rimanere pressoché indifferenti, come quando non prestiamo alcuna attenzione alle chiacchiere della televisione.

Più di una volta ho ricordato che quando Dio ci parla, e lo fa sempre per il nostro bene, dobbiamo avere almeno l’attenzione con cui ascoltiamo il nostro medico che fa la diagnosi sui nostri malanni e ci suggerisce le medicine per guarirli.

Qualche domenica fa ero ancora emozionato da questi discorsi, quando incontrai, nei pressi della chiesa del cimitero, ove avevo appena celebrato l’Eucaristia, una cara signora che mi vuol bene e che frequenta assiduamente il precetto festivo, ed è una di quelle signore che noi definiamo normalmente “una buona cristiana”. La quale, sgranando gli occhi con sorpresa e meraviglia, mi chiese incredula : «E’ vero, don Armando, che Lei chiede la carità per costruire il “don Vecchi” a Campalto?» Di certo era convinta che fosse disdicevole per la dignità di un sacerdote chiedere l’elemosina per i fratelli in difficoltà.

Le risposi arrossendo, perché sapevo di barare: «E’ vero!». In realtà chiedo sì l’elemosina, ma lo faccio mediante l’anonimato di una lettera, soluzione meno impegnativa che bussare personalmente ad una porta e stendere la mano. Già, perché questa soluzione mi costa già molto ed arrossisco mentre copio l’indirizzo dall’elenco telefonico, immaginando la reazione del destinatario e perciò non so quanto mi costerebbe farlo in maniera diretta.

Nonostante pensi a padre Cristoforo dei “Promessi sposi” o mi rifaccia ai frati mendicanti di san Francesco, la cosa mi costa assai: eppure, sia io che la signora, fin dall’infanzia conosciamo il precetto di Gesù “Ama il prossimo tuo come te stesso!” E’ evidente, perciò, che il mio modo di ascoltare Cristo, come quello della mia interlocutrice, lascia ancora molto a desiderare!

Il nono anniversario deila fondazione dei Magazzini San Martino, momento speciale

Quest’anno abbiamo celebrato con particolare solennità il nono anniversario della “fondazione dei magazzini” San Martino.

I magazzini del “don Vecchi”, gestiti dall’associazione di volontariato “Vestire gli ignudi”, sono una realtà che ormai si impone all’attenzione, non solamente del nostro efficiente e ricco Nordest ma, senza presunzione, a livello nazionale per la quantità di merce “lavorata”, per numero di “addetti ai lavori”, per la “filosofia” su cui si reggono e per la loro efficienza.

L’idea di un emporio di vestiti per i poveri è certamente vecchia di quarant’anni, quando con la San Vincenzo abbiamo aperto “l’armadio del povero” nella baracchetta che si affacciava alla corte della canonica di San Lorenzo. Venne poi sviluppata a Ca’ Letizia con un magazzinetto di una ottantina di metri quadrati, ma si sviluppò infine, in maniera sorprendente, nell’interrato del “don Vecchi”.

L’incontro tra questa intuizione e la professionalità di un funzionario in pensione dell’Oviesse di Coin, il signor Danilo Bagaggia, ha determinato la scintilla e ha fatto sbocciare “il miracolo”.

Quasi 600 metri di esposizione, un magazzino di stoccaggio di 500 metri a Mogliano, 110 operatori volontari, trentamila “clienti” all’anno, cassonetti di raccolta in città, ma soprattutto la dottrina “Anche i poveri debbono essere solidali con i più poveri”, motivo per cui niente viene regalato in beneficenza, ma ognuno dà un contributo, seppur minimo, per realizzare strutture di carattere sociale.

Venerdì 12 novembre, su desiderio del direttore generale, signor Bagaggia, abbiamo invitato a visitare i magazzini e poi, a cena, il dottor Vittorio Coin e due suoi collaboratori, perché il gruppo Coin è il maggiore fornitore, a titolo gratuito, della “merce nuova”. Alla cena c’era tutto il Consiglio di Amministrazione al completo, dalla presidente suor Teresa Del Buffa, ai consiglieri Bragaggia, don Trevisiol, la signora Navarra e il signor Bembo.

Al dottor Coin è stato donato, in segno di riconoscenza, un’antica icona e gli è stato richiesto di accettare di essere il testimonial di questa grande impresa umanitaria. Ai volontari poi, una crocetta d’argento.

Debbo annotare che l’incontro è stato il segno di un autentico “miracolo sociale”.

La Divina Provvidenza continua a sorprendermi

Non è passato neppure un giorno dall’episodio che mi ha riempito il cuore di rossore per aver dubitato della Divina Provvidenza, quando ho incontrato per strada una signora che io pensavo di non aver mai conosciuto, la quale, con un certo imbarazzo, mi disse: «Io sono quella della macchina!» Dapprima non capii, ma poi mi sovvenne che suor Teresa m’aveva confidato, con molto entusiasmo, che una signora le aveva detto d’aver comperato una di quelle automobiline, per guidare le quali non serve la patente, ma aveva capito che lei non era un tipo da andare in macchina e perciò, se non avesse trovato da venderla prima di Natale, l’avrebbe regalata a me perché organizzassi un’asta o un lotteria a favore del “don Vecchi” di Campalto, mettendo in palio la sua automobilina che mi avrebbe regalato.

Pian piano capii che la “signora della macchina” era appunto quella che mi fermava sul piazzale del cimitero. Lei soggiunse: «Ho trovato da vendere l’automobile che avevo deciso di non usare, ma siccome le promesse son promesse, e perciò vanno mantenute, le porterò quanto prima duemila euro delle quattromilacinquecento che ho preso dalla vendita!»

Ogni tanto qualcuno mi domanda, ma più spesso mi domando io stesso: «Dove ho trovato tutto quel sacco di miliardi che mi sono occorsi per costruire il “don Vecchi uno, due, tre ed ora quattro?» Poi soggiungo, quasi incredulo: «Li ho trovati così, per strada!» Però poi debbo correggermi, precisando doverosamente: «La Divina Provvidenza mi ha fatto trovare per strada, nei modi e nelle occasioni più inimmaginabili, tutti i denari che Ella ha deciso di investire a favore dei poveri vecchi di Mestre».