Mendicante a ottant’anni

La mia è stata una decisione sofferta ma necessaria. Dopo essermi lambiccato il cervello, vedendo che le istituzioni pubbliche e le banche, quasi tutte, non si sono neppure degnate di rispondere alla mia richiesta di contributi per il “don Vecchi” di Campalto e vedendo che le sottoscrizioni delle azioni della Fondazione Carpinetum andavano a rilento e risultavano insufficienti a completare ciò che mi mancava per coprire le spese per la costruzione del “don Vecchi” di Campalto, come Cesare ho “gettato il dado” e mi sono deciso per la soluzione estrema: mendicare!

L’idea mia è venuta qualche mese fa quando, essendo andato con i miei anziani in pellegrinaggio al Santuario della Madonna dell’Olmo, ho appreso da un confratello laico che i Cappuccini mantenevano la mensa dei poveri andando alla cerca, come i vecchi frati di un tempo. In verità avevano adottato qualche aggiornamento, sostituendo la vecchia e tradizionale bisaccia con l'”Ape”, il motocarro leggero della Fiat a suonare la campanella delle case, con l’uso di un “portafoglio clienti” costruito pian piano nel tempo. Per queste varianti operate dal convento dei “frati mendicanti” mi sono sentito autorizzato anch’io ad apportare qualche variazione alla cerca tradizionale.

Ho scritto una lettera, scegliendo di giocarmi in prima persona, mettendo nel foglio una mia foto, chiedendo l’elemosina mediante il conto corrente accluso alla lettera e prendendo gli indirizzi dei mestrini dall’elenco telefonico.

Ho cominciato il primo giorno con i primi 20 nomi della lettera A, il secondo della B e così via. Perché fosse un vero sacrificio anche per me, ho scelto di fare questa operazione dopo cena, nel tempo che di solito dedicavo alla televisione.

Questa cerca mi ha riportato al tempo in cui, da parroco, ho suonato alla porta per 35 anni ad ognuna delle duemila quattrocento famiglie della parrocchia. Là era più difficile ancora perché, non solo non sapevo chi trovavo, ma vedevo dall’accoglienza anche i sentimenti di chi mi accoglieva: talora cortesia fredda, talora atteggiamento di sopportazione, talvolta perfino la sensazione che mi considerassero lo stregone del villaggio!

Scrivendo ogni sera i 20 indirizzi, spesso il rossore mi sale dal cuore al volto, preoccupato della reazione di chi aprirà la mia lettera.

Spero solo che il Signore mi addebiti a credito anche questo mio sacrificio fatto per chi ha bisogno. Altro che “mania della pietra” o vanagloria!

Comunione di intenti fra preti, a Campalto succede

Spesso tra noi preti facciamo dei discorsi complicati e macchinosi sulla fraternità sacerdotale e sui mezzi per acquisirla e consolidarla. I risultati in verità non sono molto appariscenti. Se penso alle parrocchie della nostra città e ai parroci relativi, mi pare di trovarmi di fronte un arcipelago di isolette con campanili diversi, sempre circondate dai caselli doganali ai loro confini. Siamo ancora ben lontani dall’aver realizzato una sinergia di intenti, di iniziative e di mentalità.

E’ più che giusto che ognuno curi il suo orticello con passione, però dovrebbe essere altrettanto giusto che si tenesse conto dell'”economia di mercato” e che non lasciassimo a nessuno le problematiche che superano il respiro parrocchiale. Oggi fortunatamente non ci sono più le liti di un tempo ed è raro che qualcuno si metta a sentinella ai confini della sua repubblichetta, però ci vorrà ancora tempo per aver coscienza di dover sviluppare una pastorale d’insieme.

Ho la sensazione che a questo riguardo non solo nei due ultimi decenni non si sia progredito un granché, ma addirittura che si sia più vicini al regresso che allo stallo!

Fortunatamente ogni tanto avvengono dei “miracoli” che aprono il cuore alla speranza. A me è capitato qualche settimana fa, in rapporto alla costruzione del “don Vecchi” di Campalto. Vicino alla nostra struttura si dovrebbe costruire una chiesa copta e il terreno antistante alla nostra struttura è di proprietà di questa chiesa cristiana, ma separata, per non so proprio per quali motivi, dalla Chiesa di Roma.

L’impresa ha trovato comodo usare questa fascia di terra massacrandola con il trasporto dei materiali, promettendo ai preti copti che una volta terminati i lavori, avrebbero ripristinato il terreno e “pagato il disturbo”.

Questi sacerdoti, che io non ho neppure mai visto, risposero che semmai suddetto importo lo dessero a me per completare i lavori. Sono rimasto quanto mai edificato da questa amabile fraternità.

Con queste premesse, tra il “don Vecchi” e la chiesa copta di Campalto non solo ci sarà un assoluto rapporto ecumenico, ma arriveremo fin dall’inizio alla comunione completa, prima che ci arrivino gli esperti dei vertici copti e cattolici! Ancora una volta si capisce che i fatti risolvono molto di più che le parole!

Il profumo della gente buona

Qualche tempo fa, nel testo in cui al mattino faccio un po’ di meditazione, c’era scritto che nessun incontro è casuale, ma sempre, invece, obbedisce al piano della Provvidenza, per cui è certo che io ho sempre qualcosa che debbo dare alla persona che incontro e questa ha sempre qualcosa da dare a me. Se uno vive quindi un po’ il rapporto con le persone che incontra, ha sempre qualcosa da ricevere, chiunque sia la creatura che incontra.

Partendo da questa osservazione, m’è parso di dover aggiungere che non tutti gli incontri producono lo stesso effetto; ci sono degli incontri fuggevoli, rapidi, anonimi che possono offrire poco, ma altri possono diventare proprio una fonte di arricchimento umano.

Un paio di settimane fa, a metà pomeriggio, mi sono recato all'”Angelo” per il secondo rifornimento settimanale all’espositore posto accanto alla cappella del piano rialzato, per rifornirla de “L’incontro” e delle altre pubblicazioni che portiamo in ospedale come proposta religiosa ai degenti che hanno molto tempo per riflettere. Come sempre la splendida hall dell’Angelo era tutta verde, deserta e silenziosa, caratteristica questa del nostro ospedale, splendida da un verso, ma preoccupante dall’altro perché è chiaro che la struttura diventa importante non per l’estetica ma per la funzionalità e l’efficienza.

M’ero appena inginocchiato per riempire i colti più bassi, quando una giovane signora, forse incuriosita nel vedere questo vecchio prete armeggiare con tanti giornali, s’accostò per prendere una copia de “L’incontro”, appena sfornato. Fu questa l’occasione per un breve ed amichevole dialogo. Era essa una giovane donna in evidente attesa. Fui subito colpito dalla sua compostezza, dal viso pulito e dolce, dalla voce calda e confidenziale. Appresi che aspettava il terzo bambino e che abitava nell’interland di Mestre.

Mentre scambiavamo qualche impressione sulla stampa con cui rifornivo l’espositore, ci raggiunse il suo sposo, un giovane oncologo dell’ospedale: una bella figura d’uomo, un aspetto estremamente giovanile e composto, una pacatezza nella voce e nel pensiero.

Dialogammo qualche minuto sui problemi della sua e della mia professione e ci lasciammo con la sensazione di vivere sulla stessa lunghezza d’onda di una visione ordinata e positiva della vita.

Credo che se avessi letto un trattato sulla sacralità della maternità, sulla bellezza della famiglia e sulla serietà della missione che ognuno svolge, non ne avrei ricavato un’impressione più vera e più profonda. Per parecchi giorni e pure ora mi par di avvertire ancora il profumo proprio della gente buona e vera.

Confido nella provvidenza… per l’assistenza notturna agli anziani

Con il progetto degli alloggi protetti facciamo passetti da formica e andiamo avanti come le lumache nel dialogo con il Comune per mettere a fuoco un progetto pilota che permetta agli anziani in perdita di autonomia di rimanere più a lungo possibile nel nostro “Centro” e così vivere una vita dignitosa e possibile anche per chi ha pensioni minime.

Abbiamo ribadito più volte che il Comune attualmente spende un euro e venti centesimi per ognuno dei trecento e più anziani che vivono nei duecentocinquanta alloggi che il “don Vecchi” mette a disposizione. Un po’ pochino, no?

Abbiamo presentato un progetto di una struttura pensata per chi è in veloce perdita di autonomia, ma quella della struttura rappresenta solamente una componente per una soluzione, l’altra componente è rappresentata dal personale di servizio da mettere a disposizione per chi ha pensioni irrisorie e al “don Vecchi” la stragrande maggioranza non arriva ai settecento-ottocento euro mensili.

Chi ha soldi, e al “don Vecchi” è una minoranza assoluta, si prende la badante, ma il problema rimane scottante per chi non ha, e la Fondazione, per scelta, accoglie le richieste di alloggi dando l’assoluta preferenza ai meno abbienti.

Ora stiamo trattando per l’assistenza notturna, perché non è purtroppo raro che qualche anziano sia trovato solamente nella tarda mattinata per terra a causa di uno scivolone o di qualche malore. Il problema è grave perché per avere due persone per notte a vigilare su duecentocinquanta alloggi, serve l’assunzione di sei soggetti, date le ferie, i permessi, le festività e mille altre voci, favorevoli per chi lavora, ma costose in assoluto per chi deve tirar fuori i soldi.

Solamente per uno “straccio” di assistenza notturna serve un contributo di centocinquantamila euro! Con l’aria di crisi che tira, temo che ci vorrà mezzo miracolo, ma penso che non sarebbe sprecato perché aprirebbe la strada ad una soluzione veramente provvidenziale per gli anziani con scarsa autonomia.

Ancora su Marchionne e il mercato di oggi

Ho sentito Marchionne della Fiat e finalmente m’è parso di aver ascoltato un parlare onesto e concreto fra le mille chiacchiere dei nostri politici e la demagogia esaltata di molti sindacalisti.

M’è parso però che Marchionne abbia, con la sua voce da basso, camminato sopra una covata di uova quanto mai fragili, finendo per fare una frittata, rompendo tutti i gusci dell’ipocrisia dell’intera dirigenza della nazione e riducendo ad una poltiglia abbastanza ributtante un mondo sussiegoso, ricco quanto mai di sicumera inconcludente. La reazione del ministro, dei politici e di certi sindacalisti m’è parsa semplicemente pietosa.

Da sempre ho sognato e pregato perché le imprese e soprattutto le multinazionali rendano compartecipi degli utili i dipendenti delle attività industriali e commerciali che producono ricchezza. Il nostro Patriarca, che ha di certo una parola immensamente più autorevole della mia, ha recentemente auspicato questa compartecipazione agli utili. Ciò sarebbe sacrosanto e giusto perché il lavoro è una componente umana di capitale importanza nella produzione del profitto e nel contempo disinnescherebbe tanti motivi di conflittualità e renderebbe più serena la vita sociale.

Purtroppo la classe imprenditoriale del nostro Paese è stata sempre di corte vedute e gli operai, in verità, hanno ottenuto, o debbono ottenere, quel poco che ricevono, sempre con il sacrificio e la lotta esasperata, mentre i dividendi finiscono nelle tasche di persone egoiste e dissennate. Detto questo però, è doveroso prendere coscienza che in una economia ormai globalizzata vende e guadagna solamente chi produce di più e meglio e i sindacati e i politici possono dire quello che vogliono, ma i mercati non compreranno mai i nostri prodotti più costosi solamente perché noi siamo i più belli!

Oggi ci dobbiamo fatalmente confrontare con i tedeschi, gli americani, gli inglesi, i francesi, ma anche con gli indiani e i cinesi! La nostra classe dirigente non può continuare a barare!

E’ sacrosanto difendere i diritti dei lavoratori, ma è altrettanto doveroso tener conto del mercato e soprattutto che non tutti i lavoratori italiani sono seri, responsabili, attenti più al bene dell’azienda che a quello di chi spesso vive sulle sue spalle, contraccambiandoli solamente con fumose illusioni.

Io non conosco la sensibilità sociale di Marchionne, ma mi par di aver capito che se le cose non cambiano potremmo andare ancora peggio e questo credo che non sia un discorso disonesto, anzi!

Il dono di annunciare l’abbraccio paterno di Dio

Questa mattina, ho celebrato il commiato per un fratello che le onde di un mare misterioso hanno abbandonato sulla banchigia della mia cara chiesetta di legno tra i cipressi del nostro camposanto.

Avevo telefonato ad un congiunto per conoscere il “volto” di questa persona a cui avrei dovuto dare l’addio e consegnare alla paternità del Signore. Capii ben presto che uomo fosse stato il defunto dalle poche battute discrete e parche, ma più che sufficienti, per un vecchio prete come me, che da quasi sessant’anni non ha fatto altro che sentire storie di uomini e spesso raccogliere i rifiuti che le onde di un mare tempestoso abbandonano, come rami secchi, nel cuore di Madre Chiesa.

Una vita irrequieta, il fallimento di un amore nella stagione dei sogni, l’abbandono del figlio che non ha voluto riconciliarsi col padre neppure dopo la morte, un mestiere vagabondo ed una conclusione solitaria in un letto d’ospedale della periferia. Quello di stamattina è stato per me uno dei quei tanti funerali senza lacrime, senza amici e senza troppi rimpianti, tanto che i parenti avevano deciso di darne notizia ad esequie già avvenute. La parabola del prodigo, di quel ragazzo di duemila anni fa, che ha voluto far di testa sua, incantato dal luccichio suadente dei “fiori del male”, ma soprattutto del suo ritorno a quel gran Padre che aveva abbandonato, mi ha aiutato una volta ancora.

Ho invitato i presenti alla riconciliazione, che con un abbraccio caldo e coraggioso mettesse una pietra tombale sul passato, ma soprattutto a pensare non alla partenza triste e solitaria, ma all’arrivo, quando questa povera creatura avrebbe sentito il profumo della calda paternità di Dio, del suo pronto perdono, ma soprattutto di quelle dolcissime parole:
«Figlio, entra e facciamo festa, perché eri morto ed ora sei risorto».

Se un prete non avesse altra consolazione nella sua vita che poter dire queste parole, già la sua scelta e la sua esistenza avrebbero un senso e una ricompensa!

A me capita frequentemente di poter consegnare al Padre celeste “scarti di uomo” ed avvertire che Dio, con il suo abbraccio paterno, li riveste di luce. Ciò fa tanto bene a me, ma credo anche a chi partecipa al commiato.

Previsioni e segni

Oggi nel Vangelo c’era un qualcosa da bollettino meteorologico, così tanto presente nella nostra vita. Le previsioni del tempo sono diventate un precetto che tutte le radio, le televisioni e i giornali praticano con scrupolo degno di miglior causa.

Qualche giorno fa ho appreso da un mio nuovo amico che lui, pagando ben s’intende un canone mensile, viene a sapere se alla Bissuola capiterà un piovasco a mezzogiorno, mentre alla Cipressina il cielo sarà solamente coperto.

Il messaggio degli esperti di meteorologia è così universalmente ascoltato che, se dicono che il termometro scenderà di alcuni gradi, la gente si vestirà da eschimese o se ne starà rintanata in casa anche se poi fuori splende il sole!

Due o tre domeniche fa le previsioni furono così pessimistiche che perfino i fedeli disertarono la chiesa, mentre quando ci fu la neve o l’alluvione, non previsti, la gente è venuta tranquillamente a messa alla domenica.

La pagina del Vangelo di oggi conteneva un garbato rimprovero perché nel nostro tempo si prevede il mutare del tempo, ma non si riesce, o meglio non ci si impegna a comprendere “i segni dei tempi” e perciò non si comprendono i relativi messaggi per un buon vivere.

Ho riflettuto a voce alta con i miei pochi fedeli che devotamente ascoltavano la “Parola di Dio”. Mi lasciai andare ad un discorso un po’ ampolloso sui “grandi segni” che solcano il cielo del nostro tempo: le migrazioni dei popoli, l’incombere della vecchiaia e la scomparsa dei bambini, la miseria del sud del mondo e lo sperpero del nord, l’emergere delle economie e delle industrie asiatiche, il meticciato, la caduta delle ideologie, la fame e lo sperpero!

Poi compresi che le mie vecchiette pareva che rimanessero schiacciate da queste burrasche incombenti e virai sul microcosmo, invitando i fedeli a comprendere i piccoli segni del quotidiano: dallo sbocciare dei crisantemi, inno alla vita durante il mese in cui la gente pensa ai morti, alle foglie che cadono per l’inoltrarsi dell’autunno, che suggeriscono che la bellezza passa velocemente e che nei tempi difficili bisogna rinchiudersi per difendere l’essenziale e cose del genere.

E’ certamente importante prevedere ciò che i grossi nuvolosi possano farci presagire per prendere i provvedimenti opportuni, ma è pure importante leggere con un po’ di poesia e di buon gusto i batuffoli di nuvole bianche che compaiono nel cielo di ogni giorno per cogliere la bellezza e l’incanto del Creato e la splendida fantasia del buon Dio.

Perché no?

Io sono nato durante il periodo fascista e quando frequentavo le elementari scrivevo, accanto alla data, l’anno del regime fascista.

Da bambino ho fatto la guardia al monumento ai caduti della Grande Guerra che sta al centro del mio paese natìo. Fui felice ed orgoglioso quando mi regalarono una camicetta nera ed un paio di calzoncini corti color grigioverde per partecipare ad un concorso provinciale che si svolse a Venezia sul tema “L’aratro traccia il solco, ma è la spada che lo difende”.

Ricordo ancora che in quell’occasione scrissi anche una frase che avevo appena imparata: “Se il nemico valicherà i sacri confini d’Italia, noi gli spezzeremo i reni!”

In quei tempi non esisteva la “nazione”, ma la “patria”! In quei tempi il tricolore e le glorie di “Balilla”, poi di Pietro Micca, di Cesare Battisti e di tutta quella numerosa galleria di personaggi che il Duce mise in bella mostra nei testi di storia patria, fungevano da “santi patroni”.

Io provengo da questa educazione e non ho mai rinnegato l’amore alla nostra terra, alla nostra cultura e al mondo passato. Da assistente degli scout ho partecipato sull’attenti all’alzabandiera, salutando il tricolore che saliva sul pennone. Però sulla mia coscienza ci sono stati poi degli apporti che hanno annullato ciò che non c’era di buono in questo passato, anzi hanno sublimato solamente ciò che vi era di positivo.

Visitando un tempo l’Alto Adige con i miei anziani, ho scoperto che per i sud tirolesi la lingua, l’arte, la tradizione, lo stile, la patria erano l’Austria, e la loro gloria era “Cecco Beppe” e mi sono domandato perché non li lasciamo vivere con la loro storia e la loro nazione mantenendo con loro rapporti fraterni di collaborazione.

Partendo da questi presupposti, in questi giorni, pensando ai disordini per la discarica per i rifiuti napoletani, mi sono chiesto di nuovo: «Ma perché non dobbiamo permettere che Napoli e tutto il resto di quella parte del nostro Paese, non li lasciamo vivere in pace con i loro rifiuti, la loro mafia e, se proprio rivogliono il Regno delle due Sicilie, non li lasciamo ad un “Franceschiello” di turno?»

Per scrupolo di coscienza ho esaminato i dieci comandamenti e vi confesso che non ne ho trovato nemmeno uno da cui si possa dedurre che il buon Dio voglia che viviamo con gente che ha una mentalità tanto diversa dalla nostra e per noi incomprensibile! Io non auspico guerre di sorta, né ostilità, ma solamente rivendico per il nord e per il sud di vivere come piace a ciascuno!

Quella massima che devo ricordare!

Qualche settimana fa ho ricevuto la notizia che un nostro coinquilino ultranovantenne è morto in una struttura per anziani non autosufficienti al Lido di Venezia. L’annuncio di una morte è sempre una brutta notizia, ma quella del vecchio Toni è stata per me ancora più brutta.

I coniugi Fornasier sono vissuti al “don Vecchi” una decina d’anni fa. Non so a che titolo siano entrati, perché lui era stato un bravissimo capomastro e godeva di una pensione discreta, specie se confrontata a quelle magrissime dei residenti al “don Vecchi”. I primi anni trascorsero quanto mai sereni; credo senza vanto di sorta, che la soluzione di vita offerta al “don Vecchi” sia quella più auspicabile e confortevole per gli anziani: autonomia assoluta, supporto sociale ed organizzativo, struttura accogliente che tiene conto del bisogno di vivere in un clima quasi paesano, senza responsabilità dirette, in un ambiente strutturato con molti spazi comuni per facilitare le relazioni umane e supportare la fragilità dell’anziano.

Passati i primi anni, insorsero però gravi acciacchi per la moglie, tanto che dovette essere ricoverata in una struttura per non autosufficienti ove, dopo poco tempo, è morta. Toni rimase solo, e ben presto s’accorse che pure il litigare con la moglie aiuta a vivere! La mente del nostro ospite cominciò ad annebbiarsi e poi a smarrirsi, tanto che neanche l’ausilio della badante riusciva a fargli vivere una vita passabile.

Noi della direzione, prima suggerimmo il ricovero in una casa di riposo e poi ci parve di doverlo imporre, perché la situazione diveniva di giorno in giorno non più sostenibile. Con immensa fatica il figlio trovò il posto al Lido, località quanto mai scomoda per i famigliari. Pur avendo una forte fibra, dopo pochissime settimane il nostro amico ci lasciò per sempre. Se avessimo pazientato ancora un po’, sarebbe morto nel luogo dove visse stagioni serene della sua vecchiaia.

Questa partenza mi ha posto, ancora una volta, il problema del dovermi fidare di Dio e della sua Provvidenza.

Ricordo, ma devo averla sempre più presente, una massima di Gandhi: “La carità risolve ogni problema, ma quando a noi pare che non lo risolva, non è che l’amore diventi impotente, ma che il nostro amore non è autentico!”

Maria e Giuseppe quest’anno bussano alle case di Mestre

Quest’anno ho vissuto la letizia e il dramma del Natale di Cristo con un paio di mesi di anticipo sulla data del 25 dicembre, fissata dalla tradizione. Un comune amico mi chiese di ascoltare un cristiano del Congo che da dieci anni vive a Mestre e lavora a Padova.

L’ho incontrato al “don Vecchi” nel tardo pomeriggio quando la vita sociale, nella grande hall del Centro, si spegne perché i residenti si ritirano nei loro appartamenti per la cena che gli anziani consumano assai di buonora.

Il giovane congolese portò con sé la sua bimba di tre anni, una bimba bellissima, due occhi luminosi, un volto armonioso color ebano, capelli crespi e più neri ancora, un fare da donnina, pudica, riservata, innocente.

Questo signore mi parlò della sua condizione angosciosa, per non dire tragica, perché la moglie aspetta a giorni un secondo figlio; aveva ottenuto una stanza dalla parrocchia per un mese finché non avesse trovato un alloggio. Aveva bussato a tantissime porte ottenendo un diniego dopo l’altro, mentre il mese stava per scadere e il nuovo bimbo per arrivare. Mentre mi parlava alle sue parole si sovrapponevano nel mio animo le rime della nota filastrocca del brano che noi vecchi abbiamo imparato a scuola e, il bussare inutile a tutte le porte di Maria e Giuseppe mentre il campanile suonava inesorabile il susseguirsi delle ore.

Non ricordo il nome delle locande alle quali il povero Giuseppe, sempre più angosciato, chiese alloggio, mentre s’avvicinava quello che doveva essere il lieto evento.

Quello poi che mi colpì di più fu la fede linda ed assoluta di quel cristiano in nero: «So di certo che il Padre ci vuol bene e mi aiuterà!»

Per tutta la notte m’è parso di sentire i lugubri rintocchi che si sperdevano inutilmente per l’aria, sopra una città diffidente e preconcetta. Quanto avrei desiderato che il bimbo nero nascesse in uno dei 250 alloggi del “don Vecchi”, però i regolamenti, le convenienze si opponevano. Quanto non ho desiderato avere il cuore grande di don Benzi, di don Gelmini o di don Mazzi che credo abbiano il coraggio di non subire regole o Consigli di Amministrazione quando si tratta dell’uomo povero e derelitto che soffre ed attende!

All’alba di una notte insonne mi sono attaccato al telefono, avendo intravisto di lontano una pallida speranza. Poggiandomi su questa speranza sogno che quest’anno il Gesù nero, di questi fratelli che vengono da lontano, possa nascere in una casa ospitale.

Un dialogo difficile

Una concittadina del rione don Sturzo ha telefonato al “don Vecchi” per denunciare che un extracomunitario aveva buttato via i tortellini che gli erano stati appena donati e poi aveva finito per rompere un vetro della pensilina dell’autobus che era già stato sfondato da chissà chi!

Non avendomi trovato, mi ha ritelefonato il giorno dopo per ripetermi, con dovizie di particolari, il misfatto a cui aveva assistito. La voce era abbastanza calma e gentile, ma il rifiuto verso questa gente irriconoscente, incivile e maleducata era quanto mai fermo e deciso.

Io ebbi un bel dirle che fra centinaia di persone che vengono ogni giorno al “don Vecchi” si trova certamente anche la persona poco corretta, che la povertà non è sinonimo di “santità”, che i paesi di provenienza, le consuetudini, la vita emarginata a cui sono costretti a vivere non li aiutano ad assumere i migliori comportamenti del paese che li ospita, ammesso e non concesso che da noi non ci siano mascalzoni di ogni specie: drogati, bulli, sfaticati ed imbroglioni.

Non riuscii però a far minimamente breccia nella sua esecrazione, cortese a parole, ma tagliente nella sostanza. Ingranai quindi la seconda marcia, dicendole che l’integrazione è un problema che riguarda tutti, che i poveri nel mondo sono prodotti soprattutto da noi occidentali, che noi cristiani abbiamo un dovere particolare nel comprendere, aiutare e perdonare.

M’accorsi però che non incidevo niente di niente, perché probabilmente in una certa fascia del nostro quartiere s’è formata la mentalità che non siamo la periferia ma “i Parioli” della città, per cui i poveri, i diseredati, gli stranieri, sono come la spazzatura del meridione, che non deve notarsi per le nostre strade.

Ci siamo lasciati civilmente, lei però è rimasta nelle sue posizioni ed io pure!

Fanghiglia e disperazione!

Il piccolo mondo in cui vivo non posso definirlo un Paradiso terrestre, né il Paese del Bengodi o la Terra promessa, perché anche dalle nostre parti ci sono beghe, arrivismi, gente disimpegnata, critiche e pettegolezzi, ma tutto sommato si tratta di “peccati veniali”. Va bene che, vecchi come siamo, anche se volessimo fare bagordi non ne avremmo la possibilità, ma comunque la vita scorre tranquilla, perfino troppo.

Al “don Vecchi” trionfano indisturbati il riposo, il sonno e il dolce far niente. Quando però, di buon mattino, apro il giornale, ho l’impressione che una marea di fanghiglia entri in ogni fessura dell’anima e soltanto i titoli o fanno rabbrividire o, peggio ancora, stomacare. Delitti, ruberie, imbrogli di ogni genere, corruzione, immoralità a tutti i livelli della società, ma soprattutto nelle classi più alte, tra i politici, gli operatori finanziari, l’amministrazione pubblica, la magistratura, gli industriali e tutti con le relative corporazioni.

Qualche giorno fa ho incontrato una persona che conoscevo e che si ritiene “informatore sui fatti”, che me ne ha raccontate di ogni sorta di imbrogli e di immoralità. Il peggio poi, e quello che mi ha turbato di più, è stato che con grande sicumera mi ha parlato delle malefatte di “Comunione e Liberazione”, dell'”Opus Dei”, dello Ior, di cardinali di grande prestigio.

Credo che la bomba atomica o quella all’idrogeno non potrebbero creare nel mio animo una maggiore devastazione di questi discorsi. Spero che queste affermazioni siano solamente esagerazioni esasperate dalla passione politica ma, fossero anche vere, io ho deciso di stare dalla parte degli ultimi e di spendermi giorno per giorno e situazione per situazione, per aiutare chi sta peggio. Spero che questo mi salvi dalla disperazione sociale.

Don Gianni Fazzini, simbolo di un’utopia irrinunciabile

La nostra diocesi ha incaricato don Gianni Fazzini a promuovere la cultura della sobrietà, del risparmio, ma soprattutto del rifiuto dello sperpero, del consumismo esasperato e del recupero della sovrapproduzione. Il prete scelto per questo compito penso, per quanto mi è dato di conoscere, che sia la persona più adatta a promuovere questa autentica ed “impossibile” rivoluzione comportamentale.

Don Gianni, che non è più un adolescente, ho la sensazione che abbia raggiunto la pensione come prete operaio lavavetri, mi è parso che in tutte le sue imprese pastorali sia stato e sia ancora un gran sognatore, impegnato in missioni quanto mai difficili, anzi umanamente impossibili.

Guai a noi però se non ci fossero questi sognatori che perseguono con entusiasmo e generosità queste utopie! Il mondo senza gente del genere, sarebbe quanto mai statico, egoista ed indifferente ad ogni miglioramento nello stile di vita.

Mi rendo conto però che egli sia una voce nel deserto; predicare la sobrietà nei comportamenti quotidiani, quando la macchina poderosa dell’economia “costringe”, con un martellamento incessante, a consumare e convince l’opinione pubblica ad avere dei bisogni impellenti ed assoluti, quando in realtà sono assolutamente fasulli e nocivi sia per l’individuo che per la collettività.

Mi rendo conto che il confronto, tra questa voce “profetica” e il Golia tronfio e possente, può incorniciarsi solamente nel quadro dell’utopia, però sono egualmente convinto che è una fortuna per la Chiesa e la società, avere dentro di sé questo sognatore. Non sono molti nella Chiesa questi “preti folli”, ma ringrazio Dio che almeno ce ne sia qualcuno in ogni settore della vita pastorale anche se, per i più, essi sono solamente degli illusi.

La bella Fede dei cristiani d’oltreoceano

Più volte ho confessato che di buon mattino faccio un po’ di “meditazione” su un opuscolo edito dalla Chiesa metodista che fa parte dell’infinito arcipelago del mondo protestante.

Le mie cognizioni di teologia e di storia della Chiesa sono piuttosto limitate, perché il mio ministero l’ho svolto sempre a livello di manovalenza e perciò sono sempre stato un po’ lontano dall’intellettualismo teologico, motivo per cui mi domando spesso che cosa mi separa da questi fratelli che, con la ribellione di Martin Lutero, hanno rotto la totale comunione con la Chiesa cattolica.

Dalla lettura dei commenti alla Scrittura non avverto divergenze di sorta dal Credo che recito ogni mattina. Forse solamente pochi “eletti” – fuori dai percorsi della vita normale e della fede – conoscono i reconditi misteri di questa “separazione”.

Uso l’opuscolo per meditare perché dei cristiani di questa confessione religiosa senza titoli e senza pretese confessano con semplicità ed immediatezza, come si sforzino di tradurre nella vita concreta il messaggio di Dio che emerge dalla Bibbia, che credo conoscano meglio di noi cattolici.

Quello che però mi incanta è la fiducia assoluta con cui si accostano al testo sacro e l’interpretino in maniera letterale e si lascino condurre dalla “Parola di Dio” senza esegesi complicate e senza tentativi di coniugare suddetto pensiero con la cultura dominante, ora così razionalista e scettica verso tutto il discorso religioso.

Ho l’impressione che i cristiani d’oltreoceano siano più candidi, più fiduciosi in Dio, più disponibili alle verità rivelate, quasi che la loro fede abbia i connotati della freschezza dei bambini.

Gli atei come fanno?

Recentemente ho pubblicato una lunga lettera apparsa su “Gente veneta”, il periodico della nostra diocesi, scritto in cui un certo signor Luciano Verdone, persona certamente aperta alla filosofia, dimostrava che “negare Dio è una novità più grossolana che mai”, opponendosi, con rigore razionale, alla tesi di uno sparutello gruppo di atei militanti che vorrebbero far credere che il credo rappresenta “un pensiero debole ed un’idea malata”.

Era dai tempi del liceo e dei primi anni dei miei studi di filosofia e teologia che non affrontavo tematiche di questo genere e non risentivo le logiche stringate e rigorose di Aristotele e di san Tommaso, ma dopo una prima lettura frettolosa, mi sono presto ritrovato come chi è costretto ad ascoltare e parlare una lingua da tanto tempo trascurata. Da decine di anni mi sono sempre occupato della qualità del credere e dell’inverare nella vita concreta le verità su Dio; soltanto ultimamente mi è capitato di riflettere sulle posizioni, per me preconcette, di un certo ateismo militante e sulle posizioni di comodo di chi si crede ateo, pur non supportato da alcun ragionamento.

Ora, il manifestarsi di questo rigurgito ateista, mi ha risvegliato da un lungo torpore, portandomi a constatare che a livello personale mi trovo nella posizione di un famoso entomologo, Faber, il quale affermava: «Io non credo, perché vedo il volto di Dio nella natura e nel Creato!»

Qualche tempo fa, camminando lungo il sentiero lastricato che gira attorno al “don Vecchi”, vicino al quale ho piantato i ceppi di crisantemi di tutte le specie che la gente butta via dalle tombe quando sono sfioriti dopo novembre, e vedendoli tutti pronti a sbocciare a ottobre inoltrato, mi sono detto: “come fanno il giornalista Augias e il medico Veronesi a spiegare che tutti questi fiori, così diversi, si presentano all’appuntamento della fioritura come fossero svegliati da un lungo letargo invernale con uno squillo di tromba?”