Il nono anniversario deila fondazione dei Magazzini San Martino, momento speciale

Quest’anno abbiamo celebrato con particolare solennità il nono anniversario della “fondazione dei magazzini” San Martino.

I magazzini del “don Vecchi”, gestiti dall’associazione di volontariato “Vestire gli ignudi”, sono una realtà che ormai si impone all’attenzione, non solamente del nostro efficiente e ricco Nordest ma, senza presunzione, a livello nazionale per la quantità di merce “lavorata”, per numero di “addetti ai lavori”, per la “filosofia” su cui si reggono e per la loro efficienza.

L’idea di un emporio di vestiti per i poveri è certamente vecchia di quarant’anni, quando con la San Vincenzo abbiamo aperto “l’armadio del povero” nella baracchetta che si affacciava alla corte della canonica di San Lorenzo. Venne poi sviluppata a Ca’ Letizia con un magazzinetto di una ottantina di metri quadrati, ma si sviluppò infine, in maniera sorprendente, nell’interrato del “don Vecchi”.

L’incontro tra questa intuizione e la professionalità di un funzionario in pensione dell’Oviesse di Coin, il signor Danilo Bagaggia, ha determinato la scintilla e ha fatto sbocciare “il miracolo”.

Quasi 600 metri di esposizione, un magazzino di stoccaggio di 500 metri a Mogliano, 110 operatori volontari, trentamila “clienti” all’anno, cassonetti di raccolta in città, ma soprattutto la dottrina “Anche i poveri debbono essere solidali con i più poveri”, motivo per cui niente viene regalato in beneficenza, ma ognuno dà un contributo, seppur minimo, per realizzare strutture di carattere sociale.

Venerdì 12 novembre, su desiderio del direttore generale, signor Bagaggia, abbiamo invitato a visitare i magazzini e poi, a cena, il dottor Vittorio Coin e due suoi collaboratori, perché il gruppo Coin è il maggiore fornitore, a titolo gratuito, della “merce nuova”. Alla cena c’era tutto il Consiglio di Amministrazione al completo, dalla presidente suor Teresa Del Buffa, ai consiglieri Bragaggia, don Trevisiol, la signora Navarra e il signor Bembo.

Al dottor Coin è stato donato, in segno di riconoscenza, un’antica icona e gli è stato richiesto di accettare di essere il testimonial di questa grande impresa umanitaria. Ai volontari poi, una crocetta d’argento.

Debbo annotare che l’incontro è stato il segno di un autentico “miracolo sociale”.

Credenti

Qualche tempo fa una signora, amante della filosofia, mi fece qualche osservazione in merito alla mia presentazione assai positiva di un lettore di “Gente Veneta” che, in una sua lettera al giornale diocesano, appoggiandosi alle prove dell’esistenza di Dio addotte da san Tommaso, affermava che credere è un atto razionale, mentre lo è molto meno – anzi non lo è – il non credere.

Io sono d’accordo con questo signore e sono pure convinto che la metafisica non sia roba vecchia da mettere in soffitta. Mentre mi trovo d’accordo con questa signora che la pura razionalità non produce fede. La razionalità nuda e cruda non giustifica nemmeno l’amore, la bellezza, la verità e così avviene pure per la fede. La fede è un dono misterioso e magnifico che il buon Dio concede sempre quando il cuore e la mente dell’uomo sono limpidi, umili e aperti al raggio di luce che viene dall’alto e che arriva attraverso i canali più disparati.

Ricordo una raccolta di una quarantina di testimonianze raccolte da un volontario della “pro civitate cristiana” di Assisi, in cui persone provenienti da esperienze le più diverse raccontano come sono approdate alla fede. C’è perfino lo scrittore Pittigrilli che afferma di esserci arrivato attraverso una strada assai insolita: lo spiritismo. Il credere è una luce interiore che s’accende, magari flebilmente e ad intermittenza, è un intuito che supera la pura logica razionale, ma che si rifà ad una sapienza sottile che viaggia su una lunghezza d’onda esistenziale e che appartiene alla natura profonda della coscienza umana.

Qualche settimana fa, parlando, nel mio sermone domenicale, della resurrezione e della vita nuova affermata da Cristo, mi sono rifatto ad un film che racconta l’avventura di Cristoforo Colombo. Mi pare di vederlo ancora, appoggiato alla paratia della sua fragile caravella, sballottata tra le onde dell’oceano infinito, mentre scruta l’orizzonte sempre irraggiungibile; egli è solo, incompreso, con poche motivazioni razionali e sente che ci deve essere “un’altra sponda” e che, sfidando l’irrisione, prima degli uomini della cultura e, poi, la diffidenza e quindi la disperazione della sua ciurma, crede, contro ogni speranza, “all’esistenza delle Indie”.

Il credente è colui che usa sì della ragione, ma fa leva soprattutto sulla sua percezione profonda che gli suggerisce che la vita ha senso, ha un approdo e fiorisce dopo quella che gli atei chiamano “fine” e i credenti “principio”.

Qesta nostra società semina e abbandona sempre piò “rifiuti d’uomo”!

In due giorni ho celebrato tre funerali di concittadini senza fissa dimora. Devo ammettere che nella mia chiesa fra i cipressi giungono, più frequentemente che nelle altre parrocchie, le richieste di commiato per anziani quasi dimenticati nelle case di riposo, barboni, cittadini assolutamente non praticanti che i congiunti non si sentono di portare nella parrocchia ove sono conosciuti, persone sole, poco conosciute o da poco residenti a Mestre.

Può darsi che questa minoranza di commiati di persone che sono vissute ai margini della società sia assolutamente casuale, comunque ho la netta impressione che il numero di concittadini non inserito nella normalità del tessuto urbano sia decisamente numeroso e, peggio ancora, sia in crescita.

Come la città produce sempre più rifiuti urbani, tanto da diventare questo un grave problema, così ho l’impressione che siano in crescita anche i “rifiuti d’uomo”.

Ricordo una scena di un vecchio film, che tanti anni fa fece scalpore per il tema trattato, “Lo spretato”. Il prete, che aveva appeso la tonaca al chiodo, dopo aver passato una notte squallida in un locale notturno, esce all’alba e incontra un netturbino al lavoro: «Cosa fai?», gli chiede melanconicamente. «Raccolgo i rifiuti!» risponde quello. Ed egli, alludendo alla sua condizione disperata, aggiunge: «Non raccogli rifiuti di uomo?»

La nostra società, che presume d’esser civile, sta producendo, in maniera sempre più scellerata, “rifiuti d’uomo”. Io sto raccogliendo, spero con rispetto e amore, questi rifiuti che il mare anonimo, abbastanza disordinatamente, lascia sulla battigia, per consegnarli al cuore di Dio, essendo cosciente che il Padre del prodigo accetta a braccia aperte “il figlio” disperato e misero che ritorna. Spesso mi sento felice e fortunato di fare questo “mestiere”!

La Divina Provvidenza continua a sorprendermi

Non è passato neppure un giorno dall’episodio che mi ha riempito il cuore di rossore per aver dubitato della Divina Provvidenza, quando ho incontrato per strada una signora che io pensavo di non aver mai conosciuto, la quale, con un certo imbarazzo, mi disse: «Io sono quella della macchina!» Dapprima non capii, ma poi mi sovvenne che suor Teresa m’aveva confidato, con molto entusiasmo, che una signora le aveva detto d’aver comperato una di quelle automobiline, per guidare le quali non serve la patente, ma aveva capito che lei non era un tipo da andare in macchina e perciò, se non avesse trovato da venderla prima di Natale, l’avrebbe regalata a me perché organizzassi un’asta o un lotteria a favore del “don Vecchi” di Campalto, mettendo in palio la sua automobilina che mi avrebbe regalato.

Pian piano capii che la “signora della macchina” era appunto quella che mi fermava sul piazzale del cimitero. Lei soggiunse: «Ho trovato da vendere l’automobile che avevo deciso di non usare, ma siccome le promesse son promesse, e perciò vanno mantenute, le porterò quanto prima duemila euro delle quattromilacinquecento che ho preso dalla vendita!»

Ogni tanto qualcuno mi domanda, ma più spesso mi domando io stesso: «Dove ho trovato tutto quel sacco di miliardi che mi sono occorsi per costruire il “don Vecchi uno, due, tre ed ora quattro?» Poi soggiungo, quasi incredulo: «Li ho trovati così, per strada!» Però poi debbo correggermi, precisando doverosamente: «La Divina Provvidenza mi ha fatto trovare per strada, nei modi e nelle occasioni più inimmaginabili, tutti i denari che Ella ha deciso di investire a favore dei poveri vecchi di Mestre».

La Provvidenza non smette di rispondere ai miei dubbi!

Qualche tempo fa ho letto sulla rivista “Il seme”, periodico genovese che raccoglie riflessioni, episodi e testimonianze che appaiono in tutta la produzione letteraria del nostro Paese, un episodio riguardante un grande prete fiorentino, don Facibeni.

Questo sacerdote, che operò nella Toscana, specie durante la seconda metà del novecento, era impegnato in una grande opera sociale a favore dei più diseredati, ed avendo aperto una casa di accoglienza, gli serviva come sbocco un mulino dismesso che stava accanto alla sua struttura. Come sempre tocca a chi si occupa del prossimo, non aveva i soldi per l’acquisto.

Mediante la mediazione di un’anima buona, trovò due coppie di coniugi facoltosi che gli prestarono l’enorme somma, per quei tempi, di centomila lire, con l’impegno di restituire ogni sei mesi diecimila lire.

La prima data scadeva a dicembre e don Facibeni non aveva un soldo, sennonché, proprio l’ultimo giorno prima della scadenza, una signora gli donò le diecimila lire, che egli spedì immediatamente ai creditori. Costoro però, a stretto giro di posta, gli risposero che avevano deciso di concedersi il regalo di condonargli l’intero debito.

Letta la paginetta dell’episodio, che dimostrava, una volta ancora, quanto può la Divina Provvidenza, provai invidia verso il prete toscano sembrandomi che a lui le cose erano andate ben più lisce di quanto non capiti a me per il “don Vecchi” di Campalto.

Ma il giorno dopo la lettura di questo episodio, stavo smettendo le vesti liturgiche che avevo indossato per il funerale, quando uno dei fedeli venne nella piccola sagrestia e mi disse che aveva deciso di donarmi quindicimila euro per Campalto. «Non sono ricco, mi disse, ma posso permettermi questa partecipazione alla sua opera per i vecchi.»

Io non ho di certo la statura né la santità di don Facibeni, eppure la Provvidenza in un paio di anni mi ha fatto avere più di due milioni dei tre e mezzo che mi servono; spero perciò che non abbia difficoltà a fornirmi anche il resto. Di fronte alla promessa del benefattore mi è salita dal cuore alle labbra la confessione di Pietro: «Allontanati da me, Signore, perché sono un peccatore!»

Gli sconosciuti “Francesco d’Assisi” del terzo millennio

Qualche giorno fa un’assistente sociale del Comune mi ha telefonato chiedendomi se ero disposto a celebrare un “funerale di povertà”. Acconsentii immediatamente, essendo “il titolare” incontrastato di questo tipo di commiati religiosi.

Il “funerale di povertà”, come tutte le cose di questo mondo, ha due facciate. Una civile, che si caratterizza dal fatto che, dopo una procedura un po’ laboriosa e a certe condizioni ben precise, l’amministrazione comunale si assume l’onere di fornire gratuitamente la “cassa da morto” che attualmente, pur nella sua estrema sobrietà, è decorosa, a differenza di quella di un passato non molto lontano, e le altre spese connesse alla sepoltura. A livello religioso, si tratti di ricchi o di poveri, il funerale è identico per tutti e, almeno nella chiesa del cimitero, né per questo né per nessun altro funerale, si richiede tariffa di sorta.

Normalmente, in chiesa, il “funerale di povertà” si distingue invece dagli altri perché ci sono pochi partecipanti e talvolta tra i pochi c’è qualcuno con i segni ben marcati della devianza o dell’emarginazione.

In questo caso non è stato così. Una sorella ha aggiunto qualche spicciolo, l’impresa funebre un po’ di benevolenza, motivo per cui l’esteriore non manifestava alcuna differenza. Erano presenti alcuni famigliari, anche se chi “partiva” se n’era allontanato da decenni, un sacerdote della Caritas, un amico “barbone” – che s’era collocato all’ultimo posto come il pubblicano – un rappresentante della mensa di Betania ed uno del dormitorio di Betlemme.

Quello che mi colpì di più fu un giovanottone, alto e prestante, che mi disse che da cinque anni seguiva questo infelice. Ebbi modo di conoscere questo giovanotto, prossimo alla laurea in architettura, il quale mi confidò di vivere assieme ad altri quattro giovani che avevano fatto la scelta di vivere in comunità e di dedicare il tempo libero ai “barboni” che passano la notte alla stazione di Mestre o che vivacchiano in qualche modo ai margini della vita cittadina.

Da quello che ho capito tra le righe del discorso, la loro scelta s’appoggia su motivazioni d’ordine spirituale. Nel mio animo, d’istinto, associai questa esperienza a quella di Francesco d’Assisi, in versione terzo millennio.

La tenerezza, la comprensione, il rispetto con cui mi parlava dei poveri ai quali dedicava tutto il suo tempo libero, mi avvolse come una dolce folata di profumo di primavera.

Da giorni questa immagine bella ed umile di umanesimo cristiano mi accompagna e mi aiuta a sperare nella redenzione di questo nostro mondo che, ogni giorno di più, sembra perdere pace e dignità.

Sto pensando che questa piccola comunità giovanile, silenziosa e sconosciuta, pur nella sua esiguità, può controbilanciare l’enorme desolazione della società di oggi.

In “guerra” a ottantanni per gli anziani

Sono sempre più convinto che la rivoluzione che può salvare l’uomo dall’egoismo, da una vita fatua inconsistente e disordinata, sia quella della solidarietà. Sia a livello civile che religioso l’unico rimedio per uscire dal degrado morale in cui stiamo affondando, è per me la solidarietà.

In questa “guerra” io svolgo il ruolo di un povero fante, senza gradi e senza potere, però sento il dovere di fare la mia parte fino alla fine. Non so quanto la testimonianza di un vecchio prete, senza gradi e senza grandi risorse umane e spirituali, possa incidere sull’esito di questa “rivoluzione”, ma mi è ben chiaro che l’esser fedele alla mia coscienza e ai miei convincimenti è l’unica cosa che posso fare e che possa salvarmi dalla desolazione.

Il mio posto di combattimento è collocato sul versante della terza età; portare avanti l’idea che dobbiamo dar voce e soluzioni adeguate alle istanze di questi nuovi poveri.

La Provvidenza mi ha assegnato il presidio di un piccolo avamposto che voglio difendere ad ogni costo: dimostrare che è possibile permettere agli anziani, seppur poveri e fragili, vivere una vita dignitosa e serena, indipendente dalla elemosina dei figli o degli enti pubblici, nonostante le pensioni miserevoli delle quali moltissimi fruiscono.

Purtroppo la crisi economica in atto, le avversità atmosferiche, i tagli di bilancio e gli sperperi degli enti pubblici, mi rendono particolarmente difficile tenere la posizione. Nonostante ciò ho deciso di giocarmi tutto; non mi importa cosa possano pensare confratelli o concittadini, pur facendo fatica ed arrossendo, sto costringendomi a tender la mano e a mendicare i mezzi economici per realizzare l’impresa della costruzione di ulteriori 64 alloggi a Campalto. Non so ancora con quale risultato, mi pare e mi auguro che sia positivo, comunque spero che possa testimoniare che la solidarietà non può ridursi ad un sogno fumoso, ma è un qualcosa che va perseguìto anche se costa e ti toglie la possibilità di vivere una vecchiaia in pantofole, leggendo “Il Gazzettino”.

L’opera di Antonio Fogazzaro mi aiuta ancora a capire i tempi d’oggi

Verso Antonio Fogazzaro ho sempre nutrito un sentimento di ammirazione, sia per le sue qualità di ordine letterario, sia per le sue posizioni a livello religioso. “Piccolo mondo antico”, il romanzo più noto di Fogazzaro, è stato per me uno dei primi romanzi più impegnativi che ho letto ai tempi della mia adolescenza. Sono rimasto incantato dall’atmosfera romantica, sempre ovattata e ricca di sentimento che inquadra il travaglio tra la nostalgia di un passato amato e familiare, e l’oggi, ormai proiettato verso nuovi orizzonti. Questo romanzo mi ha fatto sognare e rimpiangere l’infanzia, però mi ha costretto a non chiudere gli occhi verso i tempi nuovi.

Più adulto ho avuto modo di conoscere pure le vicende amare di questo cattolico teso a leggere in maniera nuova e nella lunghezza d’onda della cultura del tempo, che sentiva i sintomi di una nuova primavera spirituale, e che pagò con la messa all’indice de “Il santo”, il romanzo che mette meglio a fuoco le sue tesi religiose. Il processo sognato dal Fogazzaro, nonostante il pesante intervento della gerarchia ecclesiastica del tempo, continuò a svilupparsi e in buona parte fu recepito dal Consiglio Ecumenico Vaticano Secondo.

In questi giorni, avvertendo il risucchio che il tipo di fede e di Chiesa, proprio della mia infanzia, esercita ancora nel mio spirito e l’istintiva diffidenza che, a livello inconscio, provo nei riguardi del nuovo modo di impostare i problemi religiosi e la pastorale dei tempi nuovi, m’è parso di capire che la generazione che sta chiudendo con la vita non può non rimpiangere il suo “piccolo mondo antico”.

Forse per questo faccio fatica ad accettare che i giovani preti diano per scontato l’allontanamento di una grande maggioranza dei battezzati, accettino passivamente lo sfascio della famiglia cristiana, non sognino che il numero dei cittadini del territorio geografico della parrocchia non coincida con quello dei “parrocchiani”, l’accettino abbastanza serenamente una pratica religiosa attorno al quindici per cento!

Poi comprendo che solamente chi è nato in tempi diversi provi nostalgia di un mondo religioso che non c’è più o va scomparendo, mentre chi è nato in questo tempo non conosce che questo e perciò crede il presente l’unico possibile. Tra le pene della vecchiaia c’è anche questa ed io purtroppo la sopporto di malavoglia e senza alcuna rassegnazione.

Pensando ai nuovi preti

Talvolta mi accorgo di essere duro, esigente e deluso dalle nuove generazioni di sacerdoti. Spesso ho la sensazione che siano dei rassegnati, degli uomini sempre in difesa o, peggio, in ritirata. Talora ho l’impressione che non abbiano né sogni, né coraggio per vivere all’attacco, ma che si accontentino del piccolo gregge, rinchiuso nello steccato all’ombra del campanile e per nulla preoccupati di scendere nella mischia ove si costruisce il domani e la storia.

Mi fa tristezza il pensiero di gente che possiede una verità che potrebbe illuminare la vita, dare profumo all’impegno, far sognare “nuove frontiere”, mentre si riduce a vivere un quotidiano stinto, insapore ed immeschinito da un valore basso e con orizzonti limitati.

Poi spesso mi dico che anche i preti sono figli del nostro tempo, caratterizzato dal pensiero debole, dalle verità smorte e da un nichilismo imperante e senza respiro, con pochi ideali e meno dimestichezza con la fatica e la lotta.

Forse noi vecchi preti, che siamo vissuti nella seconda metà del novecento, siamo stati più fortunati, da un punto di vista ideale, perché abbiamo avuto la fortuna di vivere “il risorgimento” del dopoguerra, sorretto da leaders di grande statura morale, abbiamo respirato a pieni polmoni l’aria profumata di primavera del Concilio Ecumenico che ha fatto fremere la Chiesa e la fede ed infine siamo pure stati investiti dall’uragano del ’68, che ha travolto ciò che era fittizio, ma ha aperto nuovi orizzonti alle coscienze a livello della giustizia, della solidarietà e della libertà.

Io non so che cosa augurare ai nuovi preti, spero però che non si rassegnino a vivere una vita mediocre e non si lascino condizionare dall’aria stanca ed asfittica della società attuale.

Ognissanti e Defunti, feste dal profondo significato

Quest’anno il tempo e il calendario sono stati veramente micidiali per la festa di Ognissanti e per la commemorazione dei defunti. La pioggia insistente e il cielo cupo da un lato e la sequenza del “sabato – domenica – lunedì” di festa hanno lusingato la gente a concedersi una “vacanza di medio termine”. Questo mi è dispiaciuto davvero perché ha sottratto ai miei concittadini due grandi opportunità.

La festa di Ognissanti aiuta a prendere coscienza del bene enorme che ancora esiste nel mondo. I mass-media mettono in luce ogni giorno in maniera ossessiva il peggio dell’uomo “il ramo che si schianta con tanto fracasso a terra”, mentre la liturgia di Ognissanti aiuta a scoprire la “foresta che cresce” silenziosamente, ma in maniera massiva e costante. Ognissanti aiuta a guardare con ottimismo il vivere dell’uomo anche del nostro tempo e a scoprire che a questo mondo vivono uomini e donne di ogni cultura e sotto ogni cielo, dalla vita sana, pulita e laboriosa.

Per questo motivo io celebro ogni anno l’Eucaristia della festa di tutti i santi con grande ebbrezza. Mi pare che, come dice il grande don Zeno di Nomadelfia, “gli angeli dalle trombe d’argento suonino a gran voce l’accolta dell’immensa moltitudine degli uomini di buona volontà” e con essi posso sognare, sperare e lodare il buon Dio per la vita che ci ha donato.

La festa poi di Ognissanti mi presenta una rassegna sconfinata di “campioni in umanità”, campioni di tutte le discipline della vita spirituale, che diventano punti di riferimento sicuri e stimoli a cercare, a crescere e a vincere, raggiungendo i traguardi che essi garantiscono possibili.

La commemorazione dei defunti non è per me una celebrazione meno feconda, perché da un lato ci aiuta a recuperare l’immenso patrimonio umano e spirituale che i nostri cari ci hanno lasciato, e dall’altro lato ci fa riflettere, una volta tanto in maniera positiva, a “nostra sora morte corporale” , come canta Francesco d’Assisi, facendoci pregustare l’ebbrezza della meta da raggiungere e la vita nuova e più bella promessa dal buon Dio.

Le verità di taluni

Ne “L’incontro” non c’è la rubrica “Lettere al direttore” che hanno quasi tutti i periodici. Questa rubrica è per me sempre interessante perché esprime gli umori dei lettori più reattivi.

“L’incontro”, molto probabilmente, ha un bacino di lettori molto tranquilli che condividono, in linea di massima, gli orientamenti del settimanale, o si tengono per sé le divergenze! Però almeno tre o quattro volte al mese mi giungono delle lettere con prese di posizione favorevoli e, talora, discordanti.

C’è una signora, dalla scrittura ordinata e di pensiero intelligente, che m’ha scritto più volte. Deve trattarsi di una cara donna, molto probabilmente di una insegnante di filosofia, che con affetto e con garbo mi fa qualche complimento, mi incoraggia, ma nel contempo mi fa qualche osservazione che io accetto di buon grado. Più volte ho affermato che nella Chiesa di Dio io ho svolto sempre la funzione di “manovale”, anche se “per obbedienza”.

Pur avendo per molti anni insegnato alle magistrali, al Pacinotti, al Volta e alle tecniche commerciali, sono ben cosciente di non aver alle spalle un buon apparato culturale e perciò so di essere vulnerabile e so che la mia “impresa giornalistica” è pressoché temeraria. Detto questo, spero però di poter pure dire con umiltà il mio pensiero, pur offrendolo in maniera dimessa.

La signora mi ha fatto due appunti. Il primo: il mio scarso entusiasmo per i filosofi. E’ vero! Talora mi sembrano piuttosto scontate certe verità, cardini del pensiero di certi filosofi. Ad esempio “Tutto scorre”, “Penso, quindi esisto”, “L’uomo è lupo per l’altro uomo”, oppure “L’uomo è una monade senza porte e senza finestre” …!
Ho la sensazione che certi detti dei nostri vecchi siano ben più sensati!

Secondo: Questa signora non comprende la mia “crociata” contro gli atei militanti. E’ pure vero! Sono indignato nei riguardi di taluni di questa categoria che s’impalcano come tanti “padreterno” e che minano “l’innocenza” dei semplici di cuore. Per me la scommessa di Pascal è più che mai valida: “A credere si guadagna sempre; se c’è Dio, il credente ha colpito nel segno; se non ci fosse, il credente sarebbe comunque sorretto nella sua vita dalla certezza di avere lassù uno che l’aspetta e che gli vuol bene. E questo non è poco! L’ateo umile e rispettoso, l’ateo in ricerca, ha però tutta la mia stima e il mio affetto. Quella che mi disturba è la sicumera e la presunzione che certi “atei militanti” pretendono d’avere in tasca tutta la verità.

Generosità e…

Le vicende della vita sono sempre per me varie e sorprendenti, ma credo che lo siano un po’ per tutti.

Qualche settimana fa, dopo avermi lungamente cercato, su e giù per i meandri del “don Vecchi”, mi ha finalmente scoperto nella hall un parroco di mezza età della nostra città.

La parrocchia di questo “collega” non è mai stata nota per navigare nell’oro, anzi; pure questo prete non è riconosciuto come molto abbiente. Io lo conosco da molti anni, il nostro rapporto è sempre stato corretto, ma mai particolarmente intimo, un po’ perché lui è riservato ed io ancora di più, e un po’ perché solamente per un po’ di tempo abbiamo “lavorato” assieme in una delle tante commissioni, pressoché inutili della diocesi; ma nulla più!

Comunque là nella hall, su due piedi, presso il “tavolo della cortesia”, mi consegnò un assegno di cinquemila euro. Rimasi di stucco, non mi capita di frequente che uno, senza averlo pregato, mi consegni dieci milioni delle vecchie lire e non m’è quasi mai capitato che l’abbia fatto un parroco!

Il contributo del confratello m’ha fatto più felice di quanto lo sarei stato se avessi vinto i centosettanta milioni dell’Enalotto!

Versai subito l’assegno al Banco San Marco per paura di perderlo, sennonché tre o quattro settimane dopo, la direttrice del Banco mi avvertì che la filiale di viale San Marco della Cassa di Risparmio aveva fatto una segnalazione alla Banca d’Italia, per motivi di antimafia, perché l’assegno superava di un centesimo quelli permessi senza la scrittura “non trasferibile”!

Persi la pazienza e la grazia di Dio, constatando che in questo povero mondo non ci sono solamente parroci generosi, ma anche bancari cretini.

I giorni della cerca

Non so proprio come i frati di una volta si comportassero quando ritornavano dalla cerca; suppongo che si presentassero dal padre abate deponendo, talvolta con gioia, il frutto del loro mendicare, quando esso era stato abbondante e con un po’ di delusione e tristezza, quando invece il loro bussare alla porte dei loro concittadini fosse stato con risultati deludenti.

Io sono in grado solamente di riferire al mio “Padre Celeste” che sta in alto, le mie prime esperienze. Dopo pochissimi giorni, dall’inizio del mio “questuare” per raccogliere il denaro per pagare il “don Vecchi” di Campalto, mi è venuta a trovare, nella mia “chiesa – baita tra i cipressi”, una vecchierella un po’ in malarnese con le lacrime agli occhi: «Don Armando, mi spiace tanto, ma non posso darle niente, non ce la faccio veramente con la mia pensione».

La sua era certamente una campanella da non suonare, comunque, avendo bussato alla sua porta per stendere la mano per i vecchi della città, la rassicurai: «Sono invece io in grado di aiutarla, fornendo viveri, vestiti o qualcos’altro se le serve per la sua casa!» E lei prontamente: «Ma, don Armando, mi dà già da mangiare; vengo infatti al banco degli alimentari del “don Vecchi”!» «Bene, continui, vedrà che non verrà mai meno la Provvidenza, né per lei, né per me!»
Se ne andò rasserenata.

Spero che il “Padre abate” sia rimasto comunque contento del mio primo giorno di cerca! Ma spero pure che dietro i campanelli delle venti famiglie che ho “visitato” ogni giorno, ci sia anche chi non ha bisogno, ma che invece possa dare “un pane per amor di Dio”.

La fine de “Il Coraggio”

Immagino che quando i famigliari vanno all’Agenzia delle pompe funebri per organizzare il funerale di un loro caro che viveva in casa di riposo da tempo, abbiano esattamente il volto e il fare del presidente della San Vincenzo di Mestre e della sua vicepresidente quando sono venuti al “don Vecchi” a dirmi che non erano più nelle condizioni di continuare a pubblicare “Coraggio” per la grave crisi finanziaria in cui versa la loro associazione benefica.

La storia di “Coraggio”, il periodico nato per dialogare con le strutture sanitarie, ospedali e case di riposo della città, e per portare conforto ai quasi tremila ricoverati in suddette strutture, è abbastanza tortuosa e tormentata.

Non ricordo quando ho dato il via a questa mia “impresa editoriale”, forse una ventina di anni fa, forse più. Era il tempo in cui facevo l’assistente della San Vincenzo di Mestre e l’associazione, ad imitazione di gruppi vicenziani di altre città del Veneto che avevano, presso i relativi ospedali e case di riposo, centinaia di volontari vicenziani, si ripropose d’aprire una nuova testata di ponte su questa realtà così affine ai “poveri” che la San Vincenzo ha sempre assistito.

L’inizio fu assai faticoso, sennonché, dopo un paio d’anni, ci fu una vera esplosione arrivando a contare più di 120 volontari. Il periodico “Coraggio” è nato come strumento operativo e di supporto all’attività esistenziale di questi volontari. Anche dopo la mia uscita dall’associazione, la stampa del periodico continuò, vivacchiando alla meglio, poi, per difficoltà redazionali, fu sospesa la pubblicazione.

Sembrandomi che la pastorale ospedaliera, per i motivi più diversi, fosse carente, mi offrii di far uscire il periodico, qualora la San Vincenzo avesse rimborsato, almeno in parte, le spese vive. Così siamo andati avanti per due anni, pubblicando 25 numeri con 1700 copie, con scadenza quindicinale.

In verità è stata un’avventura pressoché solitaria, che s’appoggiò solamente sulla mia profonda convinzione dell’opportunità di questo strumento di apostolato. Ho sempre avvertito l’indifferenza dell’équipe pastorale dell'”Angelo” e il quasi inesistente contributo di apporti da parte della San Vincenzo; essendo caduta nel vuoto pure l’offerta di collaborazione col nuovo cappellano dell’ospedale, ho avvertito che si era alla fine. Infatti i dirigenti della San Vincenzo sono venuti a denunciarmi il decesso.

Ho celebrato il funerale di “Coraggio” con mestizia e in solitudine, come per i molti funerali che celebro in cimitero di persone che son vissute ai margini della società, piuttosto sopportati che amati.

Credo che a rimpiangere il “caro estinto” non ci sia se non questo povero illuso che vive ormai in un tempo non più suo.

Nuove avventure con gli scout di ieri

Credo che non ci sia più alcuno dei miei amici e delle persone che mi conoscono mediante “L’incontro” che non sappia che questo vecchio prete ha fatto per quasi quarant’anni l’assistente degli scout. Ho cominciato ai Gesuati col reparto trentaduesimo, ed ho finito a Carpendo col gruppo secondo.

In verità, in questi ultimi cinque anni di vita da pensionato, gli scout li ho seguiti da lontano, interessandomi delle loro iniziative e soprattutto amareggiandomi che molti preti non si siano ancora accorti che lo scoutismo rappresenta ancora un valido strumento per accostare la gioventù e soprattutto per educare le nuove generazioni.

Da assistente della zona di Mestre, una trentina di anni fa, assieme ad un magnifico e numeroso gruppo di “capi”, abbiamo letteralmente “infestato” Mestre e dintorni. Non c’era quasi più parrocchia in cui non fossimo riusciti ad aprire qualche unità scout. Una volta arrivato a Carpendo ho continuato, pur fra notevoli difficoltà. Il ’68 infatti ha investito, seppur marginalmente, lo scoutismo. Mentre l’Azione Cattolica fu spazzata via, lo scoutismo resistette, pur tra notevoli tormentoni.

Sono stato e sono ancora felice di aver lasciato al mio successore ben duecento ragazzi di diverse età, inquadrati nei vari gruppi nei quali si sviluppa il movimento. Ai miei tempi si diceva: “semel scout, semper scout”, una volta preso il “bacillo” del movimento scout, questo permane, pur passando gli anni e i ragazzini di trenta quarant’anni fa sono rimasti scout pur non portando più il cappellone e i calzoncini corti.

Forte di questa verità e soprattutto certo che l’educazione al servizio non si può dimenticare facilmente, pian piano sono riuscito a recuperare più di una mezza dozzina di vecchi “ragazzi” che con l’entusiasmo di un tempo si sono buttati nella splendida avventura della stampa di tutta la produzione dell’editrice de “L’incontro”.

Il lunedì mattina, sotto la guida dell’ottantenne Nino Brunello, già commissario di zona, ora posso contare sui “ragazzi scout” che partecipano “al grande gioco” con l’entusiasmo, la vivacità e il cameratismo che avevano il secolo scorso, quando erano capi squadriglia, capi reparto o Akela!

Qualche giorno fa, scendendo in tipografia per l’ispezione settimanale, dissi loro: «Ragazzi, qui ci manca solamente l’alza bandiera e il canto “Passa la gioventù” perché il calendario torni a ritroso per far rivivere la bella avventura dello scoutismo!