A proposito del mio pensiero sugli zingari

La gente che legge volentieri “L’incontro” e ne condivide le idee, me lo comunica personalmente e fortunatamente per me e per la mia sensibilità, essa è numerosa. Mentre chi dissente dalle mie valutazioni, solitamente me lo scrive.

Io so di essere un uomo passionale, un combattente all’arma bianca, per difendere ciò in cui credo e per oppormi a ciò che ritengo nocivo ai valori che mi sono cari e ritengo importanti per me e per il mondo in cui vivo.

Non ho mai amato la diplomazia, le mezze misure, i silenzi di comodo per il quieto vivere, per non espormi o per essere preoccupato d’aver contro qualcuno o l’opinione corrente. Ho sempre ritenuto questo comportamento ignavo e meschino, pur sapendo che comportandomi diversamente posso scontentare qualcuno, crearmi grane, farmi dei nemici e sentirmi isolato e talvolta perfino emarginato. Però ho sempre pagato il conto della mia franchezza e della mia libertà di pensiero, non riuscendo a capire che chi la pensa diversamente non possa dire la sua, ben s’intende creandosi anche gli strumenti per passare le sue tesi.

Qualche giorno fa ho ricevuto una lettera astiosa ed irridente, per non dire strafottente, circa il mio pensiero sugli zingari, da parte di una persona talmente preconcetta da non aver neppure compreso che cosa ne penso sull’argomento. Gli ho risposto a giro di posta perché mi sfidava, se proprio volevo servire i poveri, di impegnarmi a favore degli zingari. Pur non condividendo la scelta comunale di aprire un nuovo ghetto, gli zingari li sto aiutando fornendo loro cibo, vestiti e quant’altro, opponendomi, come posso, alle loro ruberie ed insistendo presso l’opinione pubblica perché essi siano trattati come tutti i cittadini sia nei diritti che nei doveri.

La preghiera dei vecchi

Qualche tempo fa sono andato a far visita ad un mio vecchio parrocchiano che il Parkinson ha relegato in casa come un povero esiliato.

L’amico, solamente più vecchio di me di qualche anno, è sempre stato una persona attiva, prima nella politica come giovane democristiano della sinistra, poi impegnato con risultati veramente eccellenti a livello sociale e umanitario; scrittore caldo e dalla battuta ricca di humor, è vissuto da protagonista per molti anni a livello non solamente della comunità parrocchiale, ma soprattutto a livello cittadino. Poi la sorte cominciò ad essergli avversa, come tocca a quasi tutti noi anziani. Prima la morte di sua moglie, donna particolarmente ricca di umanità, intelligente, dolce, profondamente materna e dallo spirito gentile e garbato. Poi la malattia insidiosa e progressiva che gli ha rallentato il passo e reso più faticoso il linguaggio, pur lasciandogli lucida la mente per accorgersi del declino inesorabile che lentamente gli ha rubato brio, vivacità di parola, entusiasmo e speranza.

Desiderava vedermi, forse spinto dalla nostalgia di tempi migliori e di battaglie ideali combattute ambedue con coraggio per il bene della nostra città.

L’incontro però si risolse nel sommare tristemente le due vecchiaie minate da mali diversi, ma non migliori. I miei guai sono ancora in prospettiva, ma ogni giorno li vedo vieppiù nell’orizzonte sempre più vicini. Ci siamo scambiati reciprocamente una solidarietà nella nostra vecchiaia, ancora fortunatamente supportata dalla fede di un tempo, ma anch’essa meno bella e luminosa di quella dei tempi del vigore fisico e spirituale.

Iddio abbia pietà di noi, poveri vecchi e ci faccia l’ultimo dono: che non si spenga la speranza e la sicurezza di aver impiegato bene gli anni migliori.

Condivido il buon proposito del Patriarca circa la “Cittadella della Solidarietà”!

Nell’incontro promosso dal Patriarca e portato avanti dal vescovo ausiliare, mi è stato ripetuto più volte che l’iniziativa della “Cittadella della Solidarietà” verrà seguita dalla Diocesi. Perché poi non ci fossero dubbi di sorta, monsignor Pizziol mi ha ribadito, pur con rispetto e cortesia, che questa cittadella non sarà la cittadella di don Armando, ma quella del Patriarcato.

Perlomeno una volta sono totalmente d’accordo con la Curia. Non sogno, a livello personale, alcuna “cittadella”, mi bastano i 48 metri quadrati del mio alloggio al “don Vecchi” e me ne avanza. Sono felicissimo che la Chiesa veneziana faccia proprio questo progetto, lo promuova e lo realizzi come entità ecclesiale globale; mi pare che questa scelta coinvolga tutti i membri della comunità diocesana e soprattutto sia segno alto che i discepoli del Signore ritengono come componente essenziale della nostra religione non solo la linea verticale che la unisce al Creatore, ma anche quella orizzontale con la quale abbraccia il popolo dei fratelli.

In verità sono sempre stato abbastanza scettico circa l’autenticità cristiana di una Chiesa tutta preoccupata ed impegnata per la salvezza eterna e lo spirituale e poco attenta alla vita fisica e sociale dei suoi membri e al loro benessere umano.

Il Patriarca, nella sua visita pastorale, mi pare abbia quanto mai insistito sul dovere “del gratuito” e perciò, alla conclusione di questo lungo ed appassionato incontro con tutte le comunità e con tutti i membri della Chiesa veneziana, dar vita ad un segno che attualizzi il suo messaggio sia la cosa più bella e più opportuna che potesse fare. Io mi sentirò lieto di essere parte dei quattrocentomila cattolici veneziani che intendono dar gloria a Dio mediante la carità.

Scioperi scolastici

Mi pareva impossibile che quest’anno gli studenti, all’inizio dell’anno scolastico, non scioperassero, protestando contro qualcosa!

Quest’anno gli studenti ce l’hanno con la Gelmini per la riforma della scuola, ma mi domando: “Sono cinquant’anni che all’apertura della scuola vedo gli studenti protestare per qualcosa, ogni anno riescono a trovare un motivo per farlo!” Sono quindi giunto alla conclusione che, come ogni anno verso Natale scoppia l’influenza, ogni anno con un nome diverso – ma sempre di influenza si tratta – così ad ogni apertura dell’anno scolastico, gli studenti o risentono del risucchio delle lunghe vacanze, o faticano ad affrontare i ritmi per forza regolari delle lezioni. Sta di fatto che immancabilmente, sotto ogni governo e con tutti i ministri che via via si sono succeduti, ogni anno ho visto folle di studenti, ragazzi e ragazze, rubicondi e vestiti alla moda che, in maniera tanto goliardica e per nulla seria, con grida truci ed altisonanti, hanno manifestato perché la scuola che essi stessi rendono sempre meno seria, si rinnovi, illusi di poter crescere culturalmente, impegnandosi sempre meno a tutti i livelli (tanto i loro padri provvedono ad imbandire la tavola ogni giorno!).

Quest’anno, ma non è il solo, alla protesta festaiola degli studenti, s’è aggiunto il dramma dei precari che, per l’impreparazione di certuni e la demagogia di tutti gli uomini dello Stato, si sono inseriti a decine e decine di migliaia nel limbo del precariato, composto di insegnanti né carne né pesce.

Io non so se la Gelmini abbia ragione, non sono documentato, ma credo che comunque abbia ragione di tener duro; ormai da troppo tempo e per colpa di troppi, la scuola non educa, non passa valori, non insegna a vivere e lavorare con serietà.

E’ indispensabile dare agli anziani in perdita di autosufficienza una vita dignitosa!

Io non sono certamente un ammiratore delle case di riposo per mille motivi, primo fra tutti perché l’anziano viene privato di ogni seppur minima possibilità decisionale.

Qualche settimana fa sono stato a visitare un mio “confratello” ricoverato in una casa di riposo che, peraltro, gode di ottima fama a Mestre e che in realtà non è un’azienda in cui degli azionisti abbiano investito del denaro pensando che il rendimento sia maggiore e più sicuro! Ebbene l’ospite, pur se con una coscienza ormai limitata e fragile, mi raccontava, amareggiato e stupito: «Qui tutto è proibito “non deve far questo, non può andare là … ” ogni decisione è in mano dell’infermiera!»

Normalmente poi il bacino in cui si pesca il personale di servizio è certamente povero, spesso fatto prevalentemente da extracomunitari, che se non altro, hanno una cultura ed una sensibilità tanto lontane dalla nostra e sono sempre costretti ad accettare i lavori più ingrati che la nostra gente non vuole più fare. Comunque ci sono delle situazioni che, nel tipo di società in cui viviamo, dobbiamo accettare ricorrendo a questa soluzione, pur riveduta, corretta e umanizzata al massimo.

Io convengo con la dottoressa Corsi, alto funzionario del Comune di Venezia per quanto riguarda la terza età. Ella afferma: «L’anziano deve rimanere nella sua casa ed essere accudito come un tempo lo erano i nostri vecchi, accompagnati con amore al termine dei loro giorni». Io convengo totalmente su questo progetto e penso che la stragrande maggioranza dei nostri vecchi potrebbe vivere in questo contesto, ma a condizione che si possa ricreare la grande e numerosa famiglia patriarcale, con la coscienza di poter sorreggere con rispetto e amore l’anziano in perdita di autosufficienza.

So che questo obiettivo è difficile da perseguire, perché il contesto sociale è individualista o peggio ancora egoista, perché i famigliari spesso tentano di scaricare il “vecchio incomodo”; perché talora l’anziano rappresenta “un’entrata” da sfruttare col minimo sforzo e costo possibile; perché le norme burocratiche sono ben lontane dall’aver questa sensibilità e quindi l’importante per l’apparato è erogare comunque un servizio senza poi accertarsi se esso funziona e rispetta la dignità dell’anziano.

Noi al “don Vecchi” ci troviamo nella quasi tragica situazione che le case di riposo per non autosufficienti hanno sempre fuori il cartellino “completo”. Nel Centro non riusciamo ad avere quell’elementi giovani e disposti ad accettare la fragilità esistenziale del vecchio, qualora ce li cercassimo, e ciò sarebbe possibile, lieviterebbero i costi così che i “poveri” non potrebbero rimanere.

Spesso sarei tentato di “mollare”; per ora m’aiuta anche a non farlo una cara alunna di anni lontani, che pur dentro al groviglio burocratico del Comune, continua a credere ed operare come venti anni fa le ha insegnato questo “vecchio docente”.

Gli oleandri del Don Vecchi

Ogni tanto mi salgono alla mente certi proverbi, certi detti popolari, che mi sembrano dei segnali stradali quanto mai opportuni per raggiungere la meta.

Normalmente sono sentenze certamente, se non sapienti, almeno di buon senso, che si ricordano o per la rima o perché evocano istintivamente intuizioni o immagini che mettono a fuoco una verità o un obiettivo.

Qualche giorno fa , passeggiando lungo il vialetto che separa l’edificio del “don Vecchi” col filare di carpini, ormai possenti, che segnano oltre il prato, il confine del parco, osservavo con molto piacere la sequenza di oleandri che ora sono ancora in fiore. Essa costituisce quasi una scia colorata di bianco, rosetta, rosso e crema che ti accompagna lungo il vialetto e pare che ti sorrida con lo sguardo carico di simpatia.

Tra me e il filare di oleandri c’è una storia quanto mai impegnativa e non sempre idilliaca. Durante un torrido luglio di cinque, sei anni fa, un ipermercato ci ha regalato una ottantina di piccole piante in vaso di oleandro (al “don Vecchi”, come ad ogni ente caritativo, si regalano, come fosse oro, le cose più strampalate). Il vecchio Mario, che ora se li gode guardando giù dal cielo, le piantò scavando solo un buchetto col piccone, perché i muratori avevano seppellito sotto un lieve manto di terra tutte le macerie del cantiere. Per tutta l’estate li curarono col biberon perché non morissero in culla. Passati i primi due anni cruciali, crebbero fin troppo, creando una barriera verde che nascondeva il prato e che mi costava ogni anno più di mille euro perché non andassero a disturbare le stelle.

Pur sapendo che gli oleandri sono nati come arbusti, mi sono accorto che con un opportuno “addestramento” si adattano, pur con qualche ritrosia, ad erigersi come alberelli col fusto un po’ contorto, ma con una chioma quanto mai bella.

“Volere è potere”, dice il proverbio, ed io, come l’Alfieri, “volli, sempre volli, fermamente volli!”. Ora l’operazione non è ancora completa, però ogni giorno i miei occhi si posano con dolcezza e legittima soddisfazione su quei filari di cappellini multicolori, e penso con riconoscenza ed affetto, al vecchio Mario che mi ha lasciato in eredità tanta bellezza.

Come dovremmo rispondere agli atei e agli “atei cristiani”

L’impatto per l’incontro con alcune persone, che in questi ultimi tempi mi hanno detto d’essere atee, mi ha colpito profondamente.

Da un lato perché negli ultimi cinquant’anni della mia vita sono stati ben pochi coloro che mi hanno detto in maniera così esplicita di non credere, da un altro lato perché queste dichiarazioni di ateismo mi sono giunte in un lasso di tempo tanto ravvicinato così da farmi sospettare di trovarmi di fronte ad un nuovo fenomeno a livello religioso, infine perché quando ha cercato di indagare un po’ mi sono subito accorto che in quasi tutti i casi non c’era dietro a queste dichiarazioni alcun supporto razionale.

Probabilmente penso sia lo svilupparsi fino alle conclusioni estreme del processo di scolarizzazione iniziato decine di anni fa.

Ad accelerare questo processo di certo hanno contribuito i mass media che hanno enfatizzato le affermazioni di un corpuscolo di atei militanti, che pur non essendo tanto numerosi, fan tanto chiasso come tutte le persone controcorrente.

Questa riflessione preoccupante per un vecchio prete che si rifà all’idea di cristianità piuttosto che a quella del “piccolo gregge”, s’è purtroppo aggiunta un’altra ancora più preoccupante che verte sul fatto degli “Atei Cristiani”. Cioè di coloro che appartengono ufficialmente alla chiesa, ma la cui fede non incide minimamente sulla vita, questi, questi temo siano ormai moltitudine. Che fare?

Di certo la testimonianza decisa e coerente può essere un faro per tutta questa gente che naviga al buio o nella nebbia.

Poi però credo che si debba puntare con più decisione sulla catechesi seria ad ogni età, sviluppata con tutti i mezzi possibili.

Infine credo che sia tempo e ora di finirla con l’enfatizzazione dei riti quasi invano talismani miracolosi, penso che, come in tempi lontani S. Girolamo tradusse la Bibbia nella “Vulgata” cioè nella lingua parlata del popolo, cosi oggi dobbiamo tradurre il messaggio in maniera comprensibile all’uomo comune, ossia a quella che chiamano “opinione pubblica”.

Da ultimo forse è giunto il tempo di tirar fuori la vecchia apologetica, riveduta e corretta, ossia è giunto il tempo di passare al contrattacco con motivi di logica stringente e convincente.

Da parte mia da tempo tento di fare la mia piccola parte; spero che gli “alti comandi” e il grosso dell’esercito si scuota finalmente e sviluppi una forte controffensiva.

Non beneficienza ma solidarietà!

Qualche tempo fa ho manifestato la mia indignazione nei riguardi di un “confratello” che, pur avendo nella sua comunità una organizzazione caritativa e pur sapendo che io sono pensionato e non svolgo più alcuna funzione specifica nel campo della solidarietà nella Chiesa veneziana, mi mette in imbarazzo inviandomi qualche “povero” con il consiglio “solamente don Armando ti può aiutare”. Ci sono però delle buone donne che non hanno assolutamente questa perfidia, che meno che meno hanno la più pallida idea su quello che faccio al “don Vecchi”, le quali, spinte dallo zelo e dal desiderio di far del bene, suggeriscono spesso a chi si trova in difficoltà di venire da me per avere aiuto.

E’ vero, al “don Vecchi” in quattro anni abbiamo creato un polo caritativo che non ha eguali né a Mestre né nell’intera diocesi, una organizzazione quanto mai efficiente, supportata da una dottrina precisa ed innovativa che tenta di fare da volano alla solidarietà cittadina, tanto da far maturare una nuova cultura nei rapporti tra concittadini. Il principio fondamentale è che solamente la solidarietà può risolvere il problema del bisogno e che anche i poveri debbono e possono aiutare i più poveri.

Sono straconvinto che non ci siano nel patriarcato “agenzie solidali” alle quali ricorrono tanti bisognosi quanti vengano ogni giorno al “don Vecchi” e non ci siano altri gruppi di solidarietà che forniscono un volume di aiuti quanti sono forniti ogni giorno al “don Vecchi”.

Però da noi ognuno deve concorrere con un contributo, seppur quasi solamente simbolico, per chi è ancora più povero, perché convinto che solamente la cultura e la prassi solidale matura la nuova civiltà. Questa dottrina sta già producendo i suoi frutti, infatti i principali finanziatori del nuovo centro di Campalto sono: le associazioni di volontari “Vestire gli Ignudi”, “Carpenedo solidale” e la “Fondazione Carpinetum”, che aiutano chi ha bisogno e nel contempo gli chiedono un contributo seppur minimo, per chi è ancora più povero.

Il termine beneficenza al “don Vecchi” è assolutamente bandito per far posto al nuovo: solidarietà!

Un film che mi ha fatto riflettere

Passati gli ottant’anni ci si stanca anche quasi per nulla; almeno a me capita così! Ho ancora una buona tenuta durante la giornata ma, terminata la cena, mi metto in poltrona per vedere Teledue e poi giocherello un po’ a caccia di un programma che mi interessi. Il più delle volte non lo trovo e mi addormento.

Ci sarebbe anche qualcosa che stuzzica la mia attenzione e che mi interesserebbe, ma spesso è così spudoratamente fazioso che finisco per girare perché, con la pressione alta che ho, arrischio di fare una sincope. Ad esempio “Annozero”, con Santoro, è per me come toccare un filo ad alta tensione di ventimila watt. Mi indigna la sfrontatezza, la faziosità, l’ironia, la saccenza, ma soprattutto mi fa andare in bestia la consapevolezza che lo Stato mi chieda il conto del canone per pagare a peso d’oro un …. del genere! (lascio ad ognuno la possibilità di riempire lo spazio dei puntini col termine che ritiene più giusto).

Non è soltanto Santoro “la voce del popolo, della democrazia e del rinnovamento” che mi imbestialisce, purtroppo la televisione italiana pare un groviglio di vipere!

Di film, oltre a quelli dalle trame complicate, violente, non riesco a trovarne uno che mi offra almeno una scheggia di buon gusto, di poesia e di arte.

L’altro giorno però mi sono imbattuto per caso in un film ambientato in India, che aveva come protagonista un bambino dislessico. Meravigliosa la recitazione di quel bambino dai calzoncini corti, interessante quanto mai il problema trattato e piacevole l’ambientazione. La trama molto elementare: un bambino che non riesce per nulla a scuola, i maestri e i genitori che non si accorgono del problema psicologico del piccolo dislessico, per arrivare alla redenzione mediante l’incontro con un giovane insegnante di disegno che da piccolo aveva avuto lo stesso male.

Ho passato forse un paio d’ore – perché anche il povero Berlusconi ha voluto il suo guadagno con la pubblicità – veramente piacevoli ed interessanti, vorrei dire anche fruttuose. Il volto triste, tanto triste, del bambino, solo col suo dramma pur vivendo tra una folla di persone, m’ha posto il problema della infinità di persone di tutte le età che incontro ogni giorno, e che portano nel segreto del loro cuore terribili problemi, dai nomi diversi, ma dalla solitudine interiore che solamente la calda solidarietà può aiutare.

Finito il film, ho fatto il proposito: non voglio incontrare più nessuno come individuo, ma come persona unica e irripetibile che ha qualcosa da darmi, ma anche qualcosa da chiedermi.

“La natura cuce e riordina tutto”

Un giorno scendevo dalla montagna in un’auto cosa che, come accadeva sempre; monsignor Vecchi l’aveva preso in prestito dai Coin, la strada tutta curve che partendo da Misurina porta a Mestre, quando notai, dalle parti di Longarone, una grossa ferita biancastra sul pendio tutto verde della montagna. Feci notare a Monsignore lo sgorbio, lo scempio sul manto verde formato dal bosco di alberi.  Era caduta una slavina, fendendo il verde e lasciando scoperte le viscere sassose della montagna.

Lo spettacolo di questa fascia scoperta quasi mi turbava, mi metteva addosso un senso di disagio tra tanta bellezza e armonia. Monsignore, con quel suo fare un pizzico paternalistico di uomo arrivato, mi disse: «Non ti preoccupare, Armando, se passerai fra un paio di anni, ti accorgerai che la natura cuce e riordina tutto».

Quante volte, ultimamente, ho pensato a questo discorso vedendo le due strisce di terra grigia che gli operai, avendo allargato il marciapiede in maniera incauta e trasandata, avevano rovinato il prato prospiciente alla mia terrazzina.

Ogni giorno guardavo lo screzio sull’erba quasi arrabbiato, ora però, alla distanza di qualche mese, la natura ha preso il sopravvento ed ha ricucito dolcemente la ferita.

Spessissimo rimango turbato per la perdita di un collaboratore, per il venir meno di una persona che ritenevo determinante nell’ecosistema del mio piccolo mondo. Ho l’impressione che mi manchi la terra sotto i piedi, di non poter andare più avanti, che crolli qualcosa che ho costruito con tanta pazienza e tanta fatica.

Invece no! Il tempo, la natura, la Provvidenza ricuciono pian piano; talvolta, il posto che è rimasto vuoto lo rinnovano, e lo fanno più bello e più efficiente di prima!

Quando andavo a scuola spesso mi sono sentito ripetere: “la storia è maestra di vita”. Ne sono convinto, il guaio però è che anche i maestri più preparati, più intelligenti, corrono il rischio di fallire se trovano uno scolaro somaro!

La storia e il libro della vita mi hanno messo sotto il naso degli ottimi insegnamenti e soltanto ora, che è tempo di metter via la cartella perché sta suonando la campanella della fine lezione, mi pare di incominciare ad imparare qualcosa.

Un ruolo non facile

Qualche giorno fa un signore, dall’apparenza ancora giovane, vedendomi procedere un po’ faticosamente sotto il peso di un grosso annaffiatoio, ha insistito per sostituirmi nel compito di annaffiare le piante che abbelliscono l’ingresso della vecchia chiesa del cimitero. Dopo qualche tentennamento, fatto più per cortesia che per convinzione, accettai molto volentieri l’offerta del nuovo “buon samaritano”.

Il giorno dopo mi ripeté l’offerta, dicendomi che egli veniva ogni giorno al camposanto di buonora per “salutare” sua moglie.

M’ero già accorto di come fosse, anche fisicamente, sconvolto da un lutto recente. Questa mattina mi parve doveroso aprire un dialogo meno formale con questa persona tanto disponibile e tanto cortese. M’accorsi subito che egli mi conosceva bene, ma mi capita di sovente di incontrare persone, a me assolutamente sconosciute, che si rivolgono a me, quasi mi conoscessero da sempre. Da molto imputo questi strani rapporti alla lettura del “diario” in cui io “spiffero” senza alcun pudore le mie cose.

In questo caso però non era solamente così; egli mi conosceva fin dai tempi di San Lorenzo, quando con monsignor Vecchi abbiamo tentato di dare risposte nuove alle tensioni che nel sessantotto avevano sconvolto gli schemi mentali della nostra gente, e in particolare dei giovani, ma soprattutto dell’articolazione, allora molto statica, dei gruppi parrocchiali.

Questo signore, ormai più che sessantenne, era stato, ai tempi di don Vecchi, il presidente del “Club della graticola”. Il club era una specie di movimento molto libero per i giovani maturi che ruotavano attorno alla parrocchia, mentre io a quel tempo mi occupavo del “Gruppo del martedì”, un gruppo giovanile di adolescenti, o poco più.

La conversazione, quanto mai cordiale, rievocò le ormai vecchie “avventure”. Guai ad una parrocchia che non si evolve, non s’aggiorna, non cresce. Ora tutto appare tanto statico ed ingessato!

Questo “giovane di ieri” mi confessò che monsignor Vecchi allora mi riteneva la sua coscienza critica. Ciò mi fa pensare, infatti qualche giorno fa lo scrissi, in merito ad una certa questione, al vescovo ausiliare: gli dissi che così mi sentivo di parlargli e che mi ascoltasse esattamente come “coscienza critica” della Chiesa veneziana. Non è questo un ruolo comodo, e un ruolo che non mi sono scelto, ma che mi ha imposto il mio sentire cristiano!

Che sia faticoso e pericoloso l’ho capito da un pezzo, spero però di non aver fatto una scelta sbagliata.

L’insegnamento di mio padre

Mio padre, soprattutto nel periodo della sua vecchiaia, manifestò nei miei riguardi e nei riguardi dei miei fratelli, sentimenti di grande comprensione e grande tenerezza.

Mio padre fu una bella figura di uomo, un lavoratore indefesso, che rimase a galla e mantenne la sua famiglia nonostante i tempi duri della guerra, lavorando prima come carpentiere e, dopo, come artigiano, nella sua piccola falegnameria.

La morte lo colse al lavoro. Aveva appena acceso le luci della sua bottega e preparato gli arnesi per il lavoro di ogni giorno, quando una sincope gli permise appena di chiedere il parroco per una benedizione, prima di partire per il Cielo.

Soprattutto mio padre non si scoraggiava mai, anche nei momenti più difficili. Sperava contro ogni speranza e sempre, magari all’ultimo minuto, gli andava bene. Crebbe, infatti, sette figli, dando ad ognuno di noi una seria educazione e le capacità di vivere in maniera autonoma e positiva.

Talvolta, quando mi pare di rimanere solo, senza appoggi e collaborazione, ricordo un suggerimento, un po’ faceto, ma che si è dimostrato sapiente nelle mie vicende personali. Un giorno mi lagnavo perché non trovavo quella collaborazione della quale mi pareva di aver assoluta necessità, e lui mi rianimò dicendomi: «Sii tranquillo e fiducioso, Armando, perché su quaranta o cinquanta membri di ognuno dei tuoi gruppi parrocchiali, troverai sempre due o tre elementi che hanno la mania di lavorare!»

Posso affermare con sincerità che quando mi sentivo più solo e nel pericolo di essere soccombente, magari all’ultimo momento, ho sempre trovato qualcuno con la “mania di lavorare” e con l’aiuto di questi “maniaci” sono sopravvissuto, ho realizzato delle belle imprese e sto ancora combattendo per un mondo migliore. Benedetto papà!

Non è facile sintonizzarsi sulla voce di Dio

Non troppi conoscono le mie avventure radiofoniche. Da sempre sono stato convinto che non ci si può limitare ad annunciare lo splendido messaggio di Gesù nelle sagrestie, nei patronati, all’ombra del campanile o ai pochi devoti che vengono ancora ad ascoltare le nostre prediche, spesso noiose, ripetitive e monotone.

San Paolo, pur essendo vissuto duemila anni fa, è maestro nell’insegnarci che non ci possiamo dar pace finché non offriamo ai quattro venti la bella notizia della liberazione, della redenzione e della salvezza.

Una trentina di anni fa, dopo un breve, parziale e solitario tentativo di monsignor Vecchi di dar vita ad una “radio privata” – come si diceva allora – iniziai la mia avventura radiofonica a livello pastorale.

Non sto a ripetere le vicissitudini avventurose, ma esaltanti, di quella che chiamai, per amor di patria, “Radio Carpini”.

Il sogno, che pian piano diventò, con infiniti tentativi e sforzi, progetto, era ambizioso ed aveva iniziato a prendere forma: tre studi di registrazione e di messa in onda, una regia automatica, quasi una decina di ripetitori locali, l’emittente principale sul monte Toront, quasi duecento volontari, un collegamento in diretta con Radio Vaticana, un settimanale con i programmi.

Poi tutto naufragò per i costi insopportabili, perché clero e laicato della diocesi rimasero passivi, non volendosi avventurare in “terre e cieli sconosciuti”.

In questi giorni pensando alla Radio Vaticana, che nei primi tempi prendevamo sulle onde lunghe e per la quale occorreva infinita pazienza nella ricerca di metterci in sintonia, perché la voce andava e veniva a causa degli eventi atmosferici, ho avuto l’impressione che ci voglia la stessa pazienza, la stessa fatica, per sintonizzarci sulla voce di Dio, per comprendere con lucidità i suoi messaggi, per ascoltare la sua voce. Senza un’autentica passione, ben difficilmente possiamo ascoltare la voce di Dio tra le mille voci che ci giungono da ogni dove, spesso voci fracassone, invadenti e banali, mentre Dio si fa sentire con delicatezza, nell’assoluto silenzio, motivo per cui solamente chi la ricerca con cuore sincero può ricevere la sua parola di conforto e di sostegno.

Politica italiana: critiche giuste o invidia?

Io amo circondare il mio animo di uomini nobili, e riempire il mio cuore di fatti edificanti e belli, però non posso non incontrare direttamente o attraverso la lettura dei fatti della vita, anche i personaggi loschi, sanguinari, i tiranni che hanno disonorato l’umanità.

Nei miei ottant’anni di vita ho conosciuto direttamente la ferocia di Stalin che sterminò, a decine di milioni, chi non aderiva alla sua rivoluzione russa, la spietatezza del caporale Afolf Hitler, che non esitò a mandare nelle camere a gas oppositori tedeschi della sua politica, ebrei di ogni paese, zingari, alienati mentali e antinazisti di tutta l’Europa, che riuscì ad invadere con le sue armate.

Ho pure conosciuto i “satrapi” spietati e sanguinari di certi paesi africani (alcuni addirittura accusati di antropofagia), o del Centramerica, personaggi stravaganti, ma sempre sanguinari. Ho incontrato dittatori sprezzanti della libertà e della democrazia, come Mussolini, Franco, Peron, Ceausescu e, purtroppo, tanti altri più o meno noti. Come conosco, purtroppo, i dittatori viventi, le cui colpe sono meno note, ma che temo non tengano in nessun conto la dignità, la libertà e la vita dei propri connazionali (qui non faccio i nomi, perché credo che non serva, sono sotto gli occhi di tutti).

Talvolta però, sentendo la violenza verbale di certi solisti, come Bersani, Di Pietro, Franceschini, Bindi, e di qualche altro, oltre il coro di sottofondo a questi solisti, mi domando: “Ma il nostro Berlusconi appartiene proprio alla categoria dei governanti da iscrivere nel libro nero della storia come le invettive e le accuse dei suoi attuali oppositori pare vogliano farci credere con le loro quotidiane e spietate condanne?”

Che Berlusconi abbia fatto tanti soldi in poco tempo, è vero! Che sia un marito infedele ed un uomo per nulla morigerato, è vero! Che abbia un tono da sbruffone e “facciotuttoio”, è vero! Che possegga strumenti per imbonire l’opinione pubblica, è anche vero! Però, che lo si debba mettere alla stregua dei più spietati dittatori, ho qualche dubbio! Anzi, talvolta temo che i suoi oppositori siano piuttosto invidiosi, per non saper fare con le loro chiacchiere, ciò che lui riesce a fare.

Non dobbiamo mai dimenticare le nostre colpe

Questa pagina del mio diario non posso iniziarla che così: “messa e sermone”, dopo il pomeriggio passato nella villa degli armeni ad Asolo. Anche se volessi fare altrimenti non sarei capace di farlo.

Il sermone sulla pagina di Luca che narra la parabola del ricco Epulone che “indossava vestiti di porpora e di lino finissimo ed ogni giorno si dava ai banchetti, mentre un povero di nome Lazzaro stava alla porta, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco” mi riportava agli occhi e al cuore la stupenda villa asolana del cardinale di Venezia, il patriarca Contarini, e la fila di settecento poveri diavoli che ogni settimana vengono negli scantinati del “don Vecchi” per portarsi a casa, nelle borse di plastica, i generi alimentari che le catene degli ipermercati e le fabbriche alimentari non riescono più a commercializzare.

Fatalmente l’Epulone aveva il volto del ricco cardinale veneziano che poté costruirsi una villa in una posizione incantevole per godersi il fresco che scende dal Piave e dal massiccio del Grappa, per trascorrere i mesi estivi lontano dal “soffego” della laguna; e Lazzaro il volto coperto dal “chador” delle donne del Marocco e della Tunisia, di quelle dell’est d’Europa e degli extracomunitari che non riescono a trovar lavoro e vengono al “don Vecchi”, perfino mal sopportati dagli abitanti del quartiere don Sturzo.

Il guaio poi fu che la coscienza mi spinse a pensare che pure io e noi cristiani che abbiamo tutto – dal cibo alla casa, dalla speranza al messaggio del Vangelo, dalla pace al bel sole del nostro Veneto -, magari inconsapevolmente finiamo per indossare gli abiti dell’Epulone per nulla preoccupati della fame e della miseria dei tanti Lazzaro del mondo, che abitano, da Haiti all’India, dall’Africa alle mille altre contrade del mondo e quindi meritevoli del “tormento degli inferi”!

Ho finito per dire a me stesso e ai miei fedeli che non dobbiamo solo preoccuparci e batterci il petto per le colpe del cardinal Contarini, ma anche per le nostre colpe personali, a motivo dell’opulenza e della miseria ancora presenti nella società di oggi.