Riflessioni asolane

Qualche settimana fa sono ritornato ad Asolo dopo quasi cinque anni. Uscendo dalla parrocchia, ho lasciato non solamente il cuore ad una comunità che ho amato più di me stesso, perché per essa ho affrontato fatiche, sacrifici e rischi di ogni genere, ma ho lasciato pure quelle “creature” alle quali avevo dato vita: il Germoglio, il patronato, il Foyer, il Ritrovo, il Piavento, la Malga dei faggi e, soprattutto, Villa Flangini, la stupenda struttura sui colli asolani.

Quest’ultima mi sembrava il fiore all’occhiello, a livello di struttura pastorale: una splendida villa del 1700, ch’era stata la dimora estiva del cardinal Flangini, patriarca di Venezia. Una dimora da Cardinale, quindi!

Da un rudere, dopo decenni di abbandono ed incuria, ne abbiamo fatto una dimora principesca per le vacanze estive per gli anziani. Ho recuperato mobili e quadri, ristrutturato il ricovero degli arnesi facendone il salone del caminetto, il granaio – che divenne il salone dei congressi -, la stalla, trasformata nel bar-ritrovo, il fienile, in cappella. Abbiamo riordinato i sentieri. Riportato quindi, e superato, l’antico splendore.

Con l’uscita di scena non ho avuto più coraggio di rivederla, per timore di lasciarmi sopraffare dalla struggente nostalgia.

Quando, qualche sera fa, mi sono recato ad Asolo in Villa Contarini, comunemente conosciuta come “La villa degli armeni”, per una estemporanea di pittori noalesi, a favore del “don Vecchi” di Campalto, ho riscoperto la magia di Asolo, il paese dei cento orizzonti, restando perfino sorpreso che il vescovo dei patrizi veneziani Contarini vi avesse costruito una dimora ancor più bella del suo successore, il cardinal Luigi Flangini, e che l’imprenditore noalese di motociclette l’avesse ristrutturata, abbellita e arredata in maniera ancor più sontuosa del vecchio cardinale.

Chi vuol vedere l’anticamera del Paradiso non ha che da chiedere al signor Silvano Beggio di poter visitare la sua villa di Asolo!

Debbo pur confessare che durante il pomeriggio, passato a scoprire le sempre nuove insuperabili angolature dei colli asolani e delle sue splendide costruzioni, più di una volta ha fatto capolino nella mia coscienza il sermone sul ricco Epulone e Lazzaro, che m’ero preparato per l’indomani. Ho cercato, a mia scusa, il fatto che io avevo acquistato la villa per i miei vecchi, che non si potevano concedere la villeggiatura; non so però come i signori Beggio mettano in pace la loro coscienza!

Si sta banalizzando la vita e pure la morte!

Io sono nato in un paese di campagna in cui le vicende di ogni componente della comunità erano largamente condivise, motivo per cui nessuno rimaneva mai solo di fronte ai gravi eventi della vita e ciò che avveniva formava la coscienza dei membri della comunità. Credo che nonostante il passare degli anni non sia mutato questo atteggiamento.

Ora, dati gli anni che ho, è un pezzo che non ritorno nel mio paese natio, ma ricordo che l’ultima volta che ci sono ritornato per un funerale di un parente, la chiesa era gremita e l’intera comunità, direttamente o indirettamente, ha partecipato all’evento. Mentre ora in città le cose non vanno proprio così; ogni evento, anche il più importante della vita, viene vissuto sempre più in una assoluta solitudine, viene banalizzato come un fatto scontato e pressoché insignificante.

M’è capitato, qualche tempo fa, un fatto spiacevole. Parlando con una figlia che aveva perduto il padre, a cui si diceva veramente legata e che mi descriveva come un uomo di valore, lei dapprima mi fece capire abbastanza esplicitamente di “farla il più breve possibile”, poi mi disse che sarebbe venuta lei sola, terminando col chiedermi: «Non si potrebbe fare il funerale a porte chiuse?» A me parve di intendere che dei membri della sua famiglia nessuno avesse potuto intervenire, per motivi a me sconosciuti, ma certamente plausibili. In realtà venne lei sola. Fortunatamente c’era in chiesa qualche fedele, perché la celebrazione avveniva durante una messa d’orario; altrimenti saremmo stati solamente lei ed io a dire grazie al fratello che se ne andava e a pregare il buon Dio che gli desse pace nella vita nuova.

Oggi si parla tanto di socialità e di solidarietà però, se le cose vanno così, la vita e la morte diverranno sempre più un fatto banale ed insignificante.

Che delusione il dialogo col Comune per avere i viveri in scadenza degli ipermercati!

Credo che la mia guerra col Comune di Venezia, perché ci ottenga dagli ipermercati della città i viveri in scadenza, potrebbe diventare più lunga di quella “dei trent’anni”, senza però arrivare ad alcun risultato.

Finora non ho ottenuto che promesse e delusioni. Ora infine ho capito che non ho neppure davanti a me un “nemico” con cui poter incrociare le armi; esso s’è dileguato tra le nebbie dense e cupe della laguna ed è totalmente evanescente o, forse peggio, inconsistente, col quale è perfino impossibile scontrarmi.

Pensavo che il problema dei più poveri fosse di pertinenza dell’assessore alla sicurezza sociale, poi costui m’ha fatto intendere che toccava a quello del commercio. Intanto il tempo è passato tra una promesse ed una delusione.

In questi giorni finalmente ho incontrato il nuovo assessore al commercio, che pensavo si fosse fatto carico dei progetti e delle promesse del suo predecessore. Invece no! Così ho finalmente capito che la mia non era solamente una battaglia perduta, ma una disfatta a cui non può che seguire una resa senza condizione e senza neppure l’onore delle armi, perché non so neppure più con chi dialogare e combattere. Siamo a Caporetto!

Mi spiace di non poter recuperare tonnellate di generi alimentari che andranno a finire tra i rifiuti, creando ulteriori problemi per lo smaltimento. Ma mi spiace di più che la Serenissima stia in maniera vistosa ed inesorabile avviandosi al disfacimento, trascinando nell’abisso anche Mestre, la sua città satellite e sobborgo, che pur meriterebbe una sorte migliore. Quello che non è ancora riuscita a fare l’acqua alta, lo fa l’amministrazione comunale.

“Ama Dio e il prossimo come te stesso”, la mia bussola nel buio

Com’è bello leggere nella Bibbia il dialogare del Signore con i suoi profeti. Javè fa dei discorsi chiari, comprensibili e concreti. Gli uomini di Dio lo interrogano un po’ su tutto ed Egli parla loro con chiarezza cosicché, anche se chiedeva cose impegnative, essi potevano orientarsi con sicurezza.

Ora s’è tutto terribilmente aggrovigliato, uno scroscio di parole, di sentenze e di verità autentiche o presunte si rovesciano su di noi avvolgendoci in una nebbia spessa, per cui annaspiamo senza sicurezze.

Anche restando nell’ambito religioso, le opinioni, le interpretazioni e le sentenze sono così diverse e contrastanti da far si che ci sentiamo dentro un labirinto senza, almeno apparente, via d’uscita.

Da tanto tempo cerco di tenermi ben lontano dal filosofeggiare, dalle complicate e sapute esegesi e dalle ricerche della teologia tanto spesso macchinose ed incomprensibili.

Io non ricordo molto di Cartesio, il filosofo che ho incontrato durante il liceo. Di questo filosofo ricordo una sentenza o un passaggio sul suo modo di interpretare la vita, la storia, il mistero in cui si fa cenno alle “idee chiare e distinte”.

Tento di portare avanti nel mio intimo un processo di semplificazione per ridurre la verità all’essenziale e per proporla alle persone che con me cercano verità e salvezza.

Gesù molto spesso mi è d’aiuto per conoscere senza perplessità la volontà di Dio; quanto gli sono riconoscente per quel suo riassuntivo “Ama Dio e il prossimo come te stesso” e sarai salvo. Questo comandamento è per me una bussola che segue il nord e perciò, quando il cielo si fa scuro, tiro fuori la mia bussola, di facile lettura e, nonostante i dubbi, le mille incertezze e i diversi suggerimenti, mi affido alle parole che Dio ha fatto dire al suo Figlio: Per me l’amare Dio e il prossimo sono “verità chiare e distinte” che mi bastano e alle quali mi affido come ad un salvagente.

Al Don Vecchi vogliamo bisogna essere sognatori!

Sono sempre più convinto che il “don Vecchi” viva ancora nella cornice dell’utopia e temo quanto mai che ne esca.

Qualche giorno fa ha iniziato il suo inserimento per una collaborazione un giovane pensionato. La morte prematura della moglie, il pensionamento ad un’età relativamente giovane e, soprattutto, le sue radici culturali maturate nell’associazionismo di una comunità parrocchiale – oltre l’incontro con questo vecchio prete che va costantemente “alla pesca” di uomini per la solidarietà, l’hanno fortunatamente spinto a questa decisione.

Il passato lavorativo di questo signore è partito dalla laurea in scienze politiche, per portarlo alla funzione di amministratore delegato di un’azienda collegata ad una grande società petrolifera che opera in tutto il mondo. Io ci vivo dentro al “don Vecchi” e perciò mi sono abituato alle sue vicende, alla sua amministrazione assai leggera, concentrata su un “vecchio” ragioniere e su un vecchio prete imperdonabile sognatore, con qualche leggerissimo ausilio da parte di anime generose, ma impegnate in mille altre faccende.

Non avevo previsto l’impatto tra l’esperienza di un manager con l’avventura amministrativa e gestionale di uno staff minuto di creature che sognano un mondo nuovo. Di primo acchito ha compreso che tutte le mansioni previste in un’azienda di qualche consistenza poggiavano solamente su un paio di “avventurieri” (si fa per dire, con termine improprio). D’istinto gli venne da far osservare che bisognerebbe assumere almeno un direttore, un’assistente sociale, un geometra, un economo, un addetto alle relazioni pubbliche e probabilmente anche altro!

Dovetti ricordargli che al “don Vecchi” vivono anziani che con cinquecento euro di pensione debbono pagare l’affitto, luce, gas, medicine, tassa rifiuti, telefono, acqua calda, acqua fredda e spese condominiali, persone che hanno poi il vizio di vestirsi, lavarsi, mangiare e, talvolta, anche ammalarsi!

Credo che abbia capito! Al “don Vecchi” si assumono solo sognatori e gente che crede nell’utopia che anche gli anziani poveri hanno diritto alla vita.

Il mio insuccesso

I miei successi personali hanno fortunatamente come risvolto positivo il costringermi ad essere più tollerante e comprensivo nei riguardi degli sforzi che le singole comunità cristiane e la Chiesa italiana compiono per generare l’uomo nuovo.

Quando il fariseo Nicodemo – il quale avvertiva che Cristo aveva un messaggio valido per la vita, ma tentennava per incertezza e titubanza – si decise, ma solo di notte, ad andare a incontrare Gesù, questi gli disse che ha la vita se non chi nasce nuovamente.

Il discorso di Gesù lasciò perplesso questo povero galantuomo, tanto da spingerlo a fargli la domanda banale; come avrebbe potuto quest’uomo nuovo recuperare il processo fisico avvenuto con la nascita. La rinascita di cui parla Cristo consiste nel nuovo modo di vedere la vita, di interpretarla, di dare alle sue varie espressioni il valore che si rifà al Vangelo, non a quello della tradizione atavica, dell’opinione pubblica o dei mass media.

L’uomo nuovo è quello che accetta la profonda rivoluzione che fa subentrare all’individualismo l’altruismo, all’egoismo la solidarietà. L’uomo nuovo è quello che fa suo il Vangelo di Gesù predicato da Lui con la sua parola e con la vita.

Avevo sperato, con l’infinito ripetermi su questi concetti nei miei sermoni, e con la mia seppur povera testimonianza, d’aver pensato più agli altri che a me stesso; il fatto poi che a più di ottant’anni i miei coetanei mi vedano ancora impegnato per aiutarli, speravo avesse fatto breccia; speravo che questo modo di agire, diverso da quello corrente, avesse toccato le loro coscienze. Invece mi pare che li abbia scalfiti un poco, ma molto poco; ho l’impressione che pensino soprattutto a se stessi, ai loro vantaggi, al loro benessere, ai loro figli e alla loro famiglia. Di certo il “Don Vecchi” non è abitato da “uomini e da donne nuove”.

Stando così le cose bisogna che impari ad essere più cauto nel pretendere che gli altri riescano in quello in cui io ho fallito.

Il coraggio del nostro Patriarca

Io seguo, come sempre, da lontano le imprese del mio vescovo, ma per questo non è che non le segua e non mi senta coinvolto meno di quei miei confratelli che non possono sopravvivere se non sotto le sue sottane.

Non è che neanche al Patriarca tutte le ciambelle riescano col buco, ma sempre più spesso fa centro non solo nelle gare di “patronato”, ma anche nelle competizioni regionali, nazionali e perfino internazionali.

Ho l’impressione che tanto più alto è il livello delle persone che sono coinvolte nei suoi interventi, tanto meglio il nostro Patriarca riesce ad offrire contributi credibili e condivisibili.

Avevo letto con interesse ed attenzione l’apporto di pensiero che ha offerto recentemente alla Regione, poi qualche giorno dopo mi è capitato di vedere la registrazione dell’evento mandato in onda da Telechiara, l’emittente televisiva delle diocesi del Triveneto. Il Patriarca mi è apparso brillante, convincente ed originale nel proporre soluzioni avanzate ed innovative nei rapporti tra le diverse fazioni politiche che in questo momento si scontrano, si insultano con un linguaggio da portuali e da donne di strada.

Il discorso sulla “etica civile”, sui valori condivisibili, ho l’impressione che abbia fatto breccia sui costituenti la “carta fondamentale” del Veneto. Mi è rimasto però il timore che la Lega sia interessata ad un passaggio fra il paganesimo celtico iniziale e la cristianità e che il cosiddetto Popolo della libertà abbia più che mai bisogno del consenso di quello che è rimasto della Vandea d’Italia.

Sono grato al Patriarca per il suo coraggio, per la sua abilità e per la capacità di mettersi sulla lunghezza d’onda del mondo che conta!

Anche una “cena di lavoro” per coltivare l’utopia della Cittadella della Solidarietà

Il Patriarca, tra i suoi mille impegni nazionali e internazionali, ha perfino trovato il tempo per accorgersi dell’utopia di un suo vecchio prete in congedo, che sta sognando una Chiesa che si prenda di petto, ma alla grande, il problema dei cittadini stranieri ed italiani più in difficoltà.

La “Cittadella della solidarietà” dovrebbe diventare, almeno per il piccolo drappello che sta seminando questa bella avventura evangelica, una risposta globale alle attese diversificate dei poveri della nostra città.

L’utopia, come tutti sanno, non è ancora un progetto definito con piani attuativi o finanziamento acquisito, non rappresenta quindi una realtà della quale si stanno gettando le fondamenta, ma non è neppure una chimera o tanto meno una fata morgana, che qualcuno pensa di intravedere, ma che in realtà è solo una illusione ottica.

Il Patriarca, successore di uno dei pescatori di Galilea, ha giustamente deciso di ordinare al suo più diretto collaboratore: «Getta la rete in mare!» Il vescovo ausiliare l’ha gettata nella forma più moderna, organizzando una “cena di lavoro” a Villa Visinoni di Zelarino, invitando i principali operatori della solidarietà. La cosa è stata per un certo verso interessante, perché nei miei 81 anni di vita, non sapevo che cosa fosse una cena di lavoro. Ora l’ho finalmente capito: uno parla e gli altri mangiano! A parlare è stato Andrea, il mio vecchio lupetto e il mio portavoce per quella occasione: l’ha fatto brillantemente, mentre tutti gli altri stavano a mangiare.

Ho capito però quello che già sapevo: al massimo – ma non è neanche questo del tutto scontato – ci permetteranno di realizzare noi la “Cittadella della solidarietà”. Ho compreso inoltre che ci vorrà forse un altro secolo perché la Chiesa veneziana realizzi una sinergia di impegno superando gli individualismi così fortemente radicati.

Spero che prima o poi si realizzi la “cittadella”. Però per me sarà come per Mosè: la potrò solo sognare perché il mio tempo è quasi scaduto e non potrò metter piede nella Terra promessa!

Un proposito per il mio diario

Nota della redazione: come tutti, questo appunto di don Armando è stato scritto diverso tempo fa su un foglio di carta, prima della pubblicazione del “Diario 2009” che è in effetti già disponibile.

La mia “scoperta” di parlare alla gente mediante “il diario” è piuttosto datata. Sono più di trent’anni che ho compreso che mi è più congeniale trasmettere intuizioni, messaggi o critiche mediante lo strumento agile, non impegnativo del diario, piuttosto che mediante un “editoriale” o un “saggio” benché breve e senza pretese.

Constatando, in questi ultimi mesi, che il mio riflettere “ad alta voce” diventa sempre più prolisso, sono entrato in crisi.

Il mio tipografo, che sta curando la stampa del “Diario di un vecchio prete” del 2009, mi ha avvertito, preoccupato, che alle 300 pagine del diario 2008, si sono aggiunte, nell’edizione del 2009, altre trenta, quaranta pagine. Il signor Novello, che con pazienza certosina e perizia infinita sta stampando l’ultimo volume, non era preoccupato di certo per il fatto che le mie osservazioni sulla vita fossero diventate sempre più prolisse, ma solamente perché i mezzi tecnici ultra-artigianali della tipografia di cui disponiamo, faticano a sopportare un tale numero di pagine.

Io però mi sono messo in posizione di allerta e di autocritica per questo sforamento. Sono andato a rivedere il “diario” di trent’anni fa ed ho constatato che i “giorni” mai superavano le 10-15 righe; però c’era uno stile frizzante ed arguto, una concisione tale per cui ogni volta il messaggio era racchiuso come in un piccolo brillante che destava perlomeno curiosità.

Ho fatto perciò un proposito immediato e risoluto: voglio stringere per lasciare posto agli altri! E’ bene che i vecchi parlino meno, e sempre lo facciano con ponderatezza e sapienza. Non ritengo giusto non “dire la mia”, ognuno deve mettere la sua tessera, anche se è povera e grigia, nel mosaico della vita, ma solamente la tessera, quella che lui ha scoperto nel cuore della sua coscienza!

La ricchezza più grande che voglio condividere…

Adesso, che mi pare d’aver scoperto il volto più bello della vita e della natura, proprio adesso che mi pare d’aver imparato a guardare ogni uomo e ogni donna con gli occhi di un fratello e di un innamorato, mi pare che sia giunto il tempo di andarmene.

Talvolta avverto un senso di mestizia, di malinconia, quasi mi pare di essere arrivato troppo tardi a guardare con occhi nuovi, più saggi e più ricchi di meraviglia il mondo e gli uomini, e soprattutto urge, dentro di me, la preoccupazione e il desiderio di passare questa dolce scoperta a chi ha ancora molto tempo davanti a sé. Talora con la tristezza mi pare che, magari confusamente, compaia perfino la delusione e lo scoramento.

In questi giorni ho visto sul “Gazzettino” un articolo sulla laguna, sulle valli e sulle zone palustri nelle quali Hemingway amava andare a caccia, ed ho pensato alla fine tragica di questo stupendo narratore, che ha bevuto la vita a grandi sorsi, ubriacandosi di bellezza e di esperienze di ogni tipo; però senza controllo, senza misura e senza certezze.

Ho ripensato in questi giorni a quel capolavoro tragico di Hemingway “Il vecchio e il mare”: la lotta appassionata ed esaltante del vecchio pescatore che con sforzi inauditi riesce a catturare il pesce, lo lega alla barca per portarlo a riva, ma gli altri pesci se lo divorano e lui arriva alla spiaggia solamente con la lisca nuda. In questo lungo racconto c’è tutta la malinconica e disperata filosofia dell’autore di “Per chi suona la campana?” e di “Addio alle armi” sulla disfatta di Caporetto.

Anche se questa sensazione emotivamente talora mi turba, voglio giocarmi ciò che mi resta, fino all’ultimo respiro, sulla verità donataci da Cristo. Voglio calarmi nella veste del “curato di campagna” di Bernanos quando scrive: “Poco importa se vesto da beccamorto, io posseggo la gioia del vivere e del morire e ve la donerei per nulla se soltanto me la chiedeste!”

Voglio essere un annunciatore di speranza, la sentinella biblica che annuncia che “la notte” sta per finire e spunta già l’alba del nuovo giorno. Questa possibilità è la mia ricchezza più grande, della quale voglio rendere partecipi tutte le creature che incontrerò sulla mia strada!

La bellezza del Creato è sempre intorno a noi, non serve cercarla lontano!

All’inizio dell’autunno, quando ero in parrocchia, organizzavamo una gita pellegrinaggio di cinque-sei giorni con un minigruppo che io chiamavo pomposamente “opera parrocchiale pellegrinaggi”. Voglio illudermi che quelle gite-pellegrinaggio siano state veramente un’iniziativa pastorale quanto mai originale e positiva.

Quell’esperienza traduceva esattamente una visione di vita parrocchiale che, secondo me, deve interessarsi di tutto l’uomo, non solo di quello che in maniera fittizia e grossolana siamo soliti chiamare “lo spirituale”.

Le nostre uscite mescolavano in maniera disinvolta cultura, turismo, riflessione, buona tavola, preghiera ed amicizia. Partivamo in due, tre, perfino quattro pullman. Sceglievo un tema legato alla storia o alla cultura delle città che visitavamo; al mattino, in ogni corriera c’era chi leggeva la meditazione che avevo preparato, chi illustrava il territorio con la storia relativa, poi la messa in templi particolarmente significativi, con omelie appassionate e vibranti, pranzi in ristoranti tipici, visite guidate ai monumenti più insigni, rosario sul far della sera durante il ritorno.

Credo che le tante gite-pellegrinaggio alle quali ho partecipato, siano state dei veri “esercizi spirituali” moderni, piacevoli e quanto mai positivi ed efficaci, che sostituivano ritiri melanconici a cui la gente di Chiesa è solita partecipare.

Ricordo che in quelle occasioni mi piaceva moltissimo starmene quieto e solitario a guardare dal finestrino il susseguirsi di prati verdi, di filari rettilinei di vitigni, di boschi che iniziavano a colorirsi di marrone e di giallo, di paesetti le cui case si tenevano per mano, di campanili aggraziati sulla sommità delle colline, quasi sentinelle a protezione delle chiese e del paese. Ricordo soprattutto il cielo terso ed azzurro, il sole tiepido, l’aria frizzante e le ombre lunghe degli alberi sul verde cupo dei prati, la bellezza soave e tenera dell’autunno.

In queste settimane sono andato spesso con la fantasia a questi dolci ricordi, provando nostalgia di qualcosa che inizialmente pensavo di aver perduto per sempre, poi mi sono accorto che facendo quattro passi attorno al “don Vecchi” posso rivedere tutta la poesia dell’autunno, la bellezza della natura che si prepara per l’inverno, l’incanto dei verdi, del prato, dei filari di carpini, con le ombre lunghe che pare s’adagino sull’erba!

Quanta bellezza c’è ancora accanto a noi e purtroppo molta gente non s’accorge che in ogni stagione Dio sta sostituendo una bella scena con una ancora più bella!

Mi hanno donato una clessidra

Ogni mese viene in sagrestia, per chiedermi una messa di suffragio, un uomo rimasto solo dopo la morte della moglie, una cara donna ricca di calore umano e di sentimento, e l’uscita di casa dell’unica figlia che ha fatto una scelta di vita radicale per dedicarsi totalmente agli altri. Mi chiede il suffragio per la sua Franca ed ogni volta sottoscrive un’azione per il “don Vecchi” di Campalto.

Questo signore m’ha preso in benvolere dimostrandomi un affetto ed una ammirazione che mi fanno tanto piacere, anche se non credo di meritarmeli appieno. Già nel passato mi aveva fatto qualche regalo, quasi ad esprimere condivisione per i miei progetti e per il mio modo di fare il prete.

La settimana scorsa mi regalò una piccola clessidra dicendomi: «Lei, don Armando, vive una vita tanto intensa e frettolosa. Le regalo questa misura del tempo perché, durante la sua giornata, si ritagli qualche momento per uno stacco, per trovare serenità nella sua fatica.» Ci ho trovato gusto a rovesciare questo piccolo cilindro di vetro strozzato a metà per far scorrere il filo bianco di polvere che dall’alto scende in basso. L’ho messa sul mio tavolo da lavoro ed ogni tanto mi piace rovesciarla per vedere il tempo che scorre.

La mia clessidra ci mette due minuti esatti, pochi, ma sufficienti per una pausa di verifica, di ripensamento e per una riflessione o una preghiera. Questo dono m’ha fatto ritornare alla memoria una confidenza del cardinal Roncalli, il nostro vecchio Patriarca, che ci diceva che durante la sua giornata ogni tanto smetteva quello che stava facendo per entrare nella sua “cella interiore” per incontrare il Signore.

Due minuti son pochi, passano presto, però mi sono accorto che sono sufficienti per una preghiera, per un “colpetto al volante”, per mantenere il centro della strada. Spero di far presto l’abitudine a capovolgere la piccola clessidra per degli “stacchi” quanto mai utili, quasi un sussulto per svegliarsi, per prendere coscienza della vita che passa.

Una gemma fra le preghiere degli uomini di altre religioni

Monsignor Visentin è stato per molti anni vicedirettore del seminario, poi viceparroco a San Lorenzo, quindi parroco in viale San Marco, poi ancora vicario generale della diocesi ed infine riposa nel nostro cimitero, nel campo di fronte alla vecchia cappella. Per molti anni si occupò in maniera convinta e zelante dell’ecumenismo, un movimento che fino a pochi anni fa era molto di moda nella Chiesa. Ora, forse per i pochi risultati raggiunti nonostante infinite discussioni, si è un po’ appannato.

Io, in verità, non sono mai stato molto appassionato della cosa perché mi irritano le discussioni di lana caprina, perché penso che la globalizzazione finisca per risolvere il problema ed infine perché le discussioni sono su argomenti marginali alla fede, mentre io sono più che mai convinto che è la fede che conta, anche se un cristiano veste di rosso, uno di verde ed un altro di viola. Però anch’io, pur a mio modo, partecipo sostanzialmente al movimento ecumenico, da un lato avendo tolleranza e rispetto per le posizioni degli altri ma soprattutto tentando di assimilare quanto di buono, non solamente scopro tra i cristiani veri delle varie Chiese cristiane, ma anche delle religioni che non si rifanno a Cristo.

A mo’ d’esempio, del mio ecumenismo vorrei citare un pensiero del pastore protestante Dietrich Bauhoeffer, fatto impiccare pochi mesi prima della fine della guerra, da Hitler. Dice questo autentico uomo di Dio: «Non possiamo usare Dio come un tappabuchi, non dobbiamo abusare di Dio. Di fronte alla maestà, l’immensità di Dio che ha creato e governa l’universo, mi sembra una mancanza di rispetto, “disturbarlo” quasi, per delle cose troppo piccole e troppo banali che posso risolvere benissimo da solo. Non posso tentare di usare Dio come un servitore che risolva tutti i miei problemi, anche quelli tanto banali che posso e debbo risolvere io, perché il Signore m’ha dato i mezzi e mi ha insegnato come farlo.»

Il pensiero del pastore protestante mi serve quanto mai da filtro ogni volta che mi rivolgo a Dio: Da quando ho incontrato questo fratello di fede, la mia preghiera è diventata più essenziale e più degna.

Di Canti e di raccoglimento

La nuova chiesa del cimitero – l’ho ormai detto cento volte – è stata per me un dono del Cielo. Non avrei mai pensato che un prefabbricato, messo in piedi appena in un mese, senza progetti, senza architetti e senza alcunché di pregiato, sarebbe stato accolto con tanto entusiasmo da parte dei concittadini, fosse ammirato ed apprezzato come se avessero costruito per loro una cattedrale.

Il fatto che proprio tutti affermino che la nuova chiesa offre un’atmosfera di intimità, quasi accogliesse tutti col calore familiare di una baita di montagna e che si sentano bene tra le sue mura sottili e le sue finestre che s’aprono sulle tombe, mi pare un ulteriore miracolo.

Il fatto poi che i fedeli, da un anno, gremiscano ogni settimana la chiesa, occupino tutte le 220 sedie, stiano in piedi lungo le pareti e nel corridoio centrale e che perfino partecipino alla messa sul piccolo sagrato e sotto la prospiciente galleria di loculi, mi è parsa la terza grazia!

A tutto questo si aggiunge la soddisfazione di avvertire una partecipazione reale sia alla preghiera che ai canti sorretti dal piccolo coro di una quindicina di ultraottantenni, cosa che mi fa enormemente felice; sono pochi i preti che possono godere di una fortuna simile a questa! In molte chiese, purtroppo, c’è aria di stantio; qualche prete canta a squarciagola solitario e le assemblee, spesso sparute, sonnecchiano annoiate.

Da noi le cose vanno fortunatamente in maniera tanto diversa. Però, qualche giorno fa, mi è giunta una lettera di una signora che dice di non essere la sola a lagnarsi della mancanza di possibilità di raccoglimento e di non apprezzare, anzi di essere disturbata dai canti. Povero mondo!

Alla lettura di questa gentile, ma rigorosa critica, m’è venuta in mente la storiella del padre che va al mercato col figlio e con un asinello. Monta in groppa il padre e la gente: “Guarda quel vecchio in sella e il povero bambino a piedi!”. Scende il vecchio e monta il bambino: “Che gioventù, il vecchio a piedi e il ragazzo in groppa!”. Montano tutti e due: “Vergognosi, si approfittano di quel povero asino!” . Scendono tutti e due: “Guarda quegli allocchi, hanno un asino e non ne approfittano!”.

Sia ben chiaro! Io ascolto tutti, ma obbedisco solo alla mia coscienza, checché ne dica il mondo intero!

Al canto aggiungeremo, d’ora in poi, qualche minuto di silenzio!

Anche l’ateismo è di moda?

Non molto tempo fa ho confessato alla pagina bianca di questo mio diario, la triste sorpresa d’aver incontrato, nel lasso di tempo di una decina di giorni, due persone che con serenità, come fosse la cosa più scontata di questo mondo, mi hanno detto di essere atei.

Un giovane professionista e una donna di casa di mezza età mi hanno fatto questa “confidenza” in occasione di lutti che avevano colpito le loro famiglie.

Con loro ho discusso fraternamente sull’opportunità o meno, di compiere il rito religioso, che suppone la fede. Siamo arrivati, dopo un’amichevole e sincera conversazione, a concludere per motivi che mi parvero validi, di accogliere la loro richiesta e di celebrare il rito cristiano del congedo.

Credo di aver rispettato la posizione religiosa di chi m’aveva fatto la richiesta, ma altresì ho offerto con limpidezza il messaggio di Cristo in tutta la sua integrità e valenza umana.

Non è passata neppure una settimana che una ragazza m’ha fatto la medesima richiesta e, con naturalezza e candore, mi ha dichiarato il suo ateismo. In quest’ultimo incontro ho avuto modo di approfondire questa grave posizione nei riguardi della fede.

Supponevo ci fosse sotto uno scontro con un prete, una delusione da parte della parrocchia, l’incontro con un insegnante a scuola, un libro? Niente di tutto questo. Niente di niente. Non un ragionamento, non una motivazione; solamente un’affermazione irresponsabile che poggiava sul nulla.

Mi viene il terribile sospetto che oggi sia diventato di moda dichiararsi atei. Una dichiarazione fatua e banale come chi si veste in maniera stravagante, scomoda ed antiestetica, al quale domandi il perché di questa scelta e questi ti risponde con candore stupido e irresponsabile: «E’ di moda!»