“E’ la moda!”

Qualche giorno fa sulla scala mobile che porta al primo piano dell’Ospedale dell’Angelo ho visto, un paio di gradini avanti a me, un giovanotto sui venticinque-trent’anni, con un paio di blue jeans sdruciti e scoloriti sulle ginocchia e sul didietro, tanto che pensai che fosse un barbone o un drogato. Sceso dalla scala mi accorsi che aveva invece un volto ben curato e per nulla sfatto ma, riguardando i pantaloni, mi accorsi che, oltre ad essere in mal arnese, avevano pure un vistoso “sbrego” vicino all’inguine, tanto che si vedeva la carne. La cosa mi sorprese, ma poi ho pensato che a questo mondo ci sono tante persone eccentriche e stravaganti.

Sennonché, un paio di giorni dopo, incontrai nel piazzale del cimitero una bella ragazza bionda, neanche ventenne, e m’accorsi, con estremo stupore che anche lei indossava dei “jeans scanchenici” e sbrindellati, pure essi con un vistoso sbrego tutto sfrangiato sul davanti e nella parte alta dei pantaloni. Suor Teresa, a cui manifestai tale sorpresa, mi rispose laconica e tranquilla: «E’ la moda!»

Ho sempre pensato che la moda sia la cosa più cretina a cui certi giovani e molte donne si assoggettano passivamente come fosse un comandamento. Non mi si facciano discorsi di estetica, di comodità, di risparmio o altro, perché, senza dubbio di sorta, ritengo che seguire le indicazioni del mercato, degli stilisti o di chi so altro, sia la cosa più stupida e più banale che una persona possa fare.

La moda è invece una trovata intelligente, ma truffaldina, di chi specula sulla incapacità di usare la ragione e il buon senso da parte di troppa gente.

Tutto questo mi stupisce, però poi penso che la mode del vestire non siano male sociale più grave, perché purtroppo al mondo ci sono anche mode più stupide ed assai più pericolose: la droga, il vino, lo sballo, le notti brave, il servilismo, la prepotenza, il tentativo di distruggere le fabbriche, la prostituzione, lo sfascio delle famiglie e, purtroppo, tanto altro ancora!

Un rischio per Comunione e Liberazione

Ancora una volta il Meeting di primo autunno di Comunione e Liberazione a Rimini mi ha favorevolmente sorpreso. La milanese Comunione e Liberazione, come la Comunità romana di Sant’Egidio, non solo sanno imporsi all’attenzione del nostro Paese, ma lambiscono perfino l’Europa.

Anche il movimento neocatacumenale e quello del Rinnovamento dello Spirito, come quello dei Focolari, riescono a reclutare fiumi di giovani e di adulti nei loro tradizionali incontri, ma questi hanno un respiro più intimistico e non parlano sulla lunghezza d’onda della cultura e dell’opinione pubblica, mentre i due primi coinvolgono la società civile e riescono ad inserire in essa, anche se sempre piuttosto laica, il lievito cristiano.

Ho seguito quest’anno Rimini un po’ da lontano, un po’ perché le tematiche trattate volano alto ed un po’ perché un episodio spiacevole con un membro di questo movimento m’ha reso un tantino sospettoso e refrattario.

Comunione e Liberazione oggi rappresenta una “potenza” a livello culturale, politico e pure economico; essa viaggia con dei leaders di molta consistenza sia nei partiti che nel mondo finanziario.

Comunione e Liberazione è ormai diventata una holding che ha imprese e addentellati in tutti i settori della vita del nostro Paese. Questo dato, lo confesso, mi preoccupa un po’; quest’anno a Rimini c’erano ancora tanti giovani e tanti volontari, ma c’era anche presente, forte e visibile, un’organizzazione con il supporto finanziario pur consistente.

Il denaro è un pericolo per la Chiesa come per tutti i movimenti che si rifanno ad essa. Il denaro ha rovinato lo sport, ha massacrato la politica, ha impoverito la cultura ed ora temo che, almeno in parte, sciupi e tolga genuinità e freschezza evangelica anche a questi movimenti emergenti nella Chiesa italiana.

Quando ho osservato le tavole rotonde, le impalcature organizzative, i nuovi protagonisti di Rimini, ho avuto la sensazione che mal si coniugassero con la splendida persona di educatore e fondatore, don Giussani. Spero di sbagliarmi, perché, se ciò fosse, sarebbe di certo l’inizio del declino.

Una celebrazione quotidiana di carità e nell’altruismo

Ogni giorno, verso le sedici, faccio una capatina nell’interrato del “don Vecchi” perché, dalle 15 alle 18 il “don Vecchi” di sotto ha il volto di una casba araba pulsante come il centro commerciale di una metropoli internazionale.

Il “giro” che compio è soprattutto teso a gratificare il centinaio di volontari che per cinque giorni la settimana dedicano pressoché l’intero pomeriggio al “servizio della causa”! Però la visita quotidiana rappresenta anche per me la celebrazione eucaristica vespertina. Il corpo di Cristo si muove e vive per cinque giorni alla settimana nei grandi magazzini del “don Vecchi”.

La celebrazione del corpo del Signore non si esaurisce in una lode tra pochi fedeli di una “messa” privata, ma al don Vecchi si celebra ogni giorno un pontificale maestoso, solenne ed affollato.

Proprio qualche giorno fa, in una lettura del breviario, ho letto una meditazione di san Giovanni Crisostomo (Crisostomo significa bocca-voce d’oro) che pensa esattamente come me, o meglio sono stato felicissimo di riscontrare che le mie convinzioni sono uguali a questo grande padre della Chiesa.

Crisostomo afferma con chiarezza assoluta di termini che il Signore si venera non tanto con le pietre preziose di un tempio o nella sfarzosità dei riti, ma nell’amore e nel servizio ai poveri, che rappresentano e sono il corpo reale del Signore.

Confesso che nelle due settimane di agosto, quando i magazzini sono rimasti chiusi, mi è sembrato che il don Vecchi fosse diventato un monumento ai caduti e non quella cittadella della solidarietà nella quale i cittadini del mondo possono incontrare il volto più reale e più bello della Chiesa e del messaggio di Gesù.

Dopo l’estate la vita è ripresa quasi per incanto e le brezze autunnali hanno determinato veramente il tutto pieno.

Mi fa felice e mi esalta l’andirivieni frettoloso di questo mercato atipico, ma vivace e ricco di altruismo. Talvolta mi capita di domandarmi come tante comunità parrocchiali pare non abbiano capito che la solidarietà è il sangue vivo che scorre nelle vene della Chiesa e che un corpo senza sangue è morto?

La Pina è tornata alla casa del Padre

Nota della redazione: come tutti, questo appunto di don Armando è stato scritto diverso tempo fa su un foglio di carta. Man mano che i suoi pensieri vengono trascritti al computer li riportiamo in questo suo blog.

Suor Teresa m’ha riferito che pochi minuti fa è morta la Pina. La Pina è una signora più che novantenne che abitava sulla mia “strada”, pochi numeri più in là della mia dimora al “don Vecchi”.

Proprio sabato scorso, durante la messa vespertina, avevo buttato un occhio sulla fila di destra, vicino alla colonna ove era solita mettersi, e avevo notato la sua sedia vuota, ricordandomi che circa una settimana fa l’avevano trovata in terra ai piedi del letto. Probabilmente aveva passato la notte sul pavimento.

La Pina era una vecchina minuta, un grumetto di carne rattrappita, ma dentro c’era ancora un’anima arguta, una volontà di ferro; mi dicono che era stanca e che si sentiva vicina alla fine, però non rinunciava a fare la sua passeggiatina e ad intrattenere figlie, nipoti e generi.

Qualche tempo fa, probabilmente stanca ed affaticata, nonostante fosse una delle residenti più visitate dai parenti, con un guizzo di volontà, volle che la portassero in casa di riposo. Forse aveva nel suo vecchio cuore l’illusione che la casa di riposo fosse un’oasi fresca e felice. Ci rimase un paio di giorni, inorridita dal costo e dal trattamento, ordinando – perché non aveva mai rinunciato al comando – : «Riportatemi a casa mia al don Vecchi». Ci ritornò per morire nel luogo ove era vissuta felice ed amata gli ultimi anni della sua lunga vita.

Ricordo, un paio di anni fa, quando era ancora completamente autonoma, quando mi raccontava della sua casa nel sestiere di Castello. «Mi cadevano i travi addosso, pioveva dentro, temevo che un giorno o l’altro sarei rimasta seppellita sotto le macerie!»

Al “don Vecchi” aveva trovato serenità e vita nuova. Le finestre del suo appartamento, sempre ordinato e pulito, davano sul grande prato verde con, davanti, il lungo filare di oleandri e, più in là, quello di carpini maestosi. Mi disse che si sentiva felice e che era in Paradiso prima del tempo.

Il crollo è stato rapido, pareva che sarebbe tornata fra qualche giorno dall’ospedale, invece la morte la prese dolcemente per mano mentre sognava di tornare. Ma qualche giorno prima di morire, con quella decisione e quella autonomia alle quali non aveva mai rinunciato, mi diede 50 euro per un’azione per il “don Vecchi” di Campalto. Le ricevetti come fossero i due milioni di euro che mi mancano, perché mi han fatto capire ch’era giusto giocarmi ancora una volta per il bene dei nostri vecchi.

La mia vita nei tempi supplementari…

Molte mattine mi sveglio molto prima delle fatidiche 5,30 quando suona la sveglia. Talvolta mancano 10 minuti, qualche altra volta una o due ore. Normalmente evito di premere il tasto che illumina il quadrante della sveglia, sperando o illudendomi che la notte non sia tutta passata e nella speranza d’avere ancora tempo da dormire.

Fino a qualche tempo fa davo uno sguardo alle tapparelle per vedere se filtrava un po’ di luce, ora è sempre tutto buio. Questo giochetto mattutino, condotto tra me e me, lo faccio più lucidamente di giorno. Passati gli ottant’anni si è sempre e comunque vicini al “giorno nuovo”, talvolta tento di assaporare il tempo che mi manca, vivendo intensamente e godendo di ogni minuto e di ogni cosa, talvolta mi sento preoccupato perché da tanti segni mi vien da pensare che suoni il campanello per “il passaggio”.

E’ un po’ particolare la vita nei tempi supplementari. Da alcuni anni so che la partita è praticamente finita e che sto vivendo il tempo breve dei recuperi. Al “don Vecchi” mi è abbastanza facile incontrare i novantenni, ma sono molto pochi e quasi sempre mal ridotti. Ora sto centellinando i giorni, talvolta perfino le ore, e mi pare bello anche quello che un tempo mi sembrava banale. Soprattutto avverto sempre urgenza di concludere quello che sto facendo, pur essendo certo che la vita mi tenta facendomi sognare e prospettandomi altre cose belle ed interessanti e facendomi rammaricare di non averci pensato prima, di non aver posto in atto, quando avevo tempo, imprese che ora ho perfino paura ad iniziare, perché temo di non poter portare a termine o di dover lasciare come un onere pesante sulle spalle degli altri.

Spesso mi capita di pensare come un sogno splendido ma impossibile la “cittadella della solidarietà”. Ora poi, che perfino il Patriarca mi ha scritto che è interessato al progetto, mi spiace quanto mai sapere che comunque rimarrà per me una visione lontana, e guardo al progetto come Mosè alla Terra promessa.

“Il giornale dell’anima” di Papa Giovanni XXIII

Rovistando in un piccolo magazzino in cui, partendo dalla mia vecchia ed immensa canonica, ho stipato alcune cose che pensavo mi fossero necessarie, vi ho scoperto un volume che credevo di non possedere più.

Una ventina di anni fa – o forse trenta – m’era stato regalato un voluminoso libro “Il giornale dell’anima”, nel quale monsignor Capovilla, il segretario personale, prima, del nostro vecchio Patriarca, il cardinale Roncalli, e poi, di Papa Giovanni XXIII, ha raccolto con pazienza certosina e catalogato in maniera ordinatissima, le annotazioni che questo grande uomo di Dio e della Chiesa era solito fare ogni giorno.

Ricordo personalmente che anche a noi giovani preti era solito dire, quando ci incontrava per qualche raduno ecclesiale: «Nulla dies sine linea”, che tradotto significava qualche riga ogni giorno su ciò che ti capita, su quello che di buono incontrate o che il vostro spirito vi suggerisce.

Avevo letto d’un fiato il volume, così vivo e palpitante per me che ero stato fatto prete da lui e che per alcuni anni avevo beneficiato della sua saggezza e della sua santità.

Il volume m’era particolarmente caro se non altro perché, almeno in due passaggi, il nostro Patriarca faceva cenno a questo suo chierico prima e giovane prete poi, in maniera cara e positiva.

Ho prestato a qualcuno il volume e, come quasi sempre avviene, non m’è tornato. Tuttavia, avendo pensato che ormai non si trovasse più nelle librerie, mi sono lamentato in una qualche occasione di questa perdita. Una ragazza, che aveva sentito la mia amarezza, dopo pochi giorni, con grande mia sorpresa e gioia, mi regalò una copia dello stesso volume che era stato ristampato.

Ora finalmente l’ho riscoperto e non vi posso dire l’ebbrezza di assaporare tanta sapienza e tanta santità.

Sempre ho nutrito grande venerazione per il Papa buono, ora però lo riscopro ricchissimo di una cultura spirituale, conoscitore profondo degli uomini, umile ed arguto, lucido nel leggere i segni dei tempi. In questi giorni ho perfino la sensazione che la “sapienza e la santità” che la gran parte della gente ritiene ormai valori stantii, vecchi ed uggiosi, siano invece delle realtà splendide e meravigliose!

Due tesori di questo 2010

Un tempo, quando facevo il parroco e mi avvalevo del settimanale “Lettera aperta” per comunicare con i miei parrocchiani, curavo una rubrica che avevo intitolato, in maniera un po’ romantica e sentimentale “I fioretti del 2000”. Questo sull’abbrivio del poverello di Assisi, ma con la differenza che lui era un poeta e un santo, mentre io ero e rimango un povero diavolo; cercavo e pubblicavo tutti quei gesti belli e luminosi che scoprivo qua e là durante la settimana.

La cosa andò avanti per parecchi anni e mi pare fosse accolta con piacere, non so però se facesse anche del bene, e convincesse il prossimo che nella nostra società non tutto è deludente, sporco o, perlomeno, fatuo.

Ora faccio fatica a vedermi col cesto di vimini in braccio a raccogliere, seppur metaforicamente, i fiorellini sul prato della vita. Rimango però sempre voglioso e in ricerca di qualcosa di più consistente, che mi rassicuri che proprio tutto non è perduto e che il mondo reale non è così inconsistente e tragico come ce lo presenta la stampa e la televisione.

Questa settimana ho fatto due begli incontri che mi han fatto veramente del bene. Ho ricevuto la confidenza di un giovane manager che ha lasciato una brillante e lucrosa carriera per accompagnare lungo il percorso di sei anni la sua adorata sposa al “gran passaggio”, poi ha diviso le sue risorse destinandole metà all’unica figlia e metà all’Avapo che aveva curato con amore sua moglie e infine ha deciso di spendere d’ora in poi il suo tempo e la sua professionalità per gli anziani poveri della nostra città.

Il secondo incontro l’ho fatto in preparazione al commiato cristiano di un’anziana signora nostra concittadina. Questa creatura, assistita e sorretta da una sua cugina, che l’ha aiutata a portare a termine il suo progetto, ha lasciato tutto il suo patrimonio in eredità alla stessa associazione Avapo che si avvale di alcuni professionisti e di una novantina di volontari per accompagnare gli ultimi giorni gli ammalati terminali di tumore. Se in questo 2010 non facessi altre scoperte del genere – ma son certo che non sarà così – avrei già scoperto due “tesori”!

I perché de L’Incontro

Qualche giorno fa ho ricevuto una lettera intelligente e buona di un lettore che, tra qualche complimento generoso, mi ha precisato che alcune affermazioni che io avevo dato per scontate, non corrispondevano a verità. Se fossero state osservazioni di una critica amara avrei reagito polemicamente, almeno dentro di me; esse però erano benevole e gentili.

Tutto questo mi ha fatto riflettere sull’avventura entusiasmante, ma allo stesso tempo faticosa e impegnativa, quasi temeraria, de “L’incontro”.

Tante volte nei meandri della mia coscienza irrequieta e sempre esigente, m’era affiorato il dubbio di essermi avventurato in un’impresa più grande di me, per la quale sarebbe stato necessario un solido retroterra culturale, una lettura intelligente degli eventi e poi una correttezza di discorso che sono convinto di non possedere.

Talvolta mi sono autodifeso convincendomi che il periodico era stato dato alla luce al momento della pensione e lo pensavo come l’unico modo per uscire da un improvviso e totale isolamento. Il periodico m’è parso allora l’unica tavola di salvataggio che mi capitasse sottomano per non affogare e per salvarmi.

Però ora sono passati cinque anni e la mia situazione psicologica ed umana è notevolmente cambiata. La lettera onesta e corretta di un lettore sconosciuto ha riproposto, nitida e precisa alla mia coscienza, la domanda: “perché?”

La vecchia risposta non tiene più. E allora?

In questi giorni di riflessione mi è affiorata dalla coscienza una bozza di giustificazione che, ridotta all’osso, può essere condensata in queste due affermazioni.
1)Ritengo doveroso, almeno per quel che posso e mi riguarda, tentare di liberare il messaggio cristiano, diventato religione strutturata da tante incrostazioni della tradizione che l’hanno sclerotizzato e ridotto a rito, togliendogli gran parte di quella forza originale che illuminava e dava senso alla vita; privandolo, in una parola, di quella che era e dovrebbe essere la vera forza di rigenerare il vecchio uomo.
2)Non riesco più a sopportare una società individualista, egoista; mi pare che essa porti alla morte per suicidio e perciò credo di dover spendere tutte le mie forze residue per promuovere la solidarietà.

Sono conscio che queste sono utopie, però non si può vivere per niente, anche se fossi un illuso ed inadeguato a questo progetto.

Dialoghi

Recentemente, in una sola settimana, ho fatto tre incontri che mi hanno costretto a verificare le vecchie scelte che ho fatto nella mia vita e su comportamenti e problematiche di scottante attualità sul nostro mondo. Come sempre, un addetto alle pompe funebri mi chiese di fissare un funerale per un certo giorno e, come sempre, ho cercato un contatto con la famiglia del defunto. Anzi, il contatto lo abbiamo cercato sia l’uno che l’altra.

Mi s’era chiesta una semplice benedizione. Chiesi il perché. Il figlio, pur senza spavalderia e con grande rispetto, si dichiarò assolutamente ateo. La moglie del defunto era in una posizione meno definitiva e, soprattutto, era in una posizione di ribellione: «Se c’è un Dio, così non avrebbe dovuto fare!»

Parlammo pacatamente per alquanto tempo, arrivando alla conclusione concreta di fare “il funerale”. Io non sono mai per rompere, memore del monito di Gesù “Non spegnere il lucignolo fumigante e non rompere la canna già flessa!” Ho tentato di intervenire da uomo e da sacerdote dando voce alla sofferenza e all’amore dei famigliari e alla mia fede. Credo che sia loro che io non abbiamo barato e, pur rispettosi l’uno dell’altro, abbiamo trovato un punto di comunione che credo faccia bene ad una parte e all’altra.

Dopo pochi giorni una figlia mi si è presentata nelle stesse condizioni. Le era morto il padre, credente si e no, mentre lei si dichiarava apertamente e certamente non credente. Altro colloquio pacato, rispettoso, disponibile, aperto non solo al confronto, ma anche alla possibilità di rivedere le nostre posizioni e di farci disponibili alla scoperta di ulteriori e diverse risposte. Ho avuto una bella impressione di questa donna del popolo, che aveva fatto lucidamente una scelta così estrema, ma che manteneva apertura di cuore, riconosceva la fede-carità e che, tutto sommato, era disponibile a fare dei passi in avanti su questa strada.

In ambedue i casi ho avuto la sensazione di essermi incontrato in creature che, a dire di sant’Agostino “Dio possiede, ma la Chiesa non possiede!”.

Questi sono sintomi che con il rifiuto di una religiosità formale, fenomeno diffuso ed incombente, stia aprendosi una crepa sulla riva della fede, che possa creare rotture e devastazione nel popolo cristiano. Senza alcuna presunzione, sono stato contento che in ambedue i casi si siano rivolti ad un prete con tanti dubbi ed incertezze, ma soprattutto che sogna un cristianesimo dal volto umano.

E’ ora che decidiamo se per noi la vita è un dono di Dio o un castigo!

Qualche domenica fa il mio sermone s’è incentrato sulla pagina del Vangelo in cui Gesù fa il noto discorso usando le due immagini: “Quando tu sei invitato al banchetto di nozze non metterti al primo posto, perché ….” e “Quando tu offri un banchetto, non invitare i ricchi e i fortunati, ma ricordati anche di tutti quei poveri diavoli che vivono ai margini del benessere”.

Ambedue i temi, sui quali avevo riflettuto durante la settimana, mi affascinavano, pur ricordandomi del proposito, fatto parecchie volte, di non superare gli otto-dieci minuti. Preoccupato di questo fatto, quando mi parve di aver messo a fuoco la parte dell’invitato, mi venne da iniziare quella dell’invitante, ed allora, pur non avendo misurato il tempo, capii che la ricchezza e l’importanza del primo tema m’aveva così preso, che molto probabilmente arrischiavo di sforare il tempo prefissomi e comunque di mortificare il secondo argomento così urgente ed importante per la vita cristiana del nostro tempo.

Accennai solamente al fatto che tutti avevamo contratto un debito con questa immagine evangelica, ma che l’avremmo pagato molto volentieri alla prima occasione in cui ne avessimo avuto l’opportunità.

Mi ha affascinato e turbato come non mai il fatto che Gesù presenta la vita come un invito a nozze. Per Cristo la vita è una cosa bella, è un dono prezioso, è un tempo da vivere felicemente, comunque e per tutti, sia che abbiamo l’opportunità di sedere ai primi posti, sia che le circostanze ci collochino tra gli ultimi.

Mentre parlavo della vita che va vissuta come una bella avventura, come un gioco quanto mai interessante, mi pareva di camminare su una strada contrassegnata da un lato da una sferzata amara dell’ateo Andrée Gide: “Come pretendete d’essere testimoni del Risorto, voi che camminate sempre sul ciglio, immusoniti e malinconici!” e dall’altro lato dall’offerta del prete del romanzo di Bernanos – Il curato di campagna – che dice: “Cosa mi importa se vesto da beccamorto, io posseggo la gioia e ve la darei volentieri, se soltanto me la chiedeste!”

Conclusi: «E’ ora che decidiamo se la vita per noi è un dono di Dio o un castigo! Possiamo essere discepoli del Risorto solamente se, nonostante tutto, viviamo da creature felici della vita!»

La mia seconda inattesa giovinezza sacerdotale!

Sto vivendo una nuova giovinezza sacerdotale nella comunità che di domenica in domenica si sta formando attorno al piccolo altare di legno della mia nuova chiesa, che per tutti ha il profumo e dona l’atmosfera di una baita di montagna.

Auguro a tutti i preti di avere una chiesa appena costruita, che è ormai troppo piccola per contenere i fedeli che alla domenica si ritrovano per ascoltare il messaggio di Gesù e per incontrarsi col Signore. Solamente quasi mezzo secolo fa quando, pretino imberbe, facevo il cappellano nella chiesa di San Lorenzo in piazza Ferretto, la gente gremiva il tempio tanto intensamente. Ricordo che alla messa delle undici, celebrata da monsignor Da Villa, il prete che per certi versi sembrava un tribuno che arringasse il popolo a fidarsi del Signore, la chiesa era così piena che quando all’offertorio partivamo in quattro per raccogliere le offerte, arrivati in fondo alla chiesa non riuscivamo più a tornare indietro e quindi uscivamo a fatica per la porta d’ingresso e tornavamo in sagrestia passando per piazza Ferretto e il vicolo della canonica. Come ricordo, con uguale ebbrezza, quando iniziarono “le messe bit” – come si diceva allora. La chiesa era ancora piena come un uovo di giovani alla messa delle dodici.

La mia giovinezza di prete è stata veramente bella e fortunata! Non è stata meno bella la mia vita da parroco, quando la chiesa si riempiva e si svuotava per ben sette volte ogni festa, perché tante erano le messe. Ricordo ai tempi di don Adriano e di don Gino la “messa del fanciullo” delle nove del mattino, quando eravamo costretti a spingere a forza gli adulti verso il fondo della chiesa per far posto ai ragazzi che cantavano, battevano le mani, quasi toccati da una nuova Pentecoste dello Spirito.

Ma mai avrei immaginato che queste esperienze, affascinanti per un prete,avrei potuto ritrovarle oggi, nel 2010, nella nuova chiesa prefabbricata in cimitero. A meno di un anno di distanza dalla sua inaugurazione, i fedeli non stanno più in chiesa, tanto che ho dovuto trovare sedie da collocare sul sagrato per chi deve rimanere fuori. Ogni domenica mi vien da ripetere con convinzione e commozione: «Signore, non son degno che entri sotto il mio tetto!»

Bossoli e candele

Nei ricordi della mia infanzia il mese di settembre era contrassegnato come “il mese dei traslochi”. Per san Martino, l’11 di novembre, quando i raccolti erano terminati, molte famiglie cambiavano di casa o di podere per i motivi più diversi. Era tempo triste. La gente caricava su un carro le poche e povere masserizie, abbandonava la terra lavorata con tanta fatica, per andare ad abitare in altre case, a lavorare in altri poderi sconosciuti. Quello di novembre era il mese di rimpianti, di sensazione di perdere un po’ del passato per affrontare situazioni comunque ignote e preoccupanti.

Mi viene da pensare che gran tempo dell’estate ormai trascorsa, il nostro Patriarca, assieme a qualche collaboratore tra i più vicini, l’abbia passato pensoso e preoccupato davanti alla grande scacchiera della diocesi, composta da 128 quadratini bianchi e neri a seconda della vitalità o dell’inerzia delle 128 parrocchie.

Il cardinale Urbani, che governò la nostra Chiesa in tempi difficili, adoperando un’immagine da sagrestia, diceva che era sempre in difficoltà perché aveva i bossoli, ma le candele non erano mai della misura giusta. Vincere questa partita a scacchi credo che sia quanto mai difficile, se non impossibile

I preti d’oggi non sono più, come si diceva una volta, dei soldati obbedienti che vanno dove comanda il capo. Le comunità non accolgono più, come un tempo, qualsiasi prete come l’inviato della Divina Provvidenza. L’incontro tra i “bossoli” e le “candele” è ormai quasi impossibile.

I preti sono pochi, molti preti veneziani sono vecchi, le parrocchie stanche e in abbandono avrebbero bisogno di pastori intraprendenti. I migliori preti dovrebbero quindi lasciare comunità ben avviate, efficienti, soprattutto conosciute, per recuperarne altre alla deriva.

Quante volte nel passato mi sono chiesto come farà il mio successore a conoscere persone tanto diverse con problematiche religiose così complesse.

Un giorno il sagrestano suonava la campana e il prete aspettava i parrocchiani in chiesa, non importava chi ci fosse dentro la lunga tonaca nera, in quel tempo era comunque il parroco, il pastore. Ora le cose non stanno più così: ogni anima è una conquista, le attese sono molteplici, una più complessa dell’altra.

Negli ultimi due mesi spesso sono passati davanti ai miei occhi quelli che ora se ne stanno andando, perdendo un patrimonio, acquisito faticosamente, di conoscenze, e quelli che stanno arrivando, con compiti impossibili. Ora non è più tempo di strategie o di progetti, ora può vincere solo la Grazia di Dio!

Gli ultimi bellissimi interventi del Patriarca Scola

Gli interventi del nostro Patriarca sono sempre di spessore, ricchi di contenuto, ma soprattutto costruttivi e tesi a guardare positivamente al domani con proposte mai banali, partigiane e moralistiche. Talvolta mi sono lagnato perché mi sembrava che il livello degli interventi del nostro vescovo fossero poco comprensibili per la gente comune, pur capendo che chi proviene dalle aule universitarie si è abituato ad un linguaggio tecnico, ad un modo di parlare con dei passaggi di pensiero veloci che presuppongono conoscenze vaste e che danno per scontata una certa cultura.

Tutto questo mi aveva fatto concludere che mentre nella conversazione il nostro Cardinale era caldo, immediato, convincente, nelle omelie mi pareva che passasse frequentemente sopra i capelli, non facendo centro sul cuore e sulla testa dei fedeli.

A tale proposito, tempo fa ho letto, con sorpresa, un intervento su un bollettino parrocchiale di un giovane prete che scriveva che i giovani ai quali il Patriarca si era rivolto, in una particolare circostanza, avevano capito si e no il trenta o quaranta per cento del discorso. Pochino in verità!

Mi pare che tutto questo sia ormai superato. Evidentemente l’incontro frequente con la gente delle parrocchie ha facilitato il nostro vescovo a mettersi nella lunghezza d’onda del nostro popolo. Quello che però mi ha fatto enorme piacere sono certi interventi di quest’ultimo tempo, ancora più puntuali, incisivi e propositivi delle lezioni magistrali che il Patriarca è solito tenere in occasione del Redentore.

Ho trovato quanto mai interessante l’intervista rilasciata dal nostro Cardinale, durante il Meeting di Rimini, al giornalista Paolo Viana sul dovere di “Risvegliare la nostalgia di Dio” nella situazione storico-esistenziale del nostro Paese. Non un discorso campato in aria, o puramente teorico, ma inserito nelle problematiche di palpitante attualità. Come m’è quanto mai piaciuta la presa di posizione anticonformista nei riguardi di “Famiglia Cristiana” che, da qualche tempo, pretende di diventare l’apologeta ufficiale di sinistra del cattolicesimo italiano.

Talvolta pare che i vescovi si guardino bene dal dire parole fuori dal coro, soprattutto per quanto riguarda tesi portate avanti dai cattolici della sinistra. Il Patriarca ha giustamente preso posizione, pur sapendo che la stampa cattolica che si ritiene d’avanguardia, s’accoda a quella laica.

Questi interventi mi fanno felice perché da sempre sogno un vescovo libero che abbia il coraggio, in nome di Cristo, di sporcarsi le mani sulle vicende non sempre nobili degli uomini, perché convinto che il messaggio cristiano è per l’uomo storico e non per quello da manuale.

Chiedo allo Stato un po’ di serietà!

La radio l’ascolto dalle 5.30 alle 6.30 del mattino. Riesco a cogliere dal giornale radio le notizie della notte, prima delle 6, e quelle del giorno, dopo le 6, una rassegna dei titoli della stampa, qualche canzonetta e qualche brano musicale che mi irritano alquanto, e poi la rubrichetta “Jupiter e le sue stelle”, l’oroscopo della giornata.

La radio deve intrattenere per 24 ore e in 24 ore le chiacchiere sono pressoché infinite e tra le maglie delle chiacchiere passano un’infinità di banalità. Io conosco la radio, nell’ora che le dedico all’ascolto, certamente non in maniera esclusiva, perché contemporaneamente mi lavo, mi vesto, rifaccio il letto e intanto scorrono appunto le banalità di quell’ora in cui brilla sovrano “Jupiter e le sue stelle” che termina con l’augurio in linea con l’oroscopo: “Buona energia!”

Chi non è mattiniero non perde granché non potendo ascoltare questa rubrichetta, che per fortuna è molto breve, ma che “qualifica” la Rai. I soloni stigmatizzano la nostra società fatua, priva di valori, però quasi mai esigono dallo Stato, non dico delle scelte d’origine morale o confessionale, ma una proposta di vita sana, costruttiva e ricca di valori. E’ vero che una certa frangia della nostra società è feticista, ha il culto morboso dell’esotico e del magico e perciò certe rubriche fanno audience; questa logica però lasciamola semmai a Berlusconi e le sue reti televisive che devono far business. Lo Stato invece deve educare, laicamente, nel senso più ricco di una sana laicità che perlomeno abbia come punto di riferimento la costituzione.

Non credo che come credente e cristiano domandi troppo e la mia richiesta possa essere considerata confessionale. Tutti pare siano preoccupati che le nuove generazioni siano educate ad un senso civico, alla solidarietà, al rispetto delle leggi, però se continuiamo a scegliere uomini di governo che da un punto di vista morale fanno acqua da tutte le parti, se permettiamo che la magistratura perda di giorno in giorno sempre più credibilità, se poi usiamo i principali strumenti pubblici di educazione civica, quali sono la televisione e la radio di Stato per stupidaggini del genere, come possiamo aspettarci generazioni sane e costruttive?

Il vecchio proverbio saggiamente predicava “chi semina vento raccoglie tempesta”. Ora poi non so che cosa possiamo aspettarci se anche chi tiene la barra della nave semina banalità e sciocchezze quali “Jupiter e le sue stelle”.

I campi ROM, un problema da affrontare evitando sia razzismo sia buonismo

Io sono l’uomo dei tormentoni! Non riesco e poi non voglio rimanere alla finestra ad osservare, come uno spettatore annoiato e distratto, gli eventi che interessano la nostra società.

Le questioni che suscitano oggi il mio interesse sono molte. Ne scelgo una: l’allontanamento dalla Francia dei nomadi da parte del presidente Sarkozy. Tutto sommato, di primo acchito, l’ho condiviso. Poi ho colto le reazioni della Caritas, di qualche prelato, che non mi hanno convinto, mi hanno invece convinto le controreazioni: la Chiesa dispone di possedimenti terrieri, quindi se l’allontanamento degli zingari fa tanto mal di pancia, se li porti in casa e se li mantenga! Non che fossi per l’espulsione per motivi razziali o per il rifiuto degli scinti di integrarsi, ma perché credo che nessuna società possa permettere che delle persone occupino terreni che non sono loro, intendano vivere rubando e si ritengano liberi di non rispettare le leggi del Paese che li ospita.

Poi è intervenuto perfino il Papa e, pur convinto che questo intervento non m’impegni a livello di fede, ho ritenuto doveroso riflettere e ripensarci ulteriormente. Sennonché il dottor Bacialli di “Antenna Veneta” mi ha invitato insistentemente a partecipare a “Focus”, una rubrica di quella televisione. Ho pensato che era giusto che un credente, ed un prete, si misurasse su questo problema con persone di diversa estrazione ideologica, ed ho partecipato.

All’incontro Bacialli ha fatto da moderatore, arbitro imparziale, lì solo per stuzzicare i contendenti, rappresentati da un ex generale dei carabinieri, difensore per mestiere di chi combatte l’illegalità – e gli zingari ci sguazzano in questo stagno maleodorante -, un rappresentante di “Italia dei Valori” consigliere regionale, difensore delle “regole”, cavallo di battaglia di Di Pietro, un consigliere del PdL del Comune di Venezia, combattente fino all’ultimo sangue contro il nuovo insediamento degli zingari in quel di Favaro (sua patria natale), ed una signora, non contraria ai Rom, ma contraria ai loro campi perché perpetuano la segregazione e fomentano l’odio razziale. E poi io, vecchio prete, libero battitore, che normalmente rispondo solamente alla mia coscienza.

Come da prevedersi ci fu una zuffa (altrimenti che spettacolo sarebbe stato?), che partendo dall’espulsione degli zingari, portò i contendenti a scendere in campo all’arma bianca a livello di schieramento politico.

Io dissi di condividere un po’ le preoccupazioni e le tesi di ognuno, ma non arrivavo né alla soluzione finale di Hitler – che fece fuori tutti gli zingari che riuscì a pescare – né a quella buonista di chi pare voglia far finta che gli zingari non siano un problema sociale.

Tentai di dire che il problema degli zingari è un problema complicato, difficile, di non facile e vicina soluzione, quindi dobbiamo metterci tutti assieme a studiare mezzi progressivi per l’integrazione sociale, avere pazienza ed essere convinti che si può risolvere come tanti altri, perché l’Italia e l’Europa, purtroppo, non hanno solamente il problema dei campi nomadi abusivi. Spero di aver offerto un contributo alla Lega e, nello stesso tempo, anche al Papa.