Sdegno, solo sdegno!

E’ venuto a trovarmi, e lo fa con una certa frequenza – penso perché è un po’ più libero degli altri e soprattutto perché gli è congeniale la cortesia – uno dei consiglieri della Fondazione Carpinetum. Lanfranco lo conosco da quarant’anni, prima come papà dei suoi figli scout, poi come consigliere, ma soprattutto come membro convinto ed attivo nella parrocchia in cui fui parroco per 35 anni. La sorte poi ha voluto che sia stato scelto come consigliere della Fondazione, per cui corresponsabile nella bella, ma anche impegnativa, avventura dei Centri “don Vecchi”.

Lanfranco è sempre calmo, pacato e cortese quanto mai; con la sua voce tranquilla mi mette subito a mio agio e facilita la mia propensione a svuotare il sacco e a mettere sul tavolo tutti i problemi che mi interessano, spesso mi preoccupano o mi fanno sognare o soffrire. E’ capitato così anche questa volta. Svuotato il sacco del “don Vecchi” e rinnovato il clima di confidenza, mi lasciai andare a qualche considerazione d’ordine politico.

Lanfranco ha sempre bazzicato, soprattutto con interesse e in modo ideale, nella politica, tanto che fu consigliere, in quartiere, della provincia e ora continua con i figli, che ormai occupano posizioni di rilievo in questo ambito.

Considero questo amico mio consigliere, per quanto riguarda la politica locale e del nostro Paese. Io seguo la politica per modo di dire, perché la mia partecipazione è sempre epidermica e passionale. Mi infervoro, reagisco, sogno e anche mi sdegno. Oggi sono però in uno stato di disperazione, non riuscendo a comprendere come, in un momento tanto cruciale per l’economia del Paese, e soprattutto della nostra gente, i massimi rappresentanti litighino, si aggrediscano, si accusino e si dividano in maniera così meschina e plateale.

Non essendo poi addetto ai problemi, e non avendo voglia e tempo per approfondire tale conoscenza, intuisco che i motivi del contendere sono ad “uso esterno”, ma che le motivazioni vere sono ben diverse. Allo stato attuale, non solo non li capisco, non li condivido, ma non nascondo che non sono molto lontano dal disprezzo. Il peggio poi, è che nutro questi sentimenti per tutti indistintamente, potrei scrivere i nomi e cognomi dei tristi protagonisti della cosa pubblica, non riesco a salvarne uno!

Talvolta penso: “fossi almeno infatuato di uno, questo mi aiuterebbe a sperare e perlomeno ad illudermi”. Neanche la calma e la pacatezza di Lanfranco stavolta è riuscita a placare il mio sdegno!

Il dramma di uno dei cari ragazzi di un tempo lontano

Qualche sera fa ho invitato a cena uno dei miei ragazzi di quel tempo che, ogni giorno di più, si fa lontano. Sono ormai legioni, i ragazzi e le ragazze che la mia vita di prete m’ha fatto incontrare. Io, fortunatamente, ho sempre avuto, finché mi sono occupato di giovani, associazioni molto numerose, tanto da esserne, oggi, quasi sorpreso, avendo più consapevolezza che nel passato, di essere un uomo esigente, che pretende al massimo, che non si lascia mai scappare nulla e che domanda sempre di più.

Ora questi ragazzi sono tutti grandi, molti sono nonni in pensione, solamente gli ultimi sono ormai nel pieno delle loro carriere professionali. Tutti hanno preso la loro strada e le strade della gente comune sono sempre tanto diverse dal viottolo impervio e solitario che un prete è destinato a percorrere. Ogni tanto ne scopro qualcuno che, fatalmente, ricorda più nitidamente il lungo prete dalla tonaca nera, di quanto io possa riconoscere i ragazzini e le ragazzine di un tempo, che si sono caricati sulle spalle trenta, quaranta, cinquant’anni, e perciò li ritrovo curvi e appesantiti.

Il “ragazzo” dell’altra sera, però, m’è sempre stato più vicino degli altri, pur non essendo, né io né lui, facili alle frasi gentili; so che ci stimiamo e ci vogliamo profondamente bene. Quel ragazzo poi, lucido, concreto, volitivo ed intraprendente, m’ha anche aiutato quanto mai nelle mie “imprese” imprenditoriali.

Pensandolo solo a casa per le vacanze, ho pensato di prendere a pretesto la cena per farmi aiutare nel mare di grane attuali, ma che non sono mai mancate nella mia vita di sognatore insanabile. Era però la sera e il momento sbagliato, un dramma grave l’aveva investito, tanto che si trovava nel pieno della tormenta. So che egli è un lottatore e che pian piano ne verrà fuori, ma credo che la ferita rimarrà insanabile e gli toglierà tanto respiro per seguirmi nei miei sogni tardivi.

Gli ho parlato di ciò che gli avrei voluto chiedere, però con poca convinzione, e forse più per non riaprire la ferita che per risolvere i miei problemi, che non sono per nulla drammatici.

Ci lasciammo a tarda sera, ossia lui uscì dal mio piccolo alloggio del “don Vecchi”, ma la sua immagine sconvolta e triste è rimasta nel mio cuore e credo che ci rimarrà per un bel pezzo.

Questa sera, mentre facevo fatica a prender sonno, mi ritornò il volto e il dramma di questo “ragazzo” e questa immagine trascinò con sé mille altri volti dei ragazzi del mio passato, dei quali non conosco la sorte e la condizione di vita, tanto che ho sentito il bisogno di raccomandarli alla Madonna, che continua ad essere la madre di tutti.

Grazie Mora!

Le figlie della “Mora” mi hanno chiesto di celebrare il funerale della loro madre nella mia chiesa del cimitero. Esse davvero mi hanno fatto un gran dono, perché nessun prete penso che abbia conosciuto, come me, questa vecchia donna che lascia la nostra terra a 95 anni di età e nessun prete, credo, si sarebbe trovato nella condizione di darle il saluto che ella si meritava.

Io, poi, avevo dei grossi debiti da assolvere nei riguardi di questa cara donna, che m’ha fatto molto del bene, ma che l’ha fatto pure alla mia comunità e a tantissimi anziani, anche se quasi nessuno se n’è accorto e nessuno è venuto a dirle grazie e a salutarla alla sua partenza per il Cielo.

Non so neppure come e quando ho incontrato Piero, il marito della Mora, che poi in verità si chiamava Virginia. Piero m’ha raccontato mille volte la sua storia: giardiniere presso dei conti sul Terraglio; richiamato alle armi, ha combattuto la sporca guerra in Grecia. Poi il ritorno, la disoccupazione e la povertà. La piccola famiglia stava in piedi con le magre risorse che sua moglie si procurava andando a servizio. Poi un incidente in cui fu coinvolto, lo rese infermo per mesi e mesi, salvandosi solamente curando una gabbia di canarini e scrivendo un suo diario infinito.

Non so dove e come, fatto sta che l’ho incontrato e, ben presto, è diventato il giardiniere, il maggiordomo e “L’amministratore unico” di Villa Flangini: piantò alberi, sradicò rovi e gramigna, facendo letteralmente risorgere il parco abbandonato.

A fine settembre accompagnavo la Mora e Piero nella grande villa asolana, dove occupavano un appartamentino lindo e grazioso della dépendance. Piero trafficava da mane a sera e la Mora puliva e ripuliva: sempre con un sorrisetto appena accennato, ma sempre sornione.

Quando capitavo ad Asolo, trafelato, a portare arredi, mi faceva da mangiare; era davvero una brava cuoca e i suoi pranzetti così familiari erano tanto cari. Piero parlava e parlava, ogni tanto chiedeva galantemente approvazione e sostegno alla moglie, piuttosto parca di parole e di sentimentalismi.

Volli veramente bene a questi cari vecchietti e fui riamato e stimato in abbondanza.

All’inizio di giugno li riandavo a prendere con l’inizio della stagione. A quel tempo la splendida villa si riempiva come un uovo, tanto che perfino le mansardine del sottotetto erano occupate. Bei tempi! Fu una splendida avventura quella della villa asolana per gli anziani.

Mentre parlavo, di fronte alla salma della Mora e alla chiesa composta, queste accorate immagini mi passavano per la testa come un documentario affascinante, la voce si faceva roca e le lacrime si affacciavano, vere, alle ciglia. Dissi un grazie caldo e riconoscente alla moglie di Piero, se lo meritava! Per la mia vecchia comunità la Mora è stata come una delle tante pietre umili e nascoste sotto la malta, ma che sono quelle che reggono l’edificio.

A volte anche chi ha Fede deve procedere al buio

Un paio di settimane fa ho dedicato l’editoriale de “L’incontro”, ed un articolo di riferimento abbastanza consistente, a Madre Teresa di Calcutta. Sono convinto che quella vecchia suora albanese che ha sposato la causa degli ultimi dei bassifondi della megalopoli indiana, Calcutta, sia l’immagine più diffusa, più nitida e più convincente della solidarietà cristiana. Teresa di Calcutta ha fatto comprendere al mondo che l’aspetto più essenziale e più vero del messaggio di Gesù, consiste in un amore sconfinato, tanto da apparire quasi assurdo.

Nella Chiesa sono pressoché infiniti i focolai di carità che illuminano il mondo, essi ardono in ogni comparto della vita e, pur essendo tanto diversi per consistenza e per il modo con cui si esprimono, sono sempre riconducibili al comandamento di Cristo “Ama il prossimo tuo come te stesso”.

La riflessione e la stesura dell’apertura di quel numero de “L’incontro” m’ha quasi costretto a ripensare ad un aspetto non molto noto della spiritualità e della vita interiore di quella donna di Dio, così attiva nei riguardi dell’uomo, ma contemporaneamente così tesa all’adorazione del Signore, tanto che nella regola della congregazione religiosa che ha fondato, è previsto ed imposto un tempo molto ampio per la meditazione e la preghiera.

Nel suo diario, pubblicato dopo la morte, emerse, con sorpresa somma, che ella ebbe tempi prolungati e dolorosi di aridità spirituale; sentiva Dio tanto lontano, quasi le fosse indifferente, e perfino vi sono accenni in cui sembra che Dio fosse scomparso dal suo cuore. Questo “silenzio di Dio” nei riguardi di Teresa di Calcutta, fece grande sorpresa nell’opinione pubblica, tanto che la stampa laica arrivò a dire che probabilmente essa aveva perso la fede. Molta gente è convinta che Dio debba essere sempre colui che apre la via e che il suo discepolo debba sentirsi come legato a corda doppia al capocordata che assicura la salita.

Un tempo un prete veneziano mi disse che la fede assicura il cammino come le briccole segnano i canali della laguna, o le luci dei lampioni della strada diventano punti di riferimento per chi corre al buio.

E’ da tanto che ho capito che la fede non illumina a giorno il cammino; la fede è una luce che balugina ogni tratto di strada, è un chiodo sulla roccia che incontri ogni qualtanto, però vi sono sempre tratti che rimangono bui, pareti su cui devi aggrapparti da solo. Sarebbe comodo avere una strada sicura ed illuminata e che all’uomo non bastasse che metterci la buona volontà e il sacrificio per procedere.

Teresa di Calcutta continuò al buio fino in fondo, seguendo l’illuminazione che aveva ricevuto tanto tempo prima.

L’apprendere questi aspetti della suora dei poveri m’è di grande conforto, facendomi capire che devo continuare anche quando mi sento solo, abbandonato e con l’angoscia d’aver fatto una scelta impossibile.

Incontri provvisori

Per mesi, un signore di mezza età, scarno e riservato, entrava in chiesa e si metteva nel solito posto, nell’ultima fila di sedie, ad assistere alla messa e poi se ne andava taciturno. Già precedentemente, un paio di volte, m’aveva parlato della sua situazione, che sembrava veramente tragica. Usciva di casa giorno dopo giorno, in cerca di lavoro, tornandosene ogni giorno deluso e frustrato.

Da quanto m’ha raccontato, aveva svolto una funzione di agente di commercio con ottimi risultati a livello economico ma, per motivi che non ho capito bene, s’è trovato, ad un certo momento, invischiato in un’attività che lui credeva normale e pulita, ma che in realtà era quanto mai losca e condotta da tristi figuri che l’hanno impegolato in una situazione ogni giorno più amara.

Aveva collaborato con la magistratura che però, una volta saputo ciò che cercava, l’aveva mollato in balìa di se stesso: si sentiva minacciato quanto mai seriamente e ricattato dalle persone con le quali aveva collaborato; aveva perso la fonte di guadagno e non riusciva più a trovare un lavoro, tanto che la sua famiglia doveva vivere solamente con il modesto stipendio della moglie. Mi disse che trovava solamente un po’ di conforto, di sollievo e di sicurezza venendo in cimitero.

Da qualche settimana è scomparso. Quando esco per la messa, do un’occhiata nell’angolo a sinistra della chiesa, sperando che ricompaia. Niente! Di lui non conosco il nome, né il domicilio, ma solamente il dramma. Per poter riallacciare il seppur precario e parziale rapporto, non mi resta che raccomandarlo al buon Dio. Quante persone sono apparse all’orizzonte della mia vita e dopo qualche tempo sono state riassorbite dal mistero da cui erano emerse!

Stamattina ho pregato con più cuore e in maniera quasi accorata per lui, chiedendo al Signore che mandi rinforzi all’angelo custode di questa creatura che ho incontrato per un po’ di tempo, senza riuscire a dargli una mano prima che scomparisse nella nebbia spessa e carica di mille incertezze.

Ricordando quest’uomo, mi sentii in colpa per non aver mantenuto vivo il rapporto, magari solamente nella preghiera, con le infinite persone cariche di drammi diversi, che il buon Dio mi ha fatto incontrare e alle quali io sento di non aver saputo dare quell’aiuto del quale avevano bisogno. Quanto amerei, perlomeno, poter dir loro: «Non vi ho dimenticato!»

L’ispezione

Stavo aspettando, nella mia cattedrale tra i cipressi, quando suor Teresa mi avvisò, col volto preoccupato, che avevano telefonato dal “don Vecchi” che erano arrivati i Nas. Io non so da che cosa risulti questa sigla, ma so invece che la visita dei Nas rappresenta per una qualsiasi azienda un qualcosa ancora di più nefasto che una grandinata per i contadini che attendono la vendemmia.

Proprio ieri la superiora di Villa Salus, che avevo incontrato per degli esami, chiacchierando del più e del meno, m’aveva detto, quasi sottovoce: «Sono venuti perfino i Nas!» Io conoscevo questa attività, meno bella della Benemerita, per una visita a Ca’ Letizia, sollecitata da un questuante che non avevo accontentato, un’altra visita una ventina di anni fa, probabilmente richiesta da chi voleva preservare il quartiere dai poveracci e dai vecchi e poche altre più recenti. I Nas sono sempre una rogna! Le leggi e le disposizioni della burocrazia sono davvero infinite. Credo che in maniera assoluta nessuno possa dirsi a posto con esse. Spesso sono norme valide, ma altrettanto spesso, anzi di più, sono cretinerie che fan perdere solamente soldi senza risolvere i problemi della vita.

Io sapevo che al “don Vecchi” siamo a posto con le carte, ma soprattutto con l’igiene, il buon senso e l’attenzione alla vita e all’uomo; però sapevo altresì che anche nella visita più favorevole essi avrebbero trovato qualche cosa che non va e che nel verbale non sarebbero mancate alcune prescrizioni aggiuntive. E’ così per tutti gli enti ispettivi, purtroppo!

Ho perso una mattinata perché lo scrivano adoperava appena due dita, la pace e la pazienza perché non era facile spiegare su due piedi che cosa sono “gli alloggi protetti” – una realtà giustamente misteriosa e non catalogabile per i carabinieri – e la pace interiore perché, una volta ancora, mi incontravo con l’aspetto più grigio, inutile e dannoso dello Stato: la burocrazia.

Me la son cavata con tre ore di discorsi accattivanti e con qualche prescrizione che lo scorso anno gli stessi Nas non avevano preteso e che neppure quelli di una visita ancora precedente avevano domandato, ma è sempre così! Nel passato subii un’ammenda di cinquantamila lire, scrissi un articoletto indignato su “Lettera aperta”, che mosse un’associazione di federalisti europei ad esprimermi solidarietà, ed in aggiunta un’offerta di 300.000 lire. So però che fortune del genere capitano si e no una volta nella vita.

A Carlo, che accende la speranza

Questa mattina, uscendo di casa per iniziare il mio servizio giornaliero, ho incontrato Carlo, incontro che m’ha offerto un pizzico di ottimismo. Carlo è un dono fattomi da una giovane e simpatica assistente sociale della zona di Mestre Centro.

Non so dove abbia raccattato questo povero gramo, che assomiglia tanto, non so se più a Banfi o a Fantozzi. Comunque questa addetta ai servizi sociali ha scoperto questo naufrago della nostra città e ha tentato l’impresa, pressoché impossibile, di metterlo in sesto. Come ci sia riuscita è stato veramente un miracolo, perché liberare qualcuno, quasi affogato dal mare insidioso di Bacco, è impresa quasi sempre perduta.

La giovane donna, con l’entusiasmo della sua fresca giovinezza, venne a parlarmi per un caso di reinserimento sociale. Dissi di si, perché anch’io, come lei, sono rimasto un sognatore sprovveduto ed inguaribile.

Il soggetto ha cominciato “il suo servizio” di un paio d’ore due volte alla settimana. Mi lambiccai il cervello per trovargli un lavoro e finii per dargli una scopa in mano ed una pattumiera per raccogliere le carte nei dintorni del “don Vecchi”.

Forse, ad affezionarmi a Carlo, è stato il modo con cui scopa anche i fuscelli di fieno o le briciole di carta anche negli angoli più remoti; lo fa con una serietà, con un impegno ed una decisione, come andasse all’assalto all’arma bianca gridando “Savoia!” Pian piano ha appreso altre mansioni, tanto che ormai viene ogni mattina.

Terminati i due mesi fissati dai regolamenti dei servizi sociali, trovammo modo di rinnovargli il contratto del Comune: 100 euro al mese, più le eventuali mancette di suor Teresa, che lui oggi riconosce come “principale”, e le mie.

Ora Carlo è ormai di casa, si muove con disinvoltura, si consulta ed aiuta Gragory, il giardiniere ad ore del “don Vecchi”. Qualche settimana fa mi disse, un po’ mogio mogio e titubante: «Don Armando, i frati chiudono la mensa fino alla prima settimana di settembre; vengo da voi?». Ha cominciato a venire, e dopo due giorni mi ha fermato per dirmi: «Don Armando, non vado più alla mensa dei frati, vengo da voi»!

Mia sorella Rachele, inconsapevole dei progressi, gli ha offerto un quartino di vino. Carlo ha rifiutato. Ho capito che ormai era sulla via della redenzione.

Oggi Carlo fa parte della nostra famiglia e, per quanto dipende da me, continuerà a farlo, se non altro perché ogni volta che lo vedo, con gli arnesi da lavoro in mano, mi fa l’effetto di una iniezione di speranza e di ottimismo. Nulla è perduto!

Il nostro compito è continuare a proporre il modello di famiglia uscito dalla mente di Dio!

Ormai non c’è quasi più famiglia, compresa la mia, che conta due fratelli ed un nipote preti e il vecchio padre che alla domenica prendeva almeno due messe ed era pronto a dare la vita per la Democrazia Cristiana, che non abbia qualcuno dei membri dell’ultima generazione sposato civilmente o convivente con qualche formula particolare.

Ogni tanto mi capita di leggere nella stampa locale o sentire in qualche intervista a carattere nazionale, le statistiche tra sposati in chiesa e sposati in municipio o conviventi in qualche modo. Ha fatto notizia il sorpasso economico ed industriale della Cina sul Giappone mentre, con mia sorpresa, non pare faccia più notizia ma sia dato per scontato, il sorpasso di matrimoni civili su quelli religiosi, ma non mi sorprenderei neppure che prima o poi la spuntassero i “matrimoni di fatto”.

A questa situazione, che coinvolge il sociale, la morale e la religione, s’aggiungono le aberrazioni della famiglia, che hanno come vessilliferi ed apripista i radicali, ai quali si accodano spesso, in buona compagnia, comunisti delle varie specie, molti elementi del PD, i repubblicani e il piccolo codazzo che si rifà ai vecchi liberali e soprattutto i massoni.

Io sono sgomento di fronte a questo fenomeno che sta travolgendo, o perlomeno minacciando paurosamente, la più umana, la più bella delle realtà, rappresentata dalla famiglia, non dico cristiana, ma la vera famiglia. Spessissimo mi domando da che cosa è nata questa catastrofe.

Annoto con curiosità ed ansia le motivazioni che sono addotte: la secolarizzazione, i valori ormai fragilissimi o scomparsi dal nostro mondo, l’insicurezza economica, il rifiuto di ciò che si ritiene formale di certe messe in scena faziose ed inconsistenti, la burocratizzazione ed i percorsi di guerra imposti dalle parrocchie, la volubilità e la corta durata dell’amore-attrazione, la moda imposta dai mass-media, la dissacrazione da parte di un laicismo antireligioso, la superficialità affettiva, l’arrendevolezza dei credenti e mille altre cose ancora.

Se la famiglia non è agonizzante, di certo è malata ed investita da una pestilenza. Io non mi sento il medico capace di curare un morbo così pernicioso, comunque sono convinto che non dobbiamo arrenderci, che come educatori di ogni livello dobbiamo proporre, più convinti di sempre, il modello di famiglia uscito dalla mente di Dio come la proposta più alta e più nobile e più corrispondente ai bisogni dell’uomo, convinti che prima o poi la natura avrà certamente il sopravvento sui pasticci dell’uomo.

Sorprende guardare i mussulmani senza le costruzioni di media e politica!

Mia sorella Lucia, l’ex caposala dell’oculistica del vecchio “Umberto I°”, vive ormai solamente di missione. Avverto ogni giorno di più dai nostri dialoghi, che il suo animo è più di là che di qua; le sorti dell’ospedale di Wamba, le vicende non sempre positive della sua gestione e della sua amministrazione, la scuola infermiere, gli asili sparsi per l’infinita ed assolata savana, sembrano attività di un’azienda di cui ella sia l’amministratore delegato.

Alle preoccupazioni lontane s’aggiungono quelle vicine; talvolta ho la sensazione di trovarmi di fronte ad una operazione di marketing. Tutta impegnata a creare situazioni propizie per raccogliere fondi per affrontare i problemi della sua amata missione in terra di Kenia, anche la sua vita a Mestre è tutt’un intreccio di relazioni e di rapporti con le persone che hanno relazione e che tengono rapporti col continente africano.

Qualche giorno fa mi ha portato al “don Vecchi”, per presentarmelo, un vecchio missionario. Lucia me l’ha condotto per i rapporti sempre più stretti che mantiene con l’Africa ed anche per mostrargli la struttura del Centro quale “gloria” della famiglia e del suo fratello più vecchio. L’incontro è stato simpatico e mi ha aiutato a conoscere un po’ di più questo continente del terzo mondo.

E’ stato per me interessante il racconto dell’Eucarestia domenicale che, a differenza che da noi, dura due tre ore, ove la lode del Signore si esprime con i canti locali, la danza, gli interventi continui dei fedeli, la presenza degli anziani e il numero infinito di preghiere mirate a situazioni particolari, ma anche ad amici ed amici degli amici.

Chiesi qual’era il rapporto con i mussulmani, perché ormai da noi mussulmano equivale a fondamentalista, terrorista, kamikaze e, perché no? Bin Laden. Il missionario, ormai reso tollerante ed ecumenico dalla situazione, mi riferì che le cose non stanno come noi crediamo. I mussulmani non si convertono di certo perché convertirsi vorrebbe dire tradire la propria gente, essere avulsi dal proprio mondo, ma essi convivono tranquillamente con i cristiani cattolici e protestanti, così pure con gli animisti, e frequentano la messa senza complessi, partecipando gioiosamente ai canti e alle preghiere e dividono, senza discriminazione di razza o di religione, quel po’ che hanno.

Il nostro mondo ha divisioni e talora anche contrapposizioni tra gruppi sociali, differenze e scontri, ma sentendo il vecchio missionario, mi par di aver capito che molto del drammatico ed epocale scontro con l’Islam è, in buona parte, una tragedia fittizia costruita in gran parte dai mass-media, sollecitati dalla politica e dall’economia.

I preti di oggi, operai del Vangelo o impiegati della Chiesa?

Mi piacerebbe moltissimo conoscere la vita dei preti vecchi per avere un motivo di confronto, o meglio di stimolo. Fino ad una ventina di anni fa l’impegno del sacerdote era considerata una missione, per cui veniva quasi naturale che il prete dovesse morire in trincea. Tutti i sacerdoti che io ho conosciuto nella mia infanzia ed anche nella mia giovinezza sono morti sul campo, continuando il servizio che il vescovo aveva loro assegnato fino all’ultimo respiro.

Il sacerdozio era ritenuto universalmente una missione, come quella di una madre e di un padre, e quando mai si può, anche lontanamente, pensare che un uomo o una donna possa andare in pensione dalla propria paternità o maternità!?

Col tempo però, lentamente, senza quasi che nessuno si accorgesse, si è insinuata pian piano la mentalità socialista, motivo per cui l’operaio del Vangelo è diventato l’impiegato della Chiesa. Pian piano sono arrivati lo stipendio fisso – ufficialmente uguale per tutti – le ferie estive, l’orario di lavoro, i “permessi sindacali”, che ognuno può prendersi praticamente a suo arbitrio; infine la pensione. Manca ancora la liquidazione e poi i preti potrebbero iscriversi al sindacato dei pensionati.

Questa mentalità, che ho descritto in maniera un po’ sommaria e paradossale, è una mentalità che è stata pacificamente assunta dal giovane clero, ma che anche i preti anziani hanno trovato comodo adottare. Credo che nella Chiesa veneziana siano parecchi i preti pensionati e prossimamente saranno moltissimi.

Cosa fanno, come passano la vita, che ne è del loro sacerdozio e della loro missione? Questo per me è un mistero!

Oggi un settantacinquenne che non ha troppi malanni, potrebbe avere davanti a sé almeno una decina d’anni di una possibile attività.

Qualche settimana fa, in occasione del grande incontro di preti in piazza San Pietro, ho avvertito un guizzo tagliente di don Mazzi che reclamava che i preti tornino in strada. Non molto tempo fa ho letto una bella intervista del prete padovano ultranovantenne, mons. Ferro e ne sono rimasto molto edificato. Ho sempre di fronte agli occhi poi la figura di mons. Ersilio Tonini, amico di Enzo Biagi, che è diventato per me una bandiera.

La Chiesa è saggia nel pretendere che chi occupa posti di responsabilità abbia anche le energie e la lucidità per operare, però sono convinto che nessun ministro del Signore possa credere di aver diritto alla poltrona e possa esimersi dalla consacrazione al sacrificio ricevuta un tempo.

I nostri periodici per la pastorale in ospedale

La rete della distribuzione de “L’incontro” è un po’ complessa e rimane misteriosa anche per me che ne dovrei essere il responsabile.

Di sicuro ci sono alcuni volontari che ritirano e distribuiscono in punti fissi una certa quantità di copie; talvolta poi, quando s’accorgono che sono esaurite, ritornano per un supplemento. Ma quanti ne portano via mi sfugge totalmente. Una gran parte di copie sono ritirate dalla chiesa del cimitero anche da volonterosi sconosciuti e vengono distribuite nei luoghi più impensati, secondo criteri suggeriti dalla loro sensibilità religiosa.

Io mi sono riservato di portare “L’incontro” all’Ospedale dell’Angelo, un po’ perché la quantità è davvero considerevole ed un po’ perché, pur avendone l’autorizzazione scritta a farlo dalla direzione, non vorrei che nascessero difficoltà; motivo per cui, due volte la settimana, il lunedì e il venerdì, rifornisco l’espositore accanto alla cappella e ne metto nei banconi dei ballatoi al primo piano. Ogni settimana, quindi, porto svariate centinaia di copie de “L’incontro”, del quindicinale “Coraggio”, del mensile “Il sole sul nuovo giorno” e del volumetto per l’elaborazione del lutto.

Debbo confessare che questo servizio mi fa sentire un po’ missionario in terre lontane e nello stesso tempo, mi dà la gioia profonda di far giungere ai duemila concittadini che vi vivono dentro, un segno del ricordo affettuoso della comunità ed un soffio del messaggio di Gesù.

Alcuni giorni fa ho appreso dalla stampa che finalmente è stato nominato un sacerdote quale assistente dell’ospedale, che si unirà al piccolo staff costituito dal diacono, dalla suora, dagli accoliti e dai numerosi volontari di matrice cristiana. Mi auguro che si trovi un’intesa per una sinergia ed una collaborazione per cui la pastorale in ospedale si avvalga di tutte le componenti che già danno la loro opera preziosa, ma che forse renderebbero meglio e di più se trovassero il coordinamento necessario.

Io sarei ben felice di dare voce, mediante i nostri periodici, ad ognuna di queste componenti, in modo che la proposta di speranza e di consolazione che sgorga dal Vangelo possa raggiungere ogni paziente ed ogni operatore sanitario.

La grazia di avere ricordi cari e presiosi da ritrovare!

Quest’anno ho vissuto il ferragosto, come ogni domenica, a Mestre, in cimitero, facendo serenamente le cose di sempre. Per me non c’è più bella vacanza di quella passata facendo la vita che mi piace con le persone che amo. Però sto usando termini impropri perché conosco la festa dell’Assunta, non il ferragosto, che non mi piace e che rifiuto.

L’Assunta di quest’anno è stata veramente bella e dolcissima: il cielo fresco e limpido, il sole che ha messo in luce tutte le tonalità del verde appena lavato dalle ultime burrascate, la chiesa gremitissima, il coro dei miei vecchi che ha tirato fuori le note più calde; uno splendido incontro spirituale veramente denso ed appagante.

Nel pomeriggio, dopo il pisolino pomeridiano, seduto nella mia comoda poltrona nel mio alloggio solitario, mi sono lasciato andare per qualche tempo a sognare, riandando a questa festa di mezza estate del mio passato. Mentre le immagini si accavallavano l’una sull’altra, lasciandomi vedere scorci cari ed intimi di tanti anni di vita, ho scoperto che è una grazia possedere dei ricordi così ricchi e così intensi.

Per un istante rividi la piccola cappella a ridosso di Villa Fietta quando, seminarista in vacanza, mi trovavo sulla collina ai piedi del Grappa con i miei compagni e superiori: che festa viva ed esaltante per l’Assunta!

A questa immagine si sovrappose quella di quando ero giovane prete in servizio ai Gesuati, entrai in un ferragosto di più di mezzo secolo fa, nella basilica dei Frari, con la pala del Tiziano illuminata, mentre padre Rizzi, all’organo, tirava giù a piene mani le melodie del paradiso. A questo quadro subentrò quello delle “Assunte” celebrate all’aperto tra i cipressi e la gente, appoggiata sulle lapidi delle tombe, a guardare in alto, per vedere tra i cumuli di nubi bianche la Vergine salire verso la luce celeste.

Poi un susseguirsi rapido di immagini, una più bella dell’altra, inquadrate dai colli asolani a Villa Flangini. Quelle fughe dalla città nel primo pomeriggio, per entrare nel viale fresco e ombroso della villa. La messa con gli ospiti e i tanti amici del coro e della comunità che si erano dati appuntamento nella nostra amata villa, gioiello veramente stupendo. Poi la tavolata infinita con i tavoli imbanditi con grandi piatti di soppressa e di pane cotto a legna nel forno di Asolo. La fiaccolata verso l’eremo francescano di sant’Anna per ringraziare la Madre della Vergine e quindi i canti sulla piazzola verde antistante la chiesetta cara alla Duse e a Grazia Deledda, guardando Villa Flangini illuminata, vera perla tra i colli.

Quanti bei ricordi dell’Assunta! E’ veramente una fortuna e una grazia poter estrarre dal passato ricordi cari e preziosi, ed io ho questa fortuna.

Una commovente testimonianza della tenerezza di Dio

Qualche mese fa è morto don Zega, il sacerdote della Compagnia di San Paolo che, prima, diresse per qualche anno “Famiglia Cristiana” e poi fu un ottimo redattore della rubrica “Lettera al direttore”. In quella circostanza il periodico, fondato da don Orione, dedicò parecchi articoli e servizi su questo splendido sacerdote intelligente e libero di pensiero.

Ho letto avidamente quegli scritti perché io sono quanto mai interessato a ciò che riguarda il sacerdote in genere e, in particolare, il sacerdote del nostro tempo. Fui, in quell’occasione, colpito da una frase che don Zega pronunciò durante l’omelia che tenne nel suo piccolo paese natio, quando festeggiò coi suoi paesani i cinquant’anni di sacerdozio. Don Zega disse: «Noi preti di questo tempo siamo chiamati soprattutto a testimoniare la tenerezza di Dio». Stupenda intuizione: “la tenerezza di Dio”!

Oggi la gente non teme più né il giudice, né il Dio punitore, ma credo che si commuova ancora quando incontra Dio che ci tratta, nonostante tutto, con tenerezza; almeno a me sembra così.

Stamattina, nella mia breve meditazione, ho letto un brano quanto mai persuasivo ed efficace sulla tenerezza di Dio. Me lo sono ritagliato perché voglio rileggerlo di sovente.

“Un giorno mi sono imbattuta in un passerotto, il più comune degli uccelli, che era stato ferito da un’auto. L’ho soccorso con delicatezza e l’ho portato a casa. Mi ha colpito la sua fragile bellezza: il dorso di un caldo color castagna, le ali marroni a strisce bianche, la testolina grigia, il petto candido e arruffato. Ero stupita che quelle fragili zampette fossero in grado di sostenere questa piccola e fragile creatura, anche in mezzo ad una tempesta. Mentre tenevo il minuscolo corpicino al sicuro tra le mie mani, ho sentito il battito del suo cuore affievolirsi, poi cessare: mi sono commossa.

Nel Vengelo è scritto che Dio sa quando un passero cade a terra. Mi sono resa conto che come il passero ha trovato rifugio benevolo tra le mie mani, così anch’io sono tenuta nel palmo della mano di Dio. Mi sussurra parole di tenerezza, mi dice che sono amata, accettata, accolta oltre ogni aspettativa.”

Mi piacerebbe tanto che i miei amici, e soprattutto i fedeli che mi ascoltano attenti e numerosi nella mia cattedrale tra i cipressi, potessero leggere queste parole per provare la dolce sensazione che ho provato io. Purtroppo io non riesco a parlare così bene della tenerezza di Dio.

E’ giusto vivere la vita con gioia!

Qualcuno dei fedeli, che partecipano numerosi all’Eucarestia che celebro nella mia amata chiesa dedicata alla Madonna della Consolazione, talvolta rimane un po’ sorpreso dei miei sermoni, che s’allontanano dai cliché tradizionali. D’altronde io non riesco a tradurre in maniera diversa della mia sensibilità e del mio cuore, la Parola ed offrirla con convinzione ed amore ai fratelli che vengono nella nostra cara chiesa per incontrare il Signore.

Spesso, dall’attenzione assoluta e da qualcosa che vibra nei volti, ho la sensazione che i fedeli accolgano volentieri e talvolta con entusiasmo la “versione” che di volta in volta ho preparato e poi tento di offrire con semplicità, ma con tanta convinzione. Perché non ci siano fraintendimenti, più di una volta ho affermato che il messaggio di Dio è un pozzo profondo ed infinito dal quale ognuno può trarre quello di cui sente il bisogno. I miei cenni sono colti in rapporto alle mie attuali esigenze, ma ognuno può trovare nella stessa Parola quello di cui ha necessità in quella particolare congiuntura in cui si trova.

Il giorno dell’Assunta, dopo qualche cenno per inquadrare “il dolce mistero”, ho affermato che la conclusione dell’epilogo soave e glorioso della vita della Madonna, ci offriva il gran dono di poter sognare. L’uomo di oggi, così pragmatico ed efficientista, ha bisogno di sognare guardando il Cielo e l’Assunta offre una visione bella e positiva della vita che vede avanti a sé una strada, percorsa da Maria, che porta al Padre.

Ho invitato i presenti ad avere l’ebbrezza di vivere la splendida avventura della vita come un gioco gioioso e appassionato. Io non ho alcun timore d’essere accusato di essere un sentimentale, perché una vita senza sentimento, senza poesia e senza sogni è ben misera e deludente.

Ho concluso dicendo che l’alternativa a questa ipotesi – dicano quel che vogliono i filosofi contemporanei, si riduce alla tesi del Cronin che, nel suo romanzo più famoso, afferma che le stelle fredde e beffarde guardano con cinismo il protagonista che è costretto, dopo il fallimento del suo sogno di liberazione, a ritornare nelle viscere buie della miniera.

Mentre io scelgo di gran lunga – e la celebrazione dell’Assunta ne è un valido supporto – le parole del protagonista, interpretato nella versione cinematografica da Paul Newman, che conclude la sua tormentata ma vittoriosa vicenda affermando «Lassù uno mi ama», o le parole di santa Teresa «Il mio nome è scritto lassù». Sono infinitamente felice e riconoscente a Dio e alla Chiesa di poter donare questa lettura della vita.

La paura di morire

Qualche giorno fa, riflettendo su ciò che lo scoutismo mi ha insegnato, sono tornato ad una vecchia reminiscenza che mi ha portato alla memoria la splendida testimonianza di un giovane scout francese, che aveva colto ed interpretato al meglio lo spirito scout. Tuttavia, in occasione di un ennesimo ricovero nella clinica urologica di Padova, mi è capitato di fare una esperienza simile alla sua, anche se un po’ meno brillante e mistica.

Guy Delagaudie, in un assolato pomeriggio d’estate, trovandosi su un alto sperone di roccia e vedendo sotto di sé un mare limpido ed azzurro, ebbe istintivamente la voglia di tuffarsi. Però, spiccato il salto per il tuffo, ebbe l’impressione d’aver sbagliato la misura e di stare per sfracellarsi sulla roccia sottostante. In quell’attimo fece in tempo a ripetersi “Signore, fra qualche istante sarò tra le tue braccia!”

Per me il fatto è stato più prosaico, però non meno preoccupante. Avevo subìto l’intervento chirurgico positivamente ma, per non so quale motivo, i sanitari si sono accorti che il valore del potassio era schizzato in alto in maniera preoccupante e pericolosa. Per affrontare questa emergenza, il medico mi fece fare un prelievo del sangue ogni due ore, per monitorare le reazioni ai farmaci prescrittimi. L’ultimo prelievo avvenne alle 21 e mi riferirono che il valore stava scendendo. Mi addormentai con una ritrovata serenità ma, a mezzanotte, due infermieri, entrati in stanza furtivi alla luce di una torcia, mi svegliarono e mi dissero che dovevo farmi una flebo. Poi uno di loro iniettò nel flacone del liquido una siringa di nonsoché. Chiesi spiegazioni per sapere se questo fosse dipeso dall’esito negativo dell’ultimo prelievo. Essi, che normalmente, per motivi di deontologia professionale, sono sempre parchi di informazioni, furono molto evasivi. Il buio della notte, il fatto che la mattina seguente avrei dovuto essere dimesso e che m’erano state tolte tutte le cannule, mi fece immediatamente pensare: “Ci siamo!”

Chiesi in fretta perdono al buon Dio, poi pensai che avrei dovuto essere felice di essere in procinto di incontrarmi col mio Signore; però la cosa non mi riuscì molto facile. Allora tentai di scusarmi aggrappandomi al pensiero che avrei lasciato in difficoltà i miei collaboratori per reperire i fondi per il “don Vecchi” di Campalto. Capii però che questo, in realtà, era solo un pretesto, e dovetti ammettere che avevo paura.

Al mattino tutto si risolse molto prosaicamente. Conclusi però che devo incentivare il mio “apparecchio alla buona morte”, come si diceva un tempo.