Il “mio” pubblico ministero

Con amarezza sconfinata, da un mese a questa parte, sto seguendo sul Gazzettino l’ultima enorme impresa truffaldina di un grosso imprenditore locale – e dei suoi collaboratori ed adepti – che riusciva ad accaparrarsi i più grossi lavori e che evadeva bellamente le imposte.

A parte il fatto che credo sia ormai impossibile in Italia poter lavorare senza evadere perché la tassazione per mantenere l’impalcatura statale e comunale è così gravosa che diventa comprensibile che le imprese vadano nei Paesi vicini dove le tasse sono minori, la burocrazia più agile e veloce e l’energia meno cara. Ho la più ferma convinzione che finché in Italia non si troverà il coraggio e la forza di sbaraccare un apparato pubblico inefficiente, sovraffollato, costosissimo, pieno di privilegi e assai più complicato di quello di “Franceschiello”, sarà assolutamente inevitabile che, nonostante la magistratura, la finanza, il fisco e quant’altro – che sono pure parte integrante del sistema – coloro che ci riescono portino i soldi nei paradisi fiscali o delocalizzino le loro aziende.

Non giustifico assolutamente le malefatte dei “furbi” però, con altrettanta onestà, debbo denunciare di immoralità, di malcostume, ingiustizia, prepotenza e malversazione, della sua filiera banche comprese.

Una concausa di tutte le ruberie è certamente l’organizzazione pubblica del nostro Stato.

Io che non sono un imprenditore, ma un operatore sociale, vivo sulla mia pelle questo dramma. In questa occasione la sorpresa è stata ancora più forte venendo a sapere che il pubblico ministero che segue la vicenda di cui parlavo è l’avvocato Stefano Ancilotto, il ragazzino di un tempo, conosciuto in parrocchia. Stefano era un ragazzo lucido, intelligente, deciso. Egli ha ereditato dal padre questo tipo di personalità forte e volitiva – della dolcezza della mamma credo abbia preso poco. Ricordo che, giovane magistrato, l’avevano mandato nel profondo sud, impero indiscusso della mafia. Ho pregato spesso per lui, avendo la sensazione che corresse tanto pericolo, anche se lui più volte mi ha assicurato di essere piuttosto tranquillo.

Poi ero venuto a sapere che s’era sposato ed era rientrato nella nostra terra. Per lungo tempo non ne avevo più sentito parlare ed essendo uscito dalla parrocchia non avevo più avuto occasione di incontrare i suoi genitori, la sorella e le zie. Pensavo che fosse stato assorbito da quel mondo particolare dei tribunali e della giustizia.

Sennonché, in queste ultime settimane, “il mio Stefano” è riemerso come protagonista lucido e autorevole. Ho ripreso a pregare per lui, da un lato perché quel mondo spietato di cui sta occupandosi non gli faccia male, e dall’altro perché la sua passione per la giustizia non finisca a far del male a quel mondo di dipendenti che vive delle briciole dei loro padroni, ma che comunque ha bisogno assoluto anche delle “briciole che cadono dalla mensa”.

Finalmente una buona notizia

“Gente Veneta”, il settimanale della nostra diocesi, arriva al “don Vecchi” il venerdì in tarda mattinata. Venerdì scorso, come sempre, l’ho sfogliato velocemente per apprendere le notizie di maggior rilievo ed anche per essere un po’ confortato: perché mentre sul Gazzettino non trovo che titoli che mettono in luce tutte le magagne della nostra città – che sono pressoché infinite – nel settimanale diocesano pare che le parrocchie, il vescovo e le associazioni cattoliche passino di trionfo in trionfo! “Gente Veneta” me lo tengo appresso perché mi è di conforto il poter apprendere che nel patriarcato di Venezia è eterna primavera.

Venerdì scorso dunque diedi un’occhiata ai vari titoli e mi soffermai un istante sul titolo a quattro colonne in prima pagina: “Il Patriarca: ricordiamoci i poveri!”. Ma soprattutto l’occhiello destò il mio interesse; diceva infatti: “per i senza fissa dimora un nuovo dormitorio a Mestre”. La cosa mi incuriosì quanto mai e andai immediatamente a pagina 10 alla quale rimandava il “titolo civetta”.

Sopra una foto a cinque colonne in cui è ripreso il Patriarca a Betania (la mensa dei poveri di Venezia) il giornalista riportava le parole del nostro vescovo: «Vorrei accrescere l’accoglienza che diamo in terraferma per quanto riguarda il dormitorio. Cercherò di fare in modo che nei prossimi mesi si individuino gli spazi e si reperiscano i fondi per realizzare una nuova struttura di accoglienza per la notte per una ventina di persone».

La mia prima reazione è stata: “Finalmente!” La seconda: “A Mestre non si farà una `nuova struttura’, perché quella sognata sarà la prima in assoluto! Perché al di fuori dei Centri don Vecchi, che attualmente mettono a disposizione 315 alloggi per gli anziani poveri, e la parrocchia di via Aleardi, che offre ospitalità per una settimana alle badanti che vengono dai Paesi dell’est, la Chiesa veneziana non offre nient’altro”.

Il mio terzo pensiero: “Speriamo non si pensi a un dormitorio come quello gestito dal Comune in via Santa Maria dei Battuti, perché quello, nonostante tutta la buona volontà di Chimisso e degli attuali gestori, è una struttura di stile ottocentesco assolutamente sorpassata”.

E ancora: “Speriamo che si riuniscano tutti gli esperti del settore, ma soprattutto coloro che si occupano positivamente di queste cose per sentire il parere di tutti”.

E non è finita: “Venti posti sono assolutamente pochi, bisognerebbe arrivare almeno a cinquanta”. “La struttura a cui puntare dovrà essere quella di un albergo, per quanto modesto”. “La gestione non solo non deve pesare sulla diocesi, ma anzi deve essere attiva se si vuole che essa continui. A questo riguardo noi del “don Vecchi” avremo più di un consiglio da offrire”.

La tentazione della Carinzia

La sera ceno verso le sette e mezza, ceno da solo, cosicché mi concedo la compagnia della televisione, dato che è possibile fare una cosa e l’altra contemporaneamente.

A quell’ora la Tivù di Stato trasmette, sul terzo canale, il giornale radio del Veneto, che dura una ventina di minuti. Qualche sera fa riferiva circa un convegno di imprenditori del Veneto i quali esponevano le difficoltà che tutti conosciamo perfino troppo bene e per esperienza diretta. C’era uno, in particolare, di questi imprenditori, una persona semplice ma intelligente, che si era tirato su un’industria dal nulla, che confessava la sua intenzione di traslocare oltre confine, nella vicina Carinzia. Il suo discorso era talmente limpido e convincente che, pensando al “don Vecchi 5” (per l’inizio del quale abbiamo presentato il progetto il dieci agosto dello scorso anno senza aver ottenuto ancora la concessione edilizia), che m’è venuto da dire: “traslochiamo anche noi in Carinzia la `nostra industria’ per i vecchi!”. In Carinzia la luce costa meno, si pagano meno tasse ed in un paio di mesi si possono ottenere i permessi per aprire un’industria, non una struttura di carattere sociale!

La Fondazione, che vuol costruire una struttura per gli anziani in perdita di autonomia, è una ONLUS, perciò un ente riconosciuto ufficialmente come non lucrativo, ha avuto tutta la disponibilità e l’appoggio dell’assessore Micelli, ha dimostrato sul campo di “battere tutti” a livello economico, sociale ed umano; può offrire degli esempi riconosciuti da tutti come validi e all’avanguardia. Per di più ora che la situazione dell’edilizia è, a dir poco, tragica, la richiesta di risposte alle urgenze del mondo degli anziani è enorme, la necessità di abbattere i costi di gestione ormai insopportabili per la nostra società è altrettanto evidente. Nonostante ciò la macchina burocratica rimane legnosa, macchinosa, borbonica, impossibile!

Tra le urgenze assolute per il bene del nostro Paese c’è certamente quella di smantellare, semplificare e riqualificare tutto l’apparato burocratico, autentica piaga sociale dello Stato e del parastato italiano. I tecnici del Comune di Venezia ci hanno messo otto mesi – dico otto mesi – per approvare il progetto. Il 26 marzo è arrivato finalmente l’OK tecnico, ora stiamo a vedere il tempo che ci s’impiegherà per avere quello politico-amministrativo. Il progetto deve passare ancora in Quartiere, in Pregiunta, in Giunta ed infine in Consiglio comunale! Volete che non venga voglia di traslocare in Carinzia, in Slovenia, in Serbia o in Polonia?

Come comprendo e condivido il parere del piccolo imprenditore veneto!

Il miracolo inaspettato

Ho l’impressione che il nostro Papa voglia sbaraccare velocemente anzi, fin da subito, un apparato artificioso ed ingombrante, perché emerga da queste impalcature artificiose l’uomo vero, meglio ancora l’uomo e il discepolo pensato e voluto da Cristo.

E’ da tento tempo che, magari confusamente, avevo intuito che certe tradizioni, certe bardature e certi locali sfarzosi e fuori dalla tipologia della normalità, finivano per soffocare l’uomo, ma soprattutto il cristiano, mostrando una Chiesa sofisticata, vestita di una ricchezza da pataccaro, che aveva poco o nulla a che fare con la bellezza e la sovranità dell’uomo nuovo annunciato e voluto da Cristo.

Ogni giorno Papa Francesco ci offre una sorpresa ed una bella sorpresa! Ha cominciato a chiedere “la benedizione” del popolo di Dio prima di impartirla lui, ha offerto ai “Magazzini San Martino” le scarpe rosse di Prada, la mantellina rossa bordata di finto ermellino ed un sacco di altri indumenti che non sembra affatto intenzionato ad indossare, ha infranto con disinvoltura “il sacro protocollo” salendo e scendendo dalla “papamobile” per salutare infelici, amici, bambini, donne e uomini del popolo. Ha telefonato ai vecchi amici lasciati in fretta in Argentina; per andare al conclave ha abbandonato fino dal primo momento quei discorsi da iniziati, discorsi barbosi, noiosi ed incomprensibili che tutti dicevano, per consuetudine e per falsa riverenza, essere sublimi. Ha detto una delle prime messe per gli spazzini del Vaticano per continuare con il carcere minorile. Ora dicono che non vuole traslocare dall’appartamento provvisorio “per non perdersi” nei “sacri palazzi” che “potrebbero ospitare 300 persone”. Ogni giorno di più ci diventa facile coniugare le sue scelte, le sue parole e i suoi comportamenti con quelli dei primi discepoli di Gesù.

In questi giorni avverto sempre più la curiosità di immaginare che fine farà il piccolo esercito di guardie svizzere e l’ammucchiata di monsignori e vescovi che costituiscono la curia del Vaticano.

A Radio Radicale ho sentito che perfino Marco Pannella – che è tutto dire – è entusiasta del nuovo Papa. Chi mai se lo sarebbe aspettato un terremoto così forte, che improvvisamente fa recuperare alla Chiesa decenni e decenni su quei duecento anni di ritardo che il cardinal Martini aveva denunciato?

Solamente il buon Dio poteva fare un miracolo così grande e inaspettato! E noi ne siamo i fortunati spettatori.

Felice ma preoccupato

La sensibilità della gente è sempre stata in continua evoluzione. Oggi l’evoluzione è così veloce che quello che un tempo avveniva in secoli, ora avviene in meno di dieci anni.

Io, che ho più di ottant’anni, ho avuto modo di assistere all’elezione di tanti Papi – Pio XI, Pio XII, Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo I, Giovanni Paolo II, Papa Ratzinger – ma mai ho avvertito la curiosità, il tifo e la soddisfazione come mi è avvenuto per questo Papa, Papa Francesco!

Saranno i mezzi di informazione, affamati di sempre nuove notizie, sarà il fatto che la Chiesa rappresenta un punto fermo in questa società così irrequieta ed instabile, sarà forse l’evoluzione della sensibilità religiosa, che ormai non capisce e non tollera più una Chiesa pomposa, fuori dal tempo, legata a stili superati, comunque non solo i cristiani, ma il mondo intero ha seguito con vera passione l’elezione del nuovo Papa e i suoi primi passi. Le centinaia di migliaia di persone che in queste ultime settimane hanno gremito piazza san Pietro ne sono una prova incontrovertibile.

Mi hanno poi sorpreso altri due comportamenti. Il primo, la sensazione di scampato pericolo, perché non è stato eletto un cardinale dell’apparato vaticano, quasi che questa elezione rappresentasse un pericolo non solo per la Chiesa, ma per il mondo. Secondo, la soddisfazione, il compiacimento e la contentezza per l’elezione di Papa Francesco e l’ammirazione per i suoi primi passi di ministero pastorale.

Mi è sembrato che i cristiani, almeno nell’inconscio collettivo, sentissero il bisogno di un Papa semplice, alieno non solo da comportamenti ingessati dalla tradizione, ma pure non legato a discorsi teologici incomprensibili per i più, che finalmente rioffra un “Vicario Cristo” alla quotidianità, agli interessi ed attese di tutti e volti per sempre le spalle agli ultimi retaggi dello Stato Pontificio. Papa Francesco pare che abbia rotto, con un sol colpo, un mondo per certi aspetti misterioso, se non magico, avulso dal reale, per riportare il vescovo di Roma a parlare con le parole di tutti.

Tanta gente mi ha chiesto se ero contento, non aspettando quasi la risposta, per affermare la loro contentezza. Si, sono contento, tanto contento, ma ho pure tanta paura che troppi che finora avevano perseguito un cristianesimo diverso, si sentano mancare la terra sotto i piedi e che altrettanti, come me, non riescano a stargli al passo.

Il testamento

Un mio vecchio parrocchiano che ogni anno, quando andavo a benedire la sua famiglia, ripeteva puntigliosamente che lui non era credente, un paio di anni fa mi ha scritto una lettera diffidandomi dal continuare ad invitare i concittadini a ricordarsi degli anziani poveri e suggerire a chi non aveva responsabilità e doveri verso dei congiunti, di far testamento a favore dei Centri don Vecchi.

Di certo non ho tenuto alcun conto di questa intromissione inopportuna, ho continuato per la mia strada ottenendo, fortunatamente, dei buoni risultati. Per timore che qualche altro concittadino mi accusi di autoreferenzialità, non faccio l’elenco dei lasciti ottenuti, però assicuro che i quattro Centri, con i relativi 315 alloggi protetti, non sono frutto di rapine in banca, ma il risultato di offerte e di lasciti testamentari da parte di concittadini saggi e generosi che hanno pensato anche a chi era meno fortunato di loro.

So per certo che altri concittadini hanno fatto questa scelta. Prego perché questa bella gente sono convinto che meriti una vita lunga e felice, ma spero che il giovane consiglio di amministrazione che governa attualmente la Fondazione, prima o poi raccolga i frutti dei semi che ho seminato, anche se non tutti i miei colleghi e i miei concittadini erano, o sono, di questo parere.

Più volte ho confidato a chi mi legge che io ho un’unica “padrona di casa” a cui mi sforzo di obbedire: la mia coscienza. Finora mi sono sempre trovato bene e perciò non ho nessun motivo per fare scelte diverse. Anche recentemente mi sono incontrato con un concittadino che ha avuto il coraggio e la saggezza di destinare a qualcuno che è in difficoltà il frutto della sua lunga vita di lavoro. Qualche settimana fa mi giunse la telefonata di un vecchio ingegnere che aveva intenzione di lasciare la sua casa alla Fondazione. Lo raggiunsi, lui si informò accuratamente sui progetti che stiamo perseguendo, sull’attività a favore degli anziani e poi mi confermò che avrebbe parlato col suo legale per perfezionare il testamento. Uscii dall’incontro edificato dalla lungimiranza e dalla saggezza di questo signore che ha avuto il coraggio di destinare il frutto del suo lavoro a coetanei meno fortunati.

Confesso che però faccio fatica a capire perché tanti altri concittadini che potrebbero farlo, senza nuocere a nessuno, non lo facciano, affinché la nostra città possa avere delle risposte adeguate alle urgenze più gravi di tante persone in difficoltà.

Cristo è risorto. Sì, è veramente risorto

Tante e tante volte ho riflettuto in maniera appassionata ed onesta sul “mistero” cristiano della resurrezione di Gesù, “mistero” sul quale poggia la nostra lettura del senso della vita e che apre il nostro animo alla prospettiva della vita nuova.

I testi del Vangelo per certi aspetti mi disorientano perché emergono in essi incongruenze e difformità non facilmente comprensibili. Sono però arrivato pian piano a comprendere che la resurrezione non fu una folgorazione improvvisa, lucida e perentoria che appare incontrovertibile, ma è invece un processo lento, frutto di tanti apporti diversi che pian piano hanno portato la comunità cristiana a sentire ed essere certa che quanto Gesù ha detto, fatto e rappresentato è non solo meraviglioso, ma quel Gesù è ancor vivo e presente anche dopo il venerdì santo e può aprire il nostro cuore alla speranza e alla positività della vita ed offre una risposta globale ed esaustiva al nostro bisogno di verità, amore e felicità.

Comunque, in fondo a questo processo e questo cammino, rimane sempre la necessità di un atto di fede personale, non gratuito e fideista, ma che ha motivi più che validi per essere fatto. Atto di fede quanto mai razionale e che è coerente ad una logica profonda ed esistenziale che supera di gran lunga i limiti del banale ragionare di basso livello.

Credere nella Resurrezione è un fatto esistenziale che trova motivazione nel profondo del nostro essere, il quale d’istinto rifiuta un’esistenza irrazionale ed insignificante, assurda e deludente. Credo che questo atto di fede, magari in maniera contorta, informale ed inconscia, sia proprio di ogni creatura normale.

Questa mattina nella mia meditazione ho letto la confessione di un cristiano dell’Argentina che racconta che la nonna, emigrata dalla Russia, il giorno di Pasqua “sollevava la tazza da té, salutava la sua famiglia sorridendo con queste parole: “Cristo è veramente risorto!”. Mio fratello, don Roberto, scrisse un paio di anni fa nel suo bollettino parrocchiale, di un funzionario del partito comunista di Mosca che tenne una lezione di due ore ad un auditorio perplesso e silenzioso, sulla validità scientifica delle tesi dell’ateismo. Quando ebbe finito la lezione chiese se c’erano obiezioni. Si alzò un vecchio affermando con voce ferma e decisa: «Cristo è risorto!». Al che l’intero auditorio balzò in piedi quasi di scatto e ribadì: «Cristo è veramente risorto!».

Sono convinto che faccia parte dell’uomo di ogni tempo la coscienza che la vita non è un inganno ed una beffa, ma un cammino verso la pienezza. Il fatto che in Russia, dopo settant’anni di ateismo ufficiale, di oppressione, persecuzione e decine di milioni di morti, si sia ripreso l’insegnamento religioso nella scuola, ne è una prova, checché ne possa pensare lo sparuto drappello di atei militanti che ogni tanto “pontifica” anche nella nostra Italia.

Passione, Morte e Resurrezione 2013

Quest’anno, nel periodo di Pasqua, non stavo bene: una brutta influenza ha fiaccato le mie forze fisiche ed intorpidito la mia mente. Tante, forse troppe volte, ho confidato ai miei amici che all’approssimarsi delle festività più importanti del calendario cristiano mi prende un grande tormentone perché, avendo coscienza del messaggio veramente importante che esse offrono anche all’uomo di oggi, trovo molta difficoltà, quando tento di calarlo nella sensibilità della nostra società perché diventi fonte di speranza e di salvezza.

Quest’anno alle difficoltà di sempre si è aggiunto questo torpore mentale dovuto al malessere dell’influenza. Nella mia riflessione era, si, germogliato qualche virgulto di verità, pur fragile e timido, che sembrava potesse offrire un apporto importante alla freschezza e all’attualità del messaggio evangelico, però ancora una volta mi sono imbattuto nelle difficoltà di sempre.

Avevo intuito che ogni volta che la Chiesa ci impone la lettura della Passione, durante la settimana santa, d’istinto e per tradizione si è portati ad assistere, pur con rispetto ed attenzione, al racconto della passione, morte e resurrezione di Cristo, che riassumono l’intervento con cui Cristo ci apre le porte alla speranza sugli sbocchi positivi della nostra vita, però nell’atteggiamento di chi ascolta il racconto di una storia importante e coinvolgente però avvenuta due millenni fa, della quale al massimo noi siamo chiamati a far memoria.

La luce invece che mi si è accesa quest’anno, è che questo racconto ci offre la chiave di lettura di una realtà esistenziale in cui siamo direttamente coinvolti e che ce ne fa protagonisti comunque. Oggi sono chiamato a leggere, riconoscere e vivere negli eventi del 2013 e nei personaggi attuali, i comportamenti positivi e negativi vissuti tanti secoli fa dai protagonisti della passione, morte e resurrezione di Gesù.

Quello che è importante, anzi determinante, è la capacità di leggere, vedere e vivere il mistero cristiano nella vita degli uomini del nostro tempo, sui quali ci informano ogni giorno i mass media. E’ doveroso conoscere la passione, morte e resurrezione che 2000 anni fa hanno aperto l’animo dell’uomo alla speranza e alla salvezza, ma è assolutamente necessario che si sappiano riconoscere questi misteri nel tempo presente, che ci si senta coinvolti e si sia coscienti della “parte” che stiamo svolgendo in essi. Ognuno deve domandarsi: “Sono proprio io che scelgo il mio ruolo nel “mistero cristiano” o è invece la realtà della vita ad assegnarmelo? Perché, se così fosse, correrei il pericolo di trovarmi senza volerlo nei panni di Pilato, di Erode, di Giuda, piuttosto che in quelli di Giovanni, di Maria, della Veronica, della Maddalena!».

Ho tentato di passare questo messaggio assolutamente importante, ma l’ho fatto in maniera goffa e, temo, incomprensibile. Ritento perciò, con questo mio scritto, di farlo meglio, però non so se con miglior risultato.

L’esorcista

Qualche giorno fa mi sono lasciato andare, come credo capiti a molti, al capriccioso piacere di smanettare il telecomando della televisione, nella speranza di scoprire qualcosa che potesse interessarmi. Per caso andai a finire nel canale della televisione vaticana.

Era prevedibile, ma non certo – dato che la televisione è dei vescovi, del Vaticano o della Chiesa – che il programma fosse attinente a tematiche religiose. Infatti mi imbattei in un programma che non poteva essere meno “spirituale e religioso”. Il solito giornalista un po’ addentro al mondo ecclesiastico, incalzava di domande un frate esorcista.

Di interessante, nel programma, non c’era che le linee belle e armoniche di un’abbazia che appariva sullo sfondo ma sia il giornalista, che brillava di quella petulanza propria dei fedeli da sagrestia, sia il frate, piuttosto corposo e rubicondo che non aveva affatto i tratti dell’asceta, ma che si definiva esorcista autorizzato, sia infine l’argomento estremamente marginale alle vere problematiche della fede, tutto era quanto mai deludente e desolante. Lo squallore del dialogo su un argomento così retrivo era ulteriormente immeschinito dalle carrellate su immagini medioevali di demoni truculenti con orecchie da asino, occhi spiritati e tridenti mostruosi.

Nonostante l’istintivo rifiuto e la sensazione di irritazione, indugiai qualche po’ di tempo a sentire dissertare questo frate da baraccone sulle strategie per sconfiggere il diavolo e liberare gli “indemoniati” per i quali – io sono ben convinto – sarebbe più necessario rivolgersi ad uno psicologo o, meglio ancora, ad uno psichiatra, che hanno metodiche e farmaci ben più efficaci e seri delle trovate del frate.

Io ho già le mie gatte da pelare, ma sentivo la tentazione di dire alla redazione dell’emittente vaticana: «Non avete qualcosa di più serio e di meno antireligioso da mandare in onda? Non avete capito che il demonio oggi è altrove e veste diversamente? Cercatelo tra i politici che non si mettono d’accordo mentre il Paese affonda, tra i burocrati che appesantiscono di carte l’economia così da farla implodere, le parrocchie che non si occupano dei poveri, gli ecclesiastici che si mettono in mostra per far carriera, i vescovi che “credono” di esprimere il Vangelo con riti pomposi, le lobbies internazionali che in maniera lucida e disinvolta mettono in pericolo l’economia del mondo, i magnati che spremono il sangue dei poveri, i governanti che spendono il denaro dei sudditi comprando armamenti ed aerei da combattimento…. ed altri ancora. Là, di certo, troverete il demonio e i suoi amici! Però, per debellarlo, ci vuole ben altro che un prete esorcista, le sue benedizioni e la sua acqua santa!

Di certo quel frate spenderebbe meglio il suo tempo se tentasse di educare al coraggio, all’onestà, alla coerenza, all’impegno civile, lasciando a chi è del mestiere curare gli psicopatici, gli esauriti o i perversi!

La responsabilità dei testimoni

In questa società, che è stata definita “liquida” perché molti sono arrivati a concludere che non ci sono più verità certe, valori assoluti, persone attendibili, sento il bisogno di aggrapparmi a qualcosa che tiene, qualcosa che regga. Tutti, credo che abbiano bisogno di questi punti di riferimento e di ancoraggio.

Ho già scritto di aver partecipato ad una conferenza di Cesare Maestri, la famosa guida alpina, alpinista trentino di sesto grado che è anche un ottimo narratore. Ricordo che in una bella serata organizzata dall’associazione culturale della mia vecchia parrocchia, egli ci raccontò alcuni episodi delle sue imprese di scalatore. Ne ricordo uno in particolare.

Un tardo pomeriggio si scatenò una bufera improvvisa mentre lui arrampicava lungo una parete ripidissima. A causa di questa bufera non poteva più né salire né scendere. Non gli rimase allora che piantare un chiodo sulla roccia, appendervi la sua amaca ed aspettare. Sotto di lui c’era uno strapiombo di quattrocento metri, la sua salvezza dipendeva esclusivamente dalla tenuta di quel chiodo!

Ricordo ancora i brividi di angoscia che ho provato mentre egli con bravura, intercalando l’italiano con qualche battuta in trentino per rendere più efficace il racconto, descrisse la situazione quanto mai drammatica, nel sentire che la sua vita dipendeva dal chiodo conficcato nella roccia.

Ebbene, ogni volta che qualcuno tenta di smontarmi o cerca di far cadere qualche mia convinzione profonda, o che qualche testimone a cui faccio riferimento frana dal piedestallo in cui l’ho posto, avverto il brivido dello “strapiombo”, il venir meno di un mio punto di presa.

Qualche mese fa i mass media ci hanno informato del dramma di Pistorius, il giovane sud africano che perse le gambe da bambino ma che, con caparbietà, tenacia e determinazione riuscì a diventare un campione, nonostante le sue “gambe di ferro”. Le doti di questo ragazzo mi han riempito l’animo di ammirazione: un uomo senza gambe che diventa campione di corsa è una cosa veramente straordinaria, che offre la prova che dentro di noi abbiamo delle stupende risorse.

La mia delusione però, di fronte al suo gesto brutale e feroce, è stata veramente grande e mi ha fatto capire che se dentro di noi vengono a mancare i valori dello spirito, si può incorrere in bassezze veramente deludenti. Chi nella società riesce ad emergere ha la grave responsabilità morale di non far venir meno il sostegno morale della sua testimonianza.

Un “filone d’oro”

Ho letto un’affermazione che mi ha colpito e mi ha fatto riflettere. In un libro di meditazione l’autore diceva che l’uomo è come l’acqua di una sorgente che sgorga dalla roccia e scende verso la pianura. Se quest’acqua è incanalata diventa energia e si trasforma in luce, altrimenti finisce per imputridirsi nella palude melmosa.

Ho pure letto un’altra storiella ancora più convincente, che non ricordo bene, ma che diceva pressappoco così. Il Signore versa ogni giorno sul conto corrente personale di ogni uomo un importo consistente che però deve essere speso entro la giornata, altrimenti va bruciato come avviene ogni giorno quando in banca si registrano le perdite senza che l’intestatario abbia deciso e fatto alcuna operazione. Morale: il buon Dio ogni giorno offre ad ogni uomo una “somma” consistente di intelligenza, di amore, di possibilità, ma se questa somma non la si impiega in maniera fruttuosa a mezzanotte il versamento va sprecato e non aumenta il conto in banca.

Gesù ha annunciato questa verità attraverso la parabola dei talenti, affermando che l’uomo che ha sepolto il suo talento, non solo non riceve alcun premio, ma anzi va castigato.

Oggi le persone sagge denunciano, preoccupate, e talora giustamente sdegnate, gli sperperi colossali che avvengono nella nostra società. Migliaia e migliaia di tonnellate di pane, agrumi, verdura e di ogni altro genere alimentare, che potrebbero sfamare popoli interi, vanno sprecate.

Ebbene, quando penso ai miei concittadini – pensionati, casalinghe, persone che non fanno lavori logoranti, che hanno un orario di lavoro ridotto, che sono intelligenti, capaci, forti, e che lasciano che la loro ricchezza umana si imputridisca nella palude melmosa, o sia “bruciata” dall’inerzia e dall’egoismo, mi viene da disperarmi! Quante volte i miei appelli cadono nel vuoto! Quante volte tanta gente continua a perder tempo e a buttar via questi meravigliosi doni di Dio!

Si, ci sono anche persone che fanno autentici miracoli, che “fanno fiorire il deserto”, ma ce ne sono fin troppe che si chiudono in un egoismo che le distrugge senza che se ne accorgano.

Al “don Vecchi” abbiamo scoperto un “filone d’oro” col quale potremmo distribuire ogni giorno quindici-venti quintali di frutta e verdura ed arrischiamo che vadano perduti, mentre tanti ne avrebbero estremo bisogno, perché in una città di duecentomila abitanti non riusciamo a trovarne una decina che si renda disponibile a dare una mano ai poveri e a guadagnarsi il Paradiso a buon mercato!

Perché la gente non canta più?

Potrà sembrare strano che un vecchio prete si interessi di Sanremo e delle canzonette, però anche questo fa parte della vita ed io voglio vivere nel cuore della vita del nostro tempo e non ai suoi margini o nei suoi binari morti. Non ripeto la mia età per giustificare questi miei pensieri e credo che tutti convengano e comprendano che ogni uomo è legato al suo “piccolo mondo antico” in cui è nato e si è aperto alla vita. Ora il mio piccolo mondo antico è scomparso o è al tramonto. Mi permetto quindi una confidenza fatta da un vecchio alla gente d’oggi, fatta con discrezione e rispetto, sperando che possa essere accettata e, semmai, fatta motivo di verifica e di discussione.

Quando io ero bambino, adolescente e pure in quella giovinezza che mi ha accompagnato fino agli anni del dopoguerra e della ricostruzione, la gente cantava per strada, mentre lavorava, quando faceva filò nelle stalle per stare al caldo. Anche a quei tempi s’aggiungevano sempre nuove canzoni, ma sempre erano motivi che cantavano tutti, tutti conoscevano e creavano un’atmosfera dolce e serena, nonostante i tempi molto più difficili di quelli di oggi.

Mio padre faceva il carpentiere e ricordo che quando gli portavo il cestino col mangiare, i manovali e i muratori che costruivano le case, cantavano mentre posavano le pietre, facevano la malta o preparavano le capriate. I salariati che zappavano i campi del granoturco, delle barbabietole o raccoglievano i fagioli, cantavano, tanto che era un gusto sentire questi cori che non avevano bisogno del maestro o dell’accompagnamento di strumenti; la gente cantava anche alla sera quando si riuniva dopo cena.

Io ricordo le canzoni che seguirono i vari anni. A parte i canti di montagna, avrei un indice infinito di canti che la gente intonava di gran gusto. Ne cito alcuni, come mi vengono, alla rinfusa, tenendo conto degli anni in cui sono fioriti: O campagnola bella, La casetta in Canadà, Chitarra romana, Arrivederci Roma, Vecchio scarpone, Come pioveva, Il merlo ha perso il becco, Era una notte che pioveva, Faccetta nera, Il cappello che noi portiamo, Il tango delle capinere, Torna a Surriento, Mamma, Ventiquattromila baci, Voga e va, Rosamunda, Vola colomba, Vecchio frac, Nella vecchia fattoria, Non ti scordar di me, Romagna mia e via di seguito.

Mi pare che questo fiume canoro si sia fermato a “Volare” di Modugno. Poi silenzio! Per strada e quando la gente si ritrova assieme, nessuno canta più. Solamente i miei vecchi, quando han bevuto un po’, intonano “Viva Venezia”, ma anche loro lo fanno al chiuso.

Gli uccelli continuano imperterriti a cantare in cielo, nonostante il passare degli anni, ma gli uomini del nostro tempo hanno relegato i canti a Sanremo o dentro le cuffiette che si mettono nelle orecchie.

Ho paura che anche il canto sia stato avvelenato dai soldi e sia sintomo di una società ammalata di solitudine e di tristezza.

Non è male, quindi, che ascoltiamo sant’Agostino che sta a ripeterci: «Canta e cammina!».

L’altra sponda

Da sempre, lo voglia o no, mi lascio coinvolgere dalle esperienze che vado facendo. Non riesco a stare alla finestra a guardare stupito, curioso, sornione o disinteressato; sento la necessità di scendere nella mischia, desidero vederci chiaro, sono costretto a cercare argomenti per prendere posizione.

Il cardinale Martini ha scritto che dentro il cuore di ogni uomo c’è il credente, ma c’è pure l’ateo che obbietta, che mostra l’altra faccia della medaglia, ed ha pure aggiunto che non è opportuno cacciare il miscredente, perché è quello che ti purifica, ti costringe a mettere a punto il problema, che ti obbliga a motivare, da un punto di vista esistenziale e razionale, le tue scelte sulle varie problematiche della vita.

A proposito di tutto questo ritorno ancora una volta sul messaggio pasquale della Resurrezione di Cristo, pegno della nostra sopravvivenza e della vita eterna. Il laico, il miscredente che è in me, lo voglia o no, sta là ad insistere: “La tua presunta fede sulla vita eterna è immotivata, la risposta cristiana è solamente consolatrice, nessuno è mai tornato dall’aldilà per attestarne l’esistenza, al massimo l’uomo sopravvive nella specie, ma non a livello personale”.

La rivelazione mi aiuta a supporre l’esistenza dell’altra sponda, però non mi offre una prova apodittica determinante. L’elemento che convince me ad accettare la scelta cristiana dell’esistenza dell’altra vita è che ci sarà finalmente una risposta esaustiva a tutte le mie attese, che possiederò finalmente una felicità, un amore ed una verità totale. Tutto questo me lo garantisce un istinto profondo e primordiale connaturato alla mia stessa esistenza, la quale non ha bisogno di dimostrazioni razionali per confermarmi il mio esistere, coscienza che mi assicura che c’è l’altra sponda, che la vita non sbocca nella morte, che il mio tendere, il mio cercare, la mia fatica, non sono una beffa ed una illusione che la morte spazza via in un sol colpo ed in maniera inesorabile.

Ho visto un film su Cristoforo Colombo. Il navigante genovese aveva percepito nel profondo che ci doveva essere un’altra sponda, quella che lui aveva chiamato Indie. Contro tutto e contro tutti riesce ad armare le sue tre caravelle, ad ingaggiare una ciurma che lo segue poco convinta e a prendere il mare verso una sponda che nessuno aveva mai visto ed alla quale nessuno era mai arrivato. La razionalità libresca era di certo contro di lui. Ricordo un momento terribile quando, dopo settimane e settimane di navigazione, Colombo ha davanti solamente cielo e mare infido. La ciurma ha paura, è tentata di ammainarsi, lui pure ha dubbi atroci mentre guarda l’orizzonte sconosciuto e misterioso, ma decide di proseguire e di giocarsi tutto, nell’intuizione che supera la logica banale di tutti gli altri.

Io pure, vecchio, stanco, dubbioso, avverto di dover ascoltare il credente che è nel profondo del mio essere e punto sul positivo, sulla resurrezione, sulla sopravvivenza e sulla vita eterna. La pensino pure come credono gli altri, ma io gioco la mia vita e credo all’angelo che duemila anni fa disse alle donne: «Egli è risorto e non è più qui, lo incontrerete più avanti!».

Il pericolo!

Queste note le ho buttate giù il giorno di “Pasquetta”, giornata di pausa e di ripensamento sul “mistero” pasquale. Quest’anno due esperienze mi hanno messo in allarme circa la mentalità con cui l’annuncio della Resurrezione viene recepito da tanta gente credente e non credente del nostro tempo. Da queste ho avuto la sensazione che c’è attualmente una mentalità che svuota letteralmente il grande messaggio e lo rende poco più che banale.

Prima esperienza: mentre mi recavo in macchina in chiesa per celebrare la messa di Pasqua, ho sentito il solito Pannella, logorroico all’ennesima potenza, che terminava uno dei suoi soliti sproloqui augurando agli ascoltatori di Radio Radicale: «Buona Pasqua!» Mi sono domandato subito: “Che cosa significa la Pasqua cristiana per Pannella?”.

Seconda esperienza, più drammatica e seria della prima: una madre molto anziana ha perduto una figlia e da mesi piange disperata sulla morte della sua creatura. Sorridere e stupirsi sull’augurio di Pannella è facile, non comprendere il dolore di una madre è impossibile anche per un non credente.

Con parole affettuose ho tentato di consolare questa donna dimostrandole affetto e comprensione, però mi è sembrato che le parole di conforto sortissero l’effetto opposto da quello desiderato, perciò feci appello alla sua fede dicendole che lei, essendo molto anziana, avrebbe reincontrato sua figlia quanto prima.

Niente! Allora mi sono posto la questione di fondo: “che cosa rappresenta la Pasqua per la gente di oggi, sia per chi non crede, come Pannella, sia purtroppo, anche per chi crede, come la mia coinquilina”.

Gli auguri e le feste di Pasqua sono comunque una cosa gradevole, magari che ogni giorno fosse la festa di Pasqua! La Pasqua cristiana è però tutt’altra cosa: essa è il messaggio che la vita è un cammino verso la Terra Promessa, la casa del Padre, che la vita ha una meta raggiungibile che giustifica la fatica, la sofferenza e soprattutto la ricerca di una felicità completa.

Da sempre vado ripetendo che la nostra vita è, tutto sommato, un bel dono, è un’esperienza e un’avventura che vale la pena di essere vissuta. Quante cose belle non incontro nel mio vivere! E quanto ancora più felice potrei essere se fossi più saggio e se ascoltassi di più gli insegnanti del Vangelo!

Però debbo pur dire che quello che ho trovato e quello che trovo tutt’oggi quaggiù non mi basta. Ho bisogno di assoluto, di pienezza, di sicurezza. Sono d’accordo con sant’Agostino quando dice: «E’ insoddisfatto, Signore, il mio cuore, finché non riposerà in Te». Questa è la Pasqua cristiana, mentre quella di Pannella e della mia coetanea è solamente una patacca dorata ma senza valore.

Tracce del Risorto

Durante il pomeriggio del giorno di Pasqua mi sono concesso il lusso di un po’ di televisione. Il cimitero ha chiuso, come ogni anno, alle 12, motivo per cui nel pomeriggio non avevo la preoccupazione di chiudere la mia “cattedrale”, né avevo altre urgenze.

Alla domenica pomeriggio si concentrano contemporaneamente tre programmi che, per motivi diversi, mi interessano quanto mai: “L’arena”, condotta dal bravo Giletti, “Mezz’ora” della Annunziata, passionale ma acuta, e “Alle falde del Kilimangiaro”, un programma con cui la bella Licia Colò, donna accattivante e piena di fascino, presenta in un piatto d’oro le più splendide bellezze di quel nostro mondo che gli uomini non sono ancora riusciti a distruggere.

Optai, pur con qualche perplessità, per Giletti, ma arrivai un po’ tardi perché il pisolino pomeridiano si prolungò più del solito, appunto perché ero disteso e non avevo urgenze. Giletti intervistò per prima Dori Ghezzi, ed in quella occasione appresi che era la vedova del cantastorie Fabrizio De André, il cantautore che assieme a Branduardi ascolto molto volentieri perché le loro canzoni sono talora piene di sentimento, talaltra sornione, dolcemente ironiche, ma sempre cariche di una calda umanità. Della Ghezzi ho ammirato l’intelligenza, l’amore fedele per il suo Fabrizio e la dedizione assoluta con cui lo ha accompagnato fino alla fine. M’è parsa una donna vera, ricca di umanità e di talento.

Poi Giletti ha intervistato il cantante Gigi D’Alessio, un giovane del sud che per seguire la sua “vocazione” spese ogni suo avere, cosciente d’avere un talento e qualcosa di valido da offrire al nostro pubblico. Mi piacque quanto mai la delicatezza, la convinzione e la tenerezza con le quali ha parlato della sua giovane sposa e della sua bambina. Credo di non aver mai sentito, in nessun corso di preparazione al matrimonio, o di spiritualità matrimoniale, parlare in maniera così convinta, pulita e convincente del matrimonio e della sacralità dell’amore sponsale. Oltre a questa seria testimonianza D’Alessio dimostrava la sua solidarietà regalando un pianoforte ad un collega fallito: un gesto fatto con modestia, ma pure con assoluta convinzione, senza vanto, senza rispetto umano.

La terza intervista Giletti l’ha fatta ad un attore che, a quanto mi dice suor Teresa, è quanto mai noto e professionalmente valido. Il giornalista ha chiesto – così di passaggio, quasi fosse un elemento marginale e non pertinente – di dire qualcosa sulla sua fede. E questo signore, di cui s’avvertiva il talento e la bravura, ha risposto con candore e spontaneità: «Per me la fede è un punto di forza, un supporto di fondo nella mia vita e nella mia professione». Dire queste cose in sacrestia è facile e scontato, ma affermarlo in un ambiente laico, scettico e pieno di compromessi di ogni genere, è veramente edificante.

La mia Pasqua di quest’anno è stata bella anche perché ho incontrato questi testimoni credibili del Risorto i quali, pur senza volerlo, mi hanno fatto intravedere il Suo volto.