Con amarezza sconfinata, da un mese a questa parte, sto seguendo sul Gazzettino l’ultima enorme impresa truffaldina di un grosso imprenditore locale – e dei suoi collaboratori ed adepti – che riusciva ad accaparrarsi i più grossi lavori e che evadeva bellamente le imposte.
A parte il fatto che credo sia ormai impossibile in Italia poter lavorare senza evadere perché la tassazione per mantenere l’impalcatura statale e comunale è così gravosa che diventa comprensibile che le imprese vadano nei Paesi vicini dove le tasse sono minori, la burocrazia più agile e veloce e l’energia meno cara. Ho la più ferma convinzione che finché in Italia non si troverà il coraggio e la forza di sbaraccare un apparato pubblico inefficiente, sovraffollato, costosissimo, pieno di privilegi e assai più complicato di quello di “Franceschiello”, sarà assolutamente inevitabile che, nonostante la magistratura, la finanza, il fisco e quant’altro – che sono pure parte integrante del sistema – coloro che ci riescono portino i soldi nei paradisi fiscali o delocalizzino le loro aziende.
Non giustifico assolutamente le malefatte dei “furbi” però, con altrettanta onestà, debbo denunciare di immoralità, di malcostume, ingiustizia, prepotenza e malversazione, della sua filiera banche comprese.
Una concausa di tutte le ruberie è certamente l’organizzazione pubblica del nostro Stato.
Io che non sono un imprenditore, ma un operatore sociale, vivo sulla mia pelle questo dramma. In questa occasione la sorpresa è stata ancora più forte venendo a sapere che il pubblico ministero che segue la vicenda di cui parlavo è l’avvocato Stefano Ancilotto, il ragazzino di un tempo, conosciuto in parrocchia. Stefano era un ragazzo lucido, intelligente, deciso. Egli ha ereditato dal padre questo tipo di personalità forte e volitiva – della dolcezza della mamma credo abbia preso poco. Ricordo che, giovane magistrato, l’avevano mandato nel profondo sud, impero indiscusso della mafia. Ho pregato spesso per lui, avendo la sensazione che corresse tanto pericolo, anche se lui più volte mi ha assicurato di essere piuttosto tranquillo.
Poi ero venuto a sapere che s’era sposato ed era rientrato nella nostra terra. Per lungo tempo non ne avevo più sentito parlare ed essendo uscito dalla parrocchia non avevo più avuto occasione di incontrare i suoi genitori, la sorella e le zie. Pensavo che fosse stato assorbito da quel mondo particolare dei tribunali e della giustizia.
Sennonché, in queste ultime settimane, “il mio Stefano” è riemerso come protagonista lucido e autorevole. Ho ripreso a pregare per lui, da un lato perché quel mondo spietato di cui sta occupandosi non gli faccia male, e dall’altro perché la sua passione per la giustizia non finisca a far del male a quel mondo di dipendenti che vive delle briciole dei loro padroni, ma che comunque ha bisogno assoluto anche delle “briciole che cadono dalla mensa”.