Il volto del risorto

C’è un detto popolare che definisce fin troppo bene certi atteggiamenti dei creduloni in genere ed in particolare dei fedeli che ascoltano i sermoni domenicali. Esso afferma: “Certi `cristiani’ non si scomporrebbero per nulla anche se il prete dicesse loro che il diavolo è morto di freddo”, e si rifà al fatto che la dimora specifica del diavolo è l’inferno, luogo che una certa tradizione religiosa pensa come una fornace ardente.

Quest’anno, in occasione della Pasqua, mi è tornato in mente questo detto e mi ha tormentato come un moscone fastidioso il discorso sulla realtà del Risorto. La Pasqua infatti è un mistero cristiano che ruota tutto attorno al mistero della Resurrezione. Alle donne che di buon mattino, quando era ancora buio, andarono sospinte dalla nostalgia e soprattutto dall’amore, verso la tomba di Gesù, portando aromi per profumarlo e fiori per esprimergli amore, l’angelo disse: «Colui che voi cercate è risorto, non è più qui, dite ai discepoli che lo potranno incontrare in Galilea».

Ci sarebbe un discorso pure da fare anche su questo “angelo”, ma oggi mi voglio invece soffermare sull’immagine e la realtà di Gesù dopo i tre giorni passati nella tomba, per chiedermi quale sarà stato il volto, la persona del Risorto. In passato io ho sempre pensato a Gesù Risorto – ma credo che lo pensino anche tantissimi cristiani – come alla visione di una persona bella, luminosa, quasi come un sogno meraviglioso. Il vangelo dice che Gesù è apparso alle donne, ai discepoli di Emmaus, agli apostoli nel cenacolo, in riva al mare mentre Pietro e i colleghi stavano pescando, e perfino ad un gruppo di cinquecento persone, sempre con un aspetto umano. Faccio fatica a pensare a questo “fantasma benefico” apparso solamente duemila anni fa e, tutto sommato, a relativamente poche persone, mentre noi, che abbiamo gli stessi dubbi e le stesse esigenze dei nostri predecessori, rimaniamo “a bocca asciutta”.

Sono arrivato quindi pian piano alla conclusione che il Cristo Risorto, ossia Gesù dopo la morte, lo si può incontrare nelle persone che vivono seriamente il messaggio di Gesù, che pronunciano le sue parole, coltivano gli stessi sentimenti, si comportano come lui è vissuto e realizzano, in una parola, quello che ha affermato san Paolo: “Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me!”. Chi realizza tutto ciò dà volto al Risorto.

Questo modo di poter riconoscere ed incontrare il Risorto, dà modo anche a me e a qualsiasi persona di ogni tempo di poter incontrare ogni giorno e in ogni dove il nostro “dolce Cristo in terra”. Di questo dono ricevuto per la Pasqua 2013 sono molto grato al Signore.

Il guru

Qualche giorno fa mi è giunto dal parroco di Dese un opuscolo in carta patinata, corredato da belle foto, con un commento al “Padrenostro” scritto da alcuni sacerdoti e laici della nostra Chiesa e con uno scritto di don Tonino Bello e di don Primo Mazzolari, i due più bei profeti del nostro tempo. Don Emilio Torta è un prete intelligente e caro, che da un po’ di anni promuove questa bella e simpatica iniziativa pastorale in occasione della quaresima.

A me piacciono i preti impegnati per la loro parrocchia, ma più ancora quelli che tentano di fare un discorso nuovo che superi l’ombra del proprio campanile.

Parlando con don Gianni, mio simpatico e giovane successore sia in parrocchia che alla presidenza della Fondazione, gli chiesi se conosceva l’iniziativa di don Torta e, meglio ancora, l’associazione che promuoveva l’opuscolo. Non avevo mai sentito dire che in diocesi esistesse un’associazione cattolica o parareligiosa con questa testata: “Gaia, associazione onlus”, tre frecce di colore diverso che si rincorrono lungo la circonferenza di uno spazio bianco, con dentro un alberello stilizzato con alcune foglie su tre rami.

Don Gianni tirò fuori di tasca il cellulare, cominciò con la punta dell’indice a picchiettare veloce i tasti e in quattro e quattr’otto venne fuori che “Gaia” significa “terra” ed è il simbolo della dottrina del guru del Movimento 5 stelle, quel Casaleggio con una gran capigliatura che gli copre la vista e attraverso la quale, come le donne, è costretto ad aprirsi costantemente un pertugio per vederci.

Avevo già sentito che questo Casaleggio, superesperto di computer e del mondo digitale, era l’eminenza grigia e la mente pensante di Beppe Grillo, il pifferaio che ha incantato gli italiani e li sta conducendo verso l’ignoto.

Il telefonino riassumeva in poche parole la dottrina di questo moderno teosofo che profetizza che il mondo digitale renderà inutili e farà scomparire le religioni, i partiti politici e i governi e ci sarà un modo assolutamente nuovo di vivere a questo mondo. “Gaia”, che significa terra, è per lui una specie di nuova divinità onnicomprensiva, che abbraccia e farà vivere più felicemente gli uomini del futuro.

Telefonai a don Torta per chiedere chiarimenti sulla sua iniziativa, sembrandomi strano che, da persona intelligente qual’è, si fosse lasciato coinvolgere da una teoria così fumosa e pochissimo razionale. Egli mi rassicurò dicendomi che la sua “Gaia” era invece un’associazione di mutuo soccorso presente nella sua precedente comunità quando era parroco nel litorale.

Sono rimasto invece grandemente preoccupato dalla “Gaia” di Casaleggio, una dottrina che suggerisce una ideologia e dei comportamenti molto simili a quelli adottati da Hitler per narcotizzare i tedeschi, scalare il potere, per arrivare alle nefandezze compiute dal nazismo. D’ora in poi aprirò ben più gli occhi sulla “Gaia” che, come nuova Circe, sta già determinando scelte e comportamenti non solo incomprensibili, ma stravaganti ed irrazionali della nuova ed improvvisata classe politica appena apparsa all’orizzonte del nostro Paese.

Il cespuglio di orchidee

Io abito in uno dei 315 alloggi dei Centri don Vecchi. Il mio alloggio è pressappoco grande come gli altri ed è situato in via delle rose, che rappresenta il “corso” principale del borgo degli anziani di Carpenedo. Ho, lo confesso, un privilegio, ossia uno studiolo, perché pensavo un tempo che mi potesse servire per qualche colloquio riservato, come avveniva quando ero in parrocchia. Alla prova dei fatti, quando mi serve, adopero uno dei tanti salotti, più o meno grandi, che sono a disposizione di tutti i residenti.

Il mio alloggio è piccolo, 49 metri quadrati, ma funzionale e grazioso: un soggiornetto con angolo cottura, la camera da letto, il bagno e perfino un poggiolo che s’affaccia sul grande prato incolto della Società dei 300 campi. Il mobilio è semplice, ma gradevole e le pareti sono tappezzate di splendide icone russe. Pur avendo abbandonato il grande stabile bianco del settecento che si affianca alla chiesa e che la mia perpetua diceva essere “un municipio” per la grandezza e l’andirivieni continuo di persone, mi sono adattato al mio piccolo guscio di noce e lo trovo quanto mai grazioso e gradevole.

Pago l’affitto come tutti, ben felice della mia dimora e non invidio di certo gli appartamenti più grandi e signorili o le villette che certi miei colleghi si sono costruiti per la loro vecchiaia. Al “don Vecchi” si respira l’aria di un paesino di campagna, raccolto intorno al campanile, ove tutti si conoscono e si salutano con amicizia. La vita scorre tranquilla e, come in ogni paese, l’osteria, che chiamiamo “bar” per essere moderni, è collocata nella “piazza grande” e rappresenta il cuore pulsante della comunità.

La mia casa è di per sé accogliente, ma molto spesso è ingentilita da piante in fiore che i miei “concittadini” mi regalano per i motivi più diversi. Da qualche giorno rallegra il soggiorno un bellissimo ceppo di orchidee bianche con una macchietta rossa al centro delle corolle. Mi piace, mentre scrivo sul grande tavolo, accarezzare con lo sguardo questi fiori silenziosi che se ne stanno appartati in un angolo della stanza, rendendo ancora più dolce il soggiorno. Papa Francesco direbbe che sono una “carezza” che dobbiamo accettare come un dono ed un segno di affetto. Queste orchidee me le ha regalate un gruppettino di giovani assistenti moldave ed ucraine che si prendono cura, notte e giorno, di tutti noi anziani del “don Vecchi”.

Questi fiori, che mi sono giunti da persone arrivate da noi da Paesi “in capo al mondo”, sono ora per me un segno di fraternità che apre il cuore ed una visione calda che non trova ostacolo né per le Alpi né per la lingua, motivo per cui mi sento, pur nel mio piccolo guscio, nel cuore dell’universo.

Ottantaquattro anni

C’è sempre qualcuna delle persone più vicine a me che mi rimprovera amabilmente perché “io dico tutto!”.

Quando ero in parrocchia, ero solito pubblicare su un bollettino parrocchiale, tutte le offerte che ricevevo. In verità, anche da questo lato, io mi ritengo un uomo fortunato, perché mentre alcuni colleghi si piangono addosso dicendo che la gente non è generosa, io ho sempre riscontrato l’opposto, forse anche perché ho puntato a sottolineare la generosità dei miei parrocchiani piuttosto che l’avarizia.

Ricordo un vecchietto di via Guido Negri – una strada di Carpenedo – che era solito fare la somma di quanto dichiaravo d’aver ricevuto durante la settimana e si meravigliava dell’entità. Gli amici mi suggerivano di smettere di pubblicare le offerte. Io però non sono mai riuscito a capire perché, se incontro qualcosa di bello, non lo si debba confidare alle persone con cui vivo. In fondo alle stesse persone segnalo tutte le meschinità che incontro sulla mia strada.

Ho compiuto ottantaquattro anni il 15 marzo. Quest’anno la data cadeva di venerdì; quindi, non per superstizione, ma perché al “don Vecchi” ci saremmo incontrati l’indomani per la messa prefestiva, decisi di festeggiare questa data importante appunto di sabato. I festeggiamenti sono consistiti in una bella messa celebrata assieme, qualche preghiera specifica, molti doni semplici, ma fatti col cuore, un brindisi e la torta offerta con la solita generosità dalla ditta di pompe funebri Busolin, e i pasticcini offerti dal catering “Serenissima ristorazione” che serve i pasti al “don Vecchi”.

In tale occasione tutti si aspettavano una parola ed io ero cosciente di doverla dire (quando si vive in famiglia è giusto mettere tutto assieme). Iniziai dicendo: «Cari amici, vi garantisco, per esperienza diretta, che almeno fino agli ottantaquattro, la vita è bella e si può essere contenti. Vale la pena di vivere con fiducia, di far di tutto per aiutare gli altri, di non risparmiarsi perché l’impegno allunga e rende più bella la vita piuttosto che accorciarla e renderla più faticosa. Di queste cose ero, e sono, pienamente convinto, ed essendo la mia vita sotto gli occhi di tutti, spero di esserne un testimone credibile.

Qualcuno dice che sono “una roccia”, quasi non mi costasse l’impegno. Non è vero, sono invece un pover’uomo soggetto a paure, entusiasmi e scoraggiamenti ma anche, su suggerimento del fondatore degli scout – a lui devo molto – voglio essere io al timone della mia barca e, nonostante tutto, voglio lasciarmi indirizzare dalla “stella polare”!

La tenerezza

Un paio di anni fa è morto uno dei direttori della nota rivista “Famiglia cristiana”, don Zega, un discepolo di don Alberione, che è stato il testimone e il profeta del nostro tempo, che ha insegnato ai cattolici della nostra nazione un uso più serio dei mezzi di comunicazione sociale. In quella occasione scrissi più volte di questo giornalista intelligente, brillante, ma soprattutto ricco di umanità e carico di messaggio cristiano.

Don Zega, come tutti gli uomini seri e coerenti, non ebbe vita facile neppure all’interno della sua comunità. Poi, come avviene quasi sempre, una volta morto, la sua rivista e pure i periodici di ispirazione religiosa, si diedero un bel daffare per erigergli un “monumento funebre” quanto mai specioso. Io però ho colto la solitudine, la sofferenza di questo discepolo di Gesù che ha tentato di essere fedele al Vangelo col cuore, con la testa e con la penna.

In uno dei tanti servizi di “Famiglia cristiana” che rendevano onori postumi a questo giornalista dal volto umano, ricordo di aver appreso che in occasione del suo cinquantesimo di sacerdozio era ritornato nel suo povero paese natio e durante il discorso delle sue “nozze d’oro” con la Chiesa, aveva affermato che noi preti dovremmo essere soprattutto testimoni della “tenerezza” di Dio.

Questa frase, che faceva brillare di luce splendida il cuore di Dio, mi aveva davvero colpito, tanto che vi sono ritornato più volte, leggendo nel Creato, ricco di bellezza sovrana, il tocco della “tenerezza” di Dio che ci raggiunge in ogni tempo e in ogni luogo per accarezzare con dolcezza il nostro cuore.

Cosa mi capita di vedere e di sentire in questi giorni? Il Papa che ripete con insistenza che dobbiamo credere nella tenerezza, non temerla, perché è un mezzo per far sentire il battito del cuore di Dio agli uomini del nostro tempo, così soli e bisognosi di un amore semplice e dolce. Ma soprattutto con stupore ho spalancato gli occhi vedendo Il Papa che dà un bacetto sulla guancia alla presidentessa dell’Argentina che, da quanto so, è una “grimetta” di donna non facile. Quella lady dal cappellino sulle ventitrè in maniera un po’ spavalda e da primadonna, ha detto che pensa di essere la prima donna ad essere baciata da un Papa. Io penso che quel bacetto inaspettato e forse – anzi senza forse – immeritato, non le permetterà mai più di immaginare la Chiesa come una suocera impicciona, ma la farà sentire come una madre buona che tutto sa comprendere e perdonare.

Ora tocca a noi!

Assai di frequente da qualche tempo faccio fatica a trovare temi convincenti su cui riflettere, tanto che confidai alla mia “Beatrice” che se non avessi trovato argomenti per me validi, e capacità di esprimerli in maniera decente, avrei chiuso con questo “diario” che ogni settimana mi sembrava sempre più logorroico e pedante.

La signora Laura, mia “maestra” di sempre, che ha la bontà di non fare segnacci con la matita rossa o blu, ma che si dà invece da fare per tentare di riordinare i miei scritti selvaggi, è stata quanto mai materna in questi ultimi tempi, dicendomi, con una graziosa bugia, che anche le ultime pagine le erano piaciute, mentre a me destavano angoscia e repulsione.

Ebbene, vi confesso, amici cari, che questo Papa ha messo le ali al cuore a me ed anche alla mia povera penna biro, tanto che mi trovo in difficoltà a scegliere i migliori tra i suoi gesti veramente profetici. Erano davvero decenni che sognavo l’arrivo di qualcuno che inverasse il discorso del Concilio Vaticano Secondo, qualcuno che indicasse, come obiettivo assolutamente necessario, quello della “Chiesa dei poveri”.

Papa Francesco ha aperto il suo discorso con i fedeli della sua diocesi e con i cristiani del mondo intero, dicendo che sognava e si impegnava per una “Chiesa povera” che cammini con i poveri e per i poveri. Questo discorso è stato delizia per il mio animo, perché non riuscivo proprio a capire chi potesse ancora credere ad una Chiesa opulenta, amica dei ricchi, che vestiva “di porpora e di bisso” come nella parabola di Lazzaro e del ricco epulone, che trafficava con operazioni speculative e spericolate con denaro di dubbia provenienza e di ancor più dubbia destinazione.

Ora almeno so, con certezza, che sono almeno dalla parte del Papa e che le scelte che ho tentato di fare finora non sono state del tutto sballate. Credo che ora nessuno mi potrà più fare osservazioni quando continuerò a ripetere quello che sono andato dicendo spesso in tanta solitudine: che la comunità parrocchiale non può illudersi di essere una comunità cristiana se non si attrezza ad aiutare in maniera seria i poveri, e così una diocesi se non impegna uno dei suoi membri migliori per stimolare, ordinare e metter in rete la carità; che un cristiano non ha diritto di arrogarsi di questo nome se non si dà da fare ad ogni livello per farsi carico dei fratelli più fragili.

So che non ho diritto di “scagliare pietre”, però spero che non ci sia più alcuno che tenti di nascondere “le sue vergogne” dietro una foglia di fico che il Papa ha eliminato fin dal suo primo giorno di ministero.

La predica del nuovo Papa

Il 19 marzo, giorno in cui Papa Francesco ha inaugurato ufficialmente la sua missione di vescovo di Roma e di vicario di Cristo per la Chiesa universale, ero costretto a casa per un attacco influenzale. Suor Teresa, forte del fatto che per una vita mi ha fatto da infermiera, mi aveva vietato, in maniera assoluta, di prender aria, perché per la mia età e per i miei trascorsi a livello di salute, uscire, a parer suo, era assai pericoloso.

Una volta tanto fui felice di avere l’influenza e del divieto di uscire per assolvere i miei impegni pastorali. Questo incidente di percorso mi ha permesso infatti di poter seguire dall’inizio alla fine l’intero servizio televisivo della prima messa, per Roma e per il mondo, del nuovo Pontefice.

Non vi sto a raccontare quanto sono stato felice di non riscontrare, una volta ancora, il “sacro folklore” in uso dal Vaticano, di scoprire che il Papa non indossava le scarpe rosse di Prada, “segno della disponibilità a versare il suo sangue per Gesù”, né la croce d’oro e tante altre coserelle del genere che, secondo alcuni, esprimerebbero la sensibilità del momento e della sua persona, affidando invece al suo sorriso, alla sua tenerezza e alla sua calda umanità il compito di mostrarsi un discepolo autentico di Gesù.

Non insisto su questi particolari perché i giornalisti sono stati tanto zelanti da sembrare persino pedanti nel sottolineare questi aspetti. Mi soffermo invece su un altro particolare, lasciandomi andare ad una confidenza che riservo solamente ai miei amici. Vi confesso, cari lettori, che è stata una delle poche volte che ho ascoltato con piacere ed ho capito la predica di un vescovo e di un Papa. Di solito mi rassegnavo a “far penitenza” per certi discorsi astrusi, preparati dagli “esperti”, che questi celebranti fanno perfino fatica a leggere, quando non mi appisolavo o pensavo ai fatti miei.

Finalmente ho capito quello che questo “prete” voleva dirci, ho condiviso il discorso e sono rimasto convinto che esso era il messaggio che interpretava il cuore di Gesù.

Se la prossima volta poi il Papa terrà in tasca gli appunti, come son solito fare anch’io, andrà ancora meglio, perché ho osservato che quelli che teneva in mano gli hanno creato una qualche difficoltà.

“Ho chiuso lunedì”

Conservo nel mio animo un vecchio ricordo che mi è ritornato tristemente a galla qualche giorno fa.

Al tempo in cui l’aereo che trasportava la squadra del Torino andò a fracassarsi sul colle di Superga, uno dei soliti giornalisti invadenti e poco rispettosi del dolore ha chiesto ad uno spettatore, che guardava sbigottito i resti fumanti dell’aereo in cui sono morti i famosi giocatori di calcio, che cosa provava di fronte a quel dramma. Quel signore rispose: «Quando leggi sul giornale di una tragedia del genere ti viene spontaneo sentire compassione, ma quando, come in questa occasione, è coinvolto un tuo amico, è tutt’altra cosa»!

Quando cominciammo a parlare del “don Vecchi” di Campalto, venne da me un signore ad offrirsi di farsi carico, con la sua azienda, a titolo gratuito, degli scavi e dell’asfaltatura, volendo collaborare alla realizzazione del nostro progetto benefico. Ebbene qualche giorno fa questo signore è tornato da me per dirmi che il giorno prima aveva dovuto chiudere la sua azienda, per cui non poteva mantenere la promessa fattami un tempo. Accorato, triste, frastornato, mi parlò della sua piccola azienda, dei suoi operai, della fatica di quarant’anni per crearsi un’azienda efficiente, aggiornata, motivo e vanto della sua vita. Quell’uomo aveva investito tutta la sua vita per realizzarla dal nulla.

«Ora, mi diceva, sono stato costretto a chiudere. La mancanza di lavoro, la chiusura del credito, la concorrenza di chi lavora in nero e sfrutta gli operai, m’hanno messo in ginocchio e se sarò costretto a vendere le macchine per le quali non mi daranno quasi niente».

A stento trattenne le lacrime, quest’uomo appena sessantenne, piegato e sconfortato di fronte al disastro della sua azienda.

Ora ho ben capito che altro è leggere sui giornali che le piccole aziende sono costrette a chiudere e che i piccoli imprenditori sono ridotti alla disperazione, ed altro è vedere lo sconforto, la desolazione e la rabbia di un uomo solo, impotente e tradito da una società che abbandona “gli sconfitti” come rifiuti inutili e ingombranti.

La logica dei discepoli del “dio denaro” che, ben mascherati, manovrano le banche, le borse e il mondo della finanza, è sempre stata egoista, arruffona e senza coscienza, ma oggi questa gente è finita al parossismo, non vede che il suo interesse, anche se le aziende affondano, gli operai sono per strada e i piccoli capitani di industria si tolgono la vita.

Quanta ragione ha Cristo quando dice: «Non si può servire Dio e il denaro!» e quando soggiunge: «E’ più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un ricco entri nel Regno dei Cieli!».

Per me c’è un’unica soluzione sicura e praticabile alla crisi di oggi: la conversione!

Una scelta provvidenziale

E’ il primo marzo. Mentre sto scrivendo questa pagina di diario non so quando sarà pubblicata. Il Papa, neanche da 24 ore, non è più Papa.

In questi ultimi giorni non si contano più gli amici, i lettori de “L’incontro” e i concittadini che mi han chiesto un parere sulle dimissioni del Pontefice. Su questo argomento hanno parlato talmente in tanti, tanto esperti e da tante angolature. Anch’io sono intervenuto ben due volte, la prima con la didascalia sulla facciata de “L’incontro” che abbiamo dedicato a papa Benedetto, e la seconda volta con una pagina di diario.

Ho già detto con chiarezza e convinzione la mia ammirazione e la mia gratitudine per quanto questo Papa ha fatto per la Chiesa e pure per la decisione di concludere in maniera diversa dai Papi degli ultimi secoli, il suo ministero di successore di san Pietro e di vescovo di Roma.

Già nei precedenti interventi ho accennato ad un aspetto particolare che a me pare quanto mai provvidenziale, ma sento il bisogno di ribadirlo, anche se mi rendo conto che è un discorso un po’ difficile da fare e più ancora difficile da ritenere positivo per Papa Benedetto.

A me è piaciuto che il Papa, come tutti i comuni mortali, abbia lasciato capire: “Sono vecchio, sono stanco, non ce la faccio più, desidero vivere in pace i miei ultimi giorni, sono nauseato ed impotente di fronte a tutti gli intrighi che ci sono in Vaticano, le cose mi scappano di mano, desidero leggere gli autori che mi sono cari, suonare un po’ l’armonium ed essere libero di fare qualche passeggiata in santa pace. Anche perché ci sono vescovi più giovani che possono fare meglio di me”.

M’è parso che con questa scelta il Papa sia voluto tornare ad essere uomo, uscendo da quel mondo in cui tutto è chiamato sacro, dal modo con cui ci si rivolgeva a lui (Sua Santità), al luogo ove abitava (i “sacri palazzi”), al modo in cui era costretto a vestirsi.

M’è parso tanto saggio che egli abbia voluto uscire da tutto quel marchingegno di tradizioni, di formalità e di ritualità sempre un po’ magiche, per reinserirsi finalmente nei ritmi normali di tutte le persone di questo mondo. Tutto questo l’ha capito anche il presidente Napolitano dicendo che la data di nascita conta.

Ben s’intende Papa Benedetto non riuscirà ad infrangere tutto quel mondo sacrale; ci sono infatti troppi interessi, troppe ambizioni, troppe consuetudini perché la sua scelta produca una svolta definitiva di umanizzazione. Comunque credo che lui abbia il merito di aver fatto la sua piccola grande parte.

A dire la verità fino in fondo, io avrei sognato che avesse preso in affitto un appartamento in una delle tante borgate di Roma dicendo al parroco relativo, che probabilmente è senza cappellani: «Vengo a dirti una messa alla domenica e se hai bisogno che io ti dia una mano per le confessioni dei bambini della prima comunione, lo faccio volentieri». Questo lo avrei più apprezzato che il suo ritirarsi a Castel Gandolfo ancora con guardie, dimora principesca, saloni e giardini favolosi.

Papa Benedetto ha fatto un passo verso lo stile di Gesù, ma credo che nella nostra Chiesa ci siano molti passi del genere ancora da fare.

La mosca bianca

Qualche giorno fa mi sono recato nella cella mortuaria per dare l’ultima benedizione prima che il legno della bara coprisse il volto di uno dei tanti fratelli e concittadini che ogni giorno silenziosamente e con discrezione ci precedono di qualche tempo nel regno dei cieli.

In quella occasione, ma spesso anche in altre, ero a conoscenza che il defunto non era granché praticante e che anche la sua famiglia era una di quelle che noi preti riteniamo appartenere al “mondo dei lontani”.

Da sempre scelgo, in questi frangenti, preghiere semplici e conosciute, evito salmi o preghiere di difficile comprensione e per nulla conosciute. Preferisco la recita di un padrenostro ai formulari che i liturgisti, gente del mestiere, hanno preconfezionato e si trovano nei libri sacri delle esequie.

Ho intonato il padrenostro, pensando che, come spesso avviene, nel triste luogo si sarebbe sentita solamente la mia voce, invece avvertii subito una voce calda e sufficientemente alta che si sintonizzò sulle parole della mia preghiera. Siccome la voce proveniva da un uomo che stava alle mie spalle, pensai che si trattasse di un catecumenale, amico di famiglia che, come tutti gli aderenti a questi movimenti ecclesiali, sono stati educati a pregare ad alta voce.

Finita la preghiera mi accorsi invece che si trattava del titolare di una delle imprese funebri più vecchie e più note della città. Questo signore è “una mosca bianca” della categoria perché, pur essendo gli addetti ai lavori inappuntabili nella divisa e nel comportamento, si guardano bene dall’aprir bocca, dal presenziare al rito, dal dare qualche segno di fede, pur essendo tutti battezzati e tutti si ritengano cristiani.

Il “rispetto umano” purtroppo anche oggi condiziona questa gente che pur da mane a sera è a contatto col mistero del dolore e della morte e perciò si trova nelle condizioni di toccare con mano e distinguere quello che conta da quello che è effimero. D’inverno pare preferiscano stare fuori al gelo piuttosto che partecipare alla preghiera comune nella chiesa riscaldata e d’estate starsene al solleone piuttosto che beneficiare della chiesa refrigerata.

Purtroppo il laicismo influisce anche su queste persone che, tutto sommato, sono brava gente, ma che pare temano di essere giudicate come gente di Chiesa pur essendo la Chiesa una componente essenziale del loro lavoro e della loro vita.

Il germoglio di una semente lontana

Qualche giorno fa la segretaria del “don Vecchi” mi ha passato una telefonata di un signore che chiedeva di me. Di primo acchito, sentendo questa voce sconosciuta che mi diceva: «Sono Matteo», rimasi un po’ disorientato. Sono infatti moltissimi i miei concittadini che conoscono me: prediche, articoli, interviste, mi hanno reso “noto” in città, mentre per me i volti e le voci, pur per scelta volendoli incontrare come volti e voci di fratelli, mi rimangono tuttavia sconosciuti.

Avvertendo la mia titubanza, quella voce virile mi precisò: «Sono Matteo Papa, l’obiettore di coscienza che ha prestato servizio civile al don Vecchi». Immediatamente mi ricordai del volto, poco più che adolescente, del ragazzo volonteroso, intelligente e sempre disponibile, che per un anno e mezzo fu di prezioso aiuto ai nostri anziani.

Matteo – certo che gli avrei dato una mano – mi raccontò una delle tristi storie di immigrati, spinti dalla miseria e dai regimi dittatoriali, nella nostra terra. Due coniugi del Marocco con quattro bambini, spinti dalla disperazione, s’erano rifugiati in una casa cantoniera della ferrovia attualmente disabitata. Freddo, mancanza di acqua, di luce, di pane e con la paura della polizia per l’occupazione abusiva, costringevano questa famigliola a stare rintanata nelle stanze buie e gelide.

Il vecchio obiettore in servizio civile se n’è accorto e, come il buon samaritano, ha subito provveduto a rifocillare questi poveri grami con un pasto caldo, poi ha continuato a guardarsi attorno per trovare una soluzione più risolutiva. S’è rivolto quindi al suo vecchio “datore di lavoro”.

Diedi a questo caro ragazzo qualche consiglio, gli offrii l’assistenza per i generi alimentari e la frutta e verdura e per gli indumenti disponibili presso il polo solidale del “don Vecchi” e, semmai, rimasi disponibile ad un qualche modesto aiuto di ordine economico. Però ero, fin da subito, conscio della estrema difficoltà a risolvere questo dramma. L’intervento immediato, la disponibilità e la seria decisione di questo giovane ex obiettore di coscienza di bussare a tutte le porte e di non scrollarsi dalle spalle questa situazione – che è terribilmente difficile anche per il più esperto di servizi sociali – mi ha fatto enormemente bene.

Quella di Matteo è stata una delle più belle “prediche” che ho sentito durante l’ultima quaresima!

La gestione degli obiettori di coscienza non è stata sempre facile, ma se quella fatica non avesse prodotto nient’altro che la testimonianza di Matteo, son ben felice di averla fatta.

Il “superfluo” necessario

Monsignor Vecchi mi ha trasmesso il bacillo dell’arte. Il mio vecchio insegnante, e poi mio parroco, faceva, oltre che il docente di filosofia e di arte nella scuola del seminario, anche l’assistente dell’U.C.A.I. (Unione Cattolica Artisti Veneziani), un’associazione che a Venezia si interessava del mondo degli artisti.

Ho raccontato ancora che per evitare che lui corresse troppo col programma e perché era più piacevole sentir parlare degli artisti Carena, Guidi, Cesetti, piuttosto che dei filosofi Spinoza, Leibniz o Cartesio, spesso noi studenti lo spingevamo – ed egli forse gradiva farsi spingere- a parlare di questi artisti piuttosto che del pensiero difficile e arzigogolato dei filosofi antichi e moderni.

In quel tempo di certo monsignore mi ha “infettato” con questo bacillo; infatti, nonostante tutte le mie incombenze, esso ha continuato a condizionarmi. Il bacillo preso al liceo ha prodotto la “Galleria La Cella”, con le sue quattrocento mostre, ha riempito di migliaia di quadri tutte le strutture, prima della parrocchia, ed ora del “don Vecchi”, mi ha fatto conoscere una folla di artisti e, bell’ultimo, mi ha fatto aprire la “Galleria San Valentino” al Centro don Vecchi di Marghera.

Io più volte ho affermato che l’arte è una componente estremamente importante nel mondo della fede e della religione; basti pensare alla “teologia della bellezza”, che ci aiuta a scoprire il volto ineffabile di Dio anche nello splendore dell’arte, ma pure educa all’armonia ed allontana dalla volgarità e dal disordine.

Qualche settimana fa sono capitato accidentalmente al “don Vecchi” di Marghera proprio quando si stava inaugurando una “personale” di un pittore del Dolo. La curatrice della galleria, dottoressa Cinzia Antonello, che in quella occasione stava presentando il pittore con una critica dotta ed appropriata, mi ha invitato a dare un piccolo contributo. Preso alla sprovvista dissi: «Io sono discepolo di un Maestro che disse “non di solo pane vive l’uomo….”, sono quindi convinto che l’uomo di ogni tempo ha bisogno di poesia, di bellezza, di sentimento, quanto di benessere e pane. Senza questi componenti la vita sarebbe arida e desolante».

Il cristianesimo, se ben inteso, offre un umanesimo completo, che non si occupa solamente della salvezza eterna, ma che matura tutto l’uomo e gli permette di vivere con pienezza e con ebbrezza la sua esistenza.

La crisi economica ha raggiunto anche i preti

Da quando ho raggiunto una certa maturità – si parla di venti, trent’anni fa – ho fatto il proposito di non leggere mai le notizie di cronaca nera, le notizie scandalistiche o comunque gli articoli dei quotidiani che riportino titoli ad effetto. E questo perché essi sono perditempo e inducono ad avere una mentalità frivola e marginale. Talvolta però, quando le notizie riguardano “la mia categoria” o le realtà di cui mi occupo, allora mi lascio “indurre in tentazione”.

Qualche tempo fa un titolo a quattro colonne comparso sul Gazzettino nelle pagine regionali, diceva che la crisi economica aveva raggiunto anche i preti e questi stavano prendendo provvedimenti per arginare gli effetti negativi.

Come sempre, i giornalisti che hanno bisogno di avere qualche notizia che sia fuori mazzo dagli eventi normali, riportava notizie di un parroco che apriva la chiesa solamente alla domenica per risparmiare sul riscaldamento; di un altro che denunciava che le offerte della questua erano diminuite di più di un terzo; di un altro ancora che aveva dovuto rinunciare alla perpetua pure a part-time!

Di certo ci saranno pure dei casi così, di certe realtà in cui c’è qualche sofferenza, comunque oggi tutti i preti hanno uno stipendio garantito che si rifà alla paga medio-bassa degli operai, perciò possono campare come fan tutti, anzi leggermente meglio non avendo moglie, figli ed affitto da pagare.

Per quanto riguarda la parrocchia, sono convinto che per “chi lavora realmente” le cose non vadano peggio e per chi poi è impegnato a prodigarsi per i poveri, la gente non lasci loro mancare ciò di cui hanno bisogno.

Di certo credo che la crisi suggerisca in maniera più efficace della Quaresima: una vita sobria e impegnativa, meno spreco per automobili, meno perditempi col computer, meno porte chiuse e più disponibilità “fuori orario”.

Credo che se anche la crisi non è stata provocata dai preti, essi debbano essere in prima fila per combatterla e per non permettere che i più deboli vi soccombano.

Per quanto mi riguarda, devo dire che la gente continua ad aiutarmi come prima, anzi più di prima, però mi ritengo “assunto a tempo pieno”, anzi con estrema disponibilità a fare “gli straordinari” e a passare ai poveri quello che san Basilio dice di proprietà loro, perché tutto quello che è superfluo ad una vita sobria è certamente di chi ha bisogno, non mio.

Il mio diavolo e il mio angelo

Io sono nato biologicamente nel lontano ’29 del secolo scorso, ma ad una coscienza sociale, nel dopoguerra. Da quel lontanissimo 1945 non ho sentito altro che parlare di riforme. Per molti anni ci ho creduto, ora questi discorsi mi fanno pena e tristezza.

Per l’ultima tornata elettorale il problema si è ancor più riacutizzato. A folate si sono presentati in Parlamento nuovi riformatori. In verità in questi sessant’anni i politici, a decine di migliaia hanno “campato” assai bene con questo discorso delle riforme. Da ultimi sono arrivati i giovani “grillini” che una “trovata felice” di un comico da baraccone ha portato alla ribalta dell’opinione pubblica, non soltanto, ma perfino in Parlamento.

Beppe Grillo è stato bravo, anzi bravissimo, non m’era mai capitato di sentire che in passato un comico sia riuscito in un’impresa così brillante. Anche Berlusconi, in verità – pure lui venuto dalle “canzonette”, alle quali pare sia ancora affezionato – una ventina di anni fa era riuscito a fare questo “miracolo” che, per un sussulto insperato, non si è ancora spento. Comunque Grillo ha fatto il pieno ed ora sto a vedere come si comportano i suoi discepoli col denaro.

Un po’ perché sono sordo, un po’ perché non ho seguito con troppa attenzione il manifesto dei grillini, non ho ben capito il loro programma. Di certo ho colto solamente quel suo ossessionante “Tutti a casa!” e qualche altra parolaccia scurrile che, da come mi è stato insegnato, pare che non sia elegante pronunciare.

Qualche giorno fa sono stato nella pasticceria Ceccon di piazza Carpenedo, il cui titolare mi usa frequentemente la benevolenza di donarmi i pasticcini per “i miei vecchi”, e in quell’occasione mi sono ricordato che quando ero parroco a Carpenedo, essendo la chiesa e la pasticceria Ceccon casa-bottega, perché ambedue le realtà sono affacciate sulla “piazza lillipuzziana” chiamata piazza solamente per dare nobiltà al nostro borgo periferico. Il titolare mi aveva fatto una sorniona proposta: «Vuole, don Armando, che fondiamo anche noi un nuovo partito? Io avrei anche un programma!». «Mi dica!», gli risposi. Ed egli pronto, perché ci aveva pensato lungamente: «Rubare si, ma magari poco, ma tutti!».

In questi giorni, per associazione di idee, mi venne in mente questo “programma”, che credo non sia molto diverso da quello di Grillo, anzi più realista; infatti il mio diavolo, che è quanto mai perfido ed insistente, mi fece balenare questa ipotesi: “l’ultima tornata elettorale ha sfornato un’altra folla di aspiranti ladri!” Però il mio angelo custode immediatamente è intervenuto e, perentorio, mi ha detto: «Questo è un giudizio temerario, da cacciare come un “pensiero cattivo”!» L’ho cacciato, però m’è rimasto nell’animo questo interrogativo….: “staremo a vedere!”.

“il muro del pianto”

Talvolta, nonostante la mia veneranda età, continuo a scoprire cose interessanti e talvolta anche belle, ma altrettanto spesso mi capita di incontrare realtà quanto mai deludenti.

Al capezzale dell’economia italiana sono stati chiamati uomini di grande esperienza nel campo finanziario; ognuno dà la sua diagnosi ed ognuno propone le sue cure. Specie in questi ultimi tempi di elezioni se ne sono sentite di tutti i colori: dall’antica ricetta della “politica di mercato” proposta da Monti, a quella più timida di Bersani dopo i fallimenti catastrofici di quella della “sua scuola” che si rifà all’utopia del benessere per tutti, a quella radicale di Grillo che vuol mandare tutti a casa per permettere la nascita dell’era dell’oro!

Io, timidamente, propongo la mia, pur sapendo che sarà poco gradita a tutti. A parer mio bisogna da un lato che gli italiani si abituino a vivere in maniera più parca e a lavorare di più e, dall’altro lato, che si riduca all’osso il mastodontico apparato statale e parastatale estremamente improduttivo e che, nello stesso tempo, divora spaventosamente immense risorse.

Questa cura dimagrante deve partire dal capo dello Stato, per il quale l’Italia spende più dell’America per il suo presidente e l’Inghilterra per la sua regina. Per arrivare poi agli enti più periferici, quali sono i Comuni, che pagano troppa gente che non fa niente o quasi niente. Basti pensare al Comune di Venezia che non funziona, pur con i suoi quattromilaseicento dipendenti, quando ad un’azienda privata ne basterebbero si e no un decimo. Comunque in Italia ci sono pure altri carrozzoni arroganti, spendaccioni, supponenti, inefficienti e spesso dannosi.

Io, nel passato remoto e recente, ho avuto a che fare con la Sovrintendenza, per rendermi conto di quanto sia inutile; basta dare uno sguardo a Mestre per capire subito come, nonostante questo ente, la città sia nata e cresciuta brutta e sgangherata da un punto di vista estetico.

Ma le cose, nonostante la richiesta angosciosa di serietà e di austerità, continuano come se nulla sia successo. Non so se i miei concittadini si siano mai domandati a che cosa servisse quel cantiere sorto da sei, sette mesi accanto alla mura esterna del cimitero di Mestre. Ve lo dico io! La mura ottocentesca di semplici mattoni a vista, senza alcun pregio, era pericolante. Allora, giustamente, la si è rinforzata con una gettata di cemento alla base: questo era necessario. La Sovrintendenza però ha preteso che ogni pietra fosse tolta, ripulita e riposta nuovamente al suo posto. Ora che è stato sbaraccato il cantiere, anche Mestre avrà finalmente, come a Gerusalemme, il suo “muro del pianto”: non di certo per la nostalgia e il rimpianto per il tempio di Salomone, ma solamente per la spesa sconsiderata imposta da qualche funzionario della Sovrintendenza, per riavere un muro di vecchi mattoni, cotti nelle vecchie fornaci di Carpenedo e manomessi a costi impossibili.