Potrà sembrare strano che un vecchio prete si interessi di Sanremo e delle canzonette, però anche questo fa parte della vita ed io voglio vivere nel cuore della vita del nostro tempo e non ai suoi margini o nei suoi binari morti. Non ripeto la mia età per giustificare questi miei pensieri e credo che tutti convengano e comprendano che ogni uomo è legato al suo “piccolo mondo antico” in cui è nato e si è aperto alla vita. Ora il mio piccolo mondo antico è scomparso o è al tramonto. Mi permetto quindi una confidenza fatta da un vecchio alla gente d’oggi, fatta con discrezione e rispetto, sperando che possa essere accettata e, semmai, fatta motivo di verifica e di discussione.
Quando io ero bambino, adolescente e pure in quella giovinezza che mi ha accompagnato fino agli anni del dopoguerra e della ricostruzione, la gente cantava per strada, mentre lavorava, quando faceva filò nelle stalle per stare al caldo. Anche a quei tempi s’aggiungevano sempre nuove canzoni, ma sempre erano motivi che cantavano tutti, tutti conoscevano e creavano un’atmosfera dolce e serena, nonostante i tempi molto più difficili di quelli di oggi.
Mio padre faceva il carpentiere e ricordo che quando gli portavo il cestino col mangiare, i manovali e i muratori che costruivano le case, cantavano mentre posavano le pietre, facevano la malta o preparavano le capriate. I salariati che zappavano i campi del granoturco, delle barbabietole o raccoglievano i fagioli, cantavano, tanto che era un gusto sentire questi cori che non avevano bisogno del maestro o dell’accompagnamento di strumenti; la gente cantava anche alla sera quando si riuniva dopo cena.
Io ricordo le canzoni che seguirono i vari anni. A parte i canti di montagna, avrei un indice infinito di canti che la gente intonava di gran gusto. Ne cito alcuni, come mi vengono, alla rinfusa, tenendo conto degli anni in cui sono fioriti: O campagnola bella, La casetta in Canadà, Chitarra romana, Arrivederci Roma, Vecchio scarpone, Come pioveva, Il merlo ha perso il becco, Era una notte che pioveva, Faccetta nera, Il cappello che noi portiamo, Il tango delle capinere, Torna a Surriento, Mamma, Ventiquattromila baci, Voga e va, Rosamunda, Vola colomba, Vecchio frac, Nella vecchia fattoria, Non ti scordar di me, Romagna mia e via di seguito.
Mi pare che questo fiume canoro si sia fermato a “Volare” di Modugno. Poi silenzio! Per strada e quando la gente si ritrova assieme, nessuno canta più. Solamente i miei vecchi, quando han bevuto un po’, intonano “Viva Venezia”, ma anche loro lo fanno al chiuso.
Gli uccelli continuano imperterriti a cantare in cielo, nonostante il passare degli anni, ma gli uomini del nostro tempo hanno relegato i canti a Sanremo o dentro le cuffiette che si mettono nelle orecchie.
Ho paura che anche il canto sia stato avvelenato dai soldi e sia sintomo di una società ammalata di solitudine e di tristezza.
Non è male, quindi, che ascoltiamo sant’Agostino che sta a ripeterci: «Canta e cammina!».