Un altro problema

Quando ero nella mia vecchia parrocchia, per parecchi anni potevo contare sull’aiuto di due giovani preti come collaboratori; poi, a causa della crisi delle vocazioni, ne rimase uno solo. Ora don Gianni, attuale parroco a Carpenedo, è rimasto solo, senza alcun aiuto stabile.

Per Pasqua, il mio successore mi ha chiesto di aiutarlo per le confessioni, cosa che ho fatto molto volentieri. A motivo di questa recente collaborazione, ho avuto modo di constatare personalmente la “crisi” di questo sacramento. Già ai miei tempi avevo notato la progressiva diminuzione dei fedeli che si accostavano al sacramento della riconciliazione con Dio. Ora però, mancando da più di sette anni dalla parrocchia, mi sono reso conto del livello di minima raggiunto.

L’organizzazione delle confessioni per Natale è stata perfetta: incontro a scaglioni di età, preparazione prossima adeguata, lettura dei testi biblici sul perdono, foglietti per l’esame di coscienza, ingaggio di un numero adeguato di sacerdoti (per cui le attese sono state minime). Con tutto ciò, pur non essendo in grado di quantificare il numero esatto, credo che tra bambini ed adulti non si siano superate le due, trecento anime e, in aggiunta, ho avuto la sensazione che i parrocchiani ormai si accostino alla penitenza quasi solamente in occasione delle confessioni organizzate: due o tre volte all’anno.

Se confronto questa situazione con quella che ho sperimentato da giovane prete, c’è un abisso numerico, e pure qualitativo, tanto da farmi pensare che piuttosto che insistere su questo tipo di organizzazione – che raggiunge percentuali infinitesimali – sarebbe più vantaggioso puntare su una formazione che faccia prendere coscienza ai fedeli del bisogno di chiedere perdono di frequente a Dio per le proprie miserie, magari potenziando e valorizzando il momento penitenziale all’inizio della Santa Messa, pur offrendo ogni settimana sempre tempi e momenti ben determinati per la confessione personale.

Ossia, mi chiedo se sia più opportuno insistere su una formazione permanente al pentimento e alla richiesta di perdono a Dio, orientando i penitenti alla confessione solamente in momenti particolari di disagio interiore, piuttosto che alla organizzazione di queste penitenziali comunitarie con l’assoluzione personale che raggiunge un numero insignificante di Cristiani.

Io non so e non posso dare una risposta, però mi vien da pensare che anche questo problema si riconduca a quello più vasto ed incombente dell’evoluzione religiosa, che richiede un ripensamento delle formule religiose per confermare ed alimentare la fede.

L’uomo planetario

Padre Ernesto Balducci, il sacerdote dell’ordine degli padri scolopi, l’ho conosciuto tantissimi anni fa, quando ero appena prete. Il sacerdote fiorentino, morto una decina di anni fa in un incidente d’auto, l’avevo “incontrato” nella rivista “Testimonianze”, il periodico che mi ha accompagnato alla scoperta della fede e dell’uomo per più di vent’anni.

La rivista – ricordo bene – aveva la copertina di un rosso intenso, con la scritta lapidaria “Testimonianze”. A quei tempi era considerata, nel mondo ecclesiastico, una rivista di avanguardia che destava più di un sospetto e di una preoccupazione nelle alte gerarchie; comunque per me le tesi che portava avanti erano fresche ed esaltanti. Infatti mi accorsi poi che esse erano un rivolo di pensiero evangelico che ha ingrossato quel fiume salutare che è sfociato nel Concilio Vaticano Secondo, che per grazia di Dio accompagnò la Chiesa ad accostarsi con più fiducia al nostro mondo.

Il mio rapporto con questa rivista si interruppe, non ricordo più in quale anno. Ricordo che scrissi a padre Balducci: “Reverendo padre, per la stima che le porto, sento il dovere di dirle che le nostre strade ormai divergono; non sono più disposto a seguirla nel sentiero che lei ci indica”. Mi sembrava che lui condividesse troppo le tesi della sinistra. Poi ho capito che non era lui che camminava troppo in fretta, ma ero io ad avere il passo troppo lento.

In questi giorni mi sono “riconciliato” con padre Balducci leggendo un suo bellissimo ed illuminante volume: “L’uomo planetario”. Padre Balducci, con un’analisi quanto mai intelligente e profonda, legge in chiave di fede il fenomeno della globalizzazione, per quanto riguarda le grandi religioni, prevedendo uno smussamento progressivo della differenziazione tra le varie Chiese ed un movimento verso una comunione sempre più consistente.

Leggendo questa ricerca così illuminante, ho pensato prima alla parola di Gesù che auspica “un nuovo ovile sotto un solo pastore”, poi alle tesi del grande Teilhard de Chardin che legge il movimento cosmico tutto teso verso l’assoluto e al convegno Interreligioso voluto da Papa Wojtyla ad Assisi, sembrandomi di capire che “gli uomini non si muovono ma è Dio che li conduce” verso l’incontro risolutivo con il Creatore.

Anche il cammino procede con difficoltà; esso tende verso l’assoluto inglobando e stemperando differenze che ogni giorno di più sembrano marginali e fittizie.

La mia scoperta natalizia

Don Mazzolari ha scritto che certe feste religiose sono come “l’ondata di monta che lambisce, bagna e lava superfici che raramente sono raggiunte dal messaggio di Gesù”. Anche se per Natale e Pasqua non ci sono più le folle dei cosiddetti “pasqualini” che un tempo gremivano le chiese, ossia quei cristiani che si vedono in chiesa soltanto per Natale e per Pasqua, è pur vero che queste celebrazioni sono più frequentate del solito, ma soprattutto è la Chiesa che mette in luce, in queste grandi solennità, i “pilastri portanti della nostra fede”.

Tutto questo fa crescere il mio “tormentone” per la paura di non essere capace di offrire “su un piatto d’argento” ai fratelli di fede, che amo quasi più di me stesso, quelle grandi verità del messaggio di Gesù che sono veramente sublimi ed inebrianti, qual è il mistero dell’incarnazione.

Per me, il fatto che Dio dica che è vicino a noi, che non è ancora stanco di questo nostro povero mondo, che gli garantisca ancora una volta di amarlo, di volergli stare vicino e di parlare con parole care e comprensibili anche ai “tardi di cuore”, quali siamo noi, è una cosa stupenda e meravigliosa. Per questo nasce nel mio animo l’affanno e l’angoscia di banalizzare con parole stanche e concetti consunti una verità così sublime.

Quest’anno ho sofferto e cercato tanto per trovare pensieri che mi apparissero capaci di trasmettere tanta bellezza e verità. Tante volte mi sono accostato al presepio per ritrovare l’incanto dei tempi della mia fanciullezza, lo stupore dei tempi innocenti della mia vita.

Quest’anno ho “scoperto” anche che Maria ha il volto e la bellezza delle nostre donne, che Giuseppe ha nel cuore il dramma dei nostri uomini preoccupati per il lavoro, per la loro famiglia, che il Bambinello ha l’armonia, il sorriso bello e radioso dei nostri piccoli, che pastori e angeli, fanno parte del mondo che conosco. E perciò ho detto alla mia gente: «Il Dio di Gesù non possiamo trovarlo nell’evasione, tra le stelle, o nei desideri e nei sogni, ma in questo nostro mondo, in questa nostra società, pur con tanti limiti e tante cattiverie.

M’ha fatto felice e mi sono un po’ riconciliato col mondo, scoprire che tutto sommato Dio non ne è deluso, lo ama ancora ed è disposto ad aiutarlo.

Ho guardato e ho invitato la mia gente a guardare con maggior simpatia ed interesse il nostro mondo, ad amarlo di più, anche perché il Signore lo possiamo trovare solamente qua, perché Egli ha scelto, almeno da duemila anni, che la sua dimora è nella nostra terra.

I cari “nemici”

Del Cardinale Martini avevo una conoscenza abbastanza approssimativa. Lo conoscevo come biblista famoso e soprattutto per quella sua lettera pastorale alla diocesi di Milano che aveva come titolo “Farsi prossimo” e che è un testo veramente importante per chi, nella Chiesa, avverte il dramma dei poveri, ma non sapevo niente più di questo. Ora che è morto, Martini mi sta diventando più che mai un maestro di vita e soprattutto un testimone autentico di Cristo.

Per Natale amici cari mi hanno regalato una serie di volumi su questo vescovo gesuita, testi che mi stanno aiutando a sentire questo Cardinale come un caro e prezioso compagno di viaggio. Per un paio di anni ho materiale sufficiente a farmi conoscere questo uomo di Chiesa, ma soprattutto di Dio, che è quello che conta. Già ho parlato agli amici di quanto mi hanno fatto bene le sue “confessioni” sul passo lento della nostra Chiesa, sulle sue contraddizioni e sui suoi “peccati”. La “fragilità” spirituale dell’arcivescovo di Milano mi è quanto mai di conforto e mi sta aiutando ad accettare i miei limiti di fede e le mie “riserve” nei riguardi di quella Chiesa che amo e per cui voglio spendere pure i “tempi residui” della mia vita.

Uno degli ultimi volumi ricevuti in dono su Martini è una sua biografia. Oggi ho letto un capitoletto e ho trovato una sua affermazione che è stata per me come un raggio di luce che ha toccato il mio animo. Il cardinale “ringrazia” tutti i razionalisti, da Renan in poi, che hanno dato una lettura umana, oppure critica e scettica, delle Sacre Scritture, perché – dice il cardinale – l’hanno aiutato ad approfondire il suo studio, a documentarsi meglio, ad apprezzare di più il testo sacro.

M’è venuto da pensare: “A che cosa si ridurrebbe la Chiesa senza critici, atei, persecutori?” Già ora la Chiesa italiana, che da più di mezzo secolo tutto sommato ha avuto pochi nemici, anzi troppi privilegi, sta arrischiando di diventare flaccida, fideista, evanescente e confinata negli spazi siderali. Ho capito che i nostri “nemici”, e semmai i nostri persecutori, sono un autentico “dono di Dio” perché ci costringono all’autocritica, ad una revisione di vita, alla purificazione e ad una maggior coerenza.

Oggi quindi ho ringraziato il Signore per i radicali, i socialisti, i liberali, gli atei e l’intera sinistra, perché ho capito che in realtà sono una “benedizione” del Signore. Senza questi “nemici” solo Dio sa che cosa saremmo diventati!

Il banchetto a san Girolamo

La televisione locale, il giorno di Natale, ha dedicato qualche carrellata del telegiornale all’iniziativa della Caritas e della San Vincenzo mestrina che hanno organizzato per il giorno di Natale un pranzo per 200 poveri nella chiesa di San Girolamo. Ho così avuto modo di vedere il Patriarca e il suo seguito e i giovani e meno giovani camerieri con la casacca bianca con la scritta “Caritas” fatta confezionare per l’occasione.

Nella chiesa più antica di Mestre s’è celebrata, il 25 dicembre, una splendida eucaristia col “corpo visibile di Cristo” o, per essere intonati alla liturgia, col presepe con “il figlio dell’Uomo” rappresentato realmente dalla parte più fragile dell’umanità mestrina.

Finalmente si sono inverate, almeno parzialmente, le affermazioni di Gesù: “Avevo fame, avevo sete, era nudo, senza casa, ammalato e carcerato, e tu?” L’iniziativa m’è parsa il più bello e vero “pontificale” che si sia celebrato in occasione del Natale e sono stato felice di vederlo presiedere dal nostro Patriarca.

Tuttavia, di primo acchito, le immagini di San Girolamo mi sono sembrate una pallida fotocopia di quanto ha fatto, come ogni anno, la Comunità di Sant’Egidio a Roma e Padova e nel mondo intero. Il giornalista infatti diceva che i commensali di Sant’Egidio quest’anno hanno raggiunto i trecentomila. Ed io so che la “Tavolata di Sant’Egidio” è l’espressione di un impegno serio, quotidiano ed autentico che questa comunità porta avanti in tutti i settori della povertà.

Quella di San Girolamo mi sarebbe sembrata una parata di cattivo gusto e falsa se essa non fosse supportata dalle mense di Ca’ Letizia, dei Cappuccini di Mestre, di Altobello, del Redentore, della Tana e di altri conventi francescani. E se non sapessi che il Banco alimentare del “don Vecchi” offre generi alimentari per duemilacinquecento persone ogni settimana, quasi altrettanto la Bottega Solidale e un po’ di meno la Banca del Tempo Libero di Mestre e i frati di Sant’Antonio di Marghera.

Son felice che la carità della chiesa di San Marco sia fortunatamente presente e visibile a Mestre e Venezia. E ancora il pranzo natalizio di San Girolamo mi aiuta a sperare che il nuovo Patriarca elabori un progetto e dia un volto più organico ed efficace alla “carità” del popolo di Dio, in maniera che il “Cristo povero” presente nelle nostre città sia più amato ed aiutato e abbia almeno le stesse attenzioni che i cristiani riservano al Cristo presente nel pane eucaristico.

“I santi del giorno”

Ho la sensazione che la linea editoriale della Rai diventi ogni anno sempre più “laica”. Un tempo Rai uno era un patrimonio dei democristiani e Rai tre della sinistra, quale frutto del compromesso storico per offrire un contrappeso ai laici.

Con il crollo delle ideologie tutto si è andato vieppiù sfumando, pur rimanendo nelle reti ancora qualche eccezione. Ad esempio Rai uno mantiene ancora “Porta a porta” con Vespa, decisamente di matrice cattolico-liberale, mentre a Rai tre c’è Santoro, certamente radical-socialista, o “Ballarò” che è guidato da uno che non sa di sacrestia.

A parte però queste rubriche che si muovono soprattutto a livello politico e quelle condotte da non credenti dichiarati, rimane una rubrichetta trasmessa di prima mattina, dal titolo “I santi del giorno”, condotta da un certo monsignor Pellegrino. E’ una rubrichetta di un paio di minuti che questo sacerdote offre con garbo ed intelligenza, che però parla sempre di vecchi santi, a parer mio un po’ fuori corso. La santità espressa dagli uomini di oggi pare che non trovi quasi spazio nella cultura ecclesiale moderna.

Qualche giorno fa, per una strana, forse stravagante associazione di idee, m’è venuto da chiedermi in quale categoria di santi monsignor Pellegrino collocherebbe Marco Pannella, che sta arrischiando la vita per rendere cosciente l’Italia dello sconcio e del degrado delle carceri del nostro Paese. Per me non avrei difficoltà ad inserirlo tra i “confessori” o forse tra i “martiri”. Più laico di Pannella credo non ci possa essere nessuno, né più anticlericale credo si possa trovare. Però credo che in questo tempo di avvento e di Natale sia ben difficile trovare un “cristiano” più coerente. Mi vengono in mente le parole di Gesù: «Non c’è nessuno più amico di chi perde la vita per i fratelli».

Nel medioevo c’è stato perfino un ordine religioso i cui membri si offrivano di sostituirsi ai cristiani in schiavitù. Pannella mi pare che potrebbe oggi chiedere di entrare in questa congregazione religiosa, perché ne avrebbe tutti i titoli.

Faccio fatica a trovare dei cristiani veri che sappiano testimoniare a favore della vera legalità e della dignità dell’uomo. Non sarebbe male perciò scrivere un martirologio laico parallelo a quello della nostra Chiesa.

Cristo non è nato in chiesa

Uno dei più bei libri che ho letto lo scorso anno è stato quello di un vecchio prete del Friuli, parroco in un piccolo paese di collina. Il titolo è quanto mai significativo: “Fuori del tempio”.

Il volume rappresenta quasi una confessione pubblica di un cristiano onesto e radicale che sente amaramente le lacune, le incongruenze, le contraddizioni ed i ritardi sulla vita reale della Chiesa ufficiale del nostro tempo.

Tutto sommato l’autore è un prete che crede, che ama la Chiesa, ma che sente quanto sia urgente e pressante un rinnovamento forte, un ritorno al Vangelo ed un dialogo vivo e puntuale col modo di sentire e di pensare dell’uomo di oggi.

Questa lettura mi ha aiutato a mettere a fuoco le mie perplessità, le incertezze, i rifiuti e le speranze nei riguardi della mia Chiesa in cui credo e che amo, ma che vorrei più genuina e coerente nel suo essere ed agire, temendo che diventi una bella e consistente struttura, ma senza anima e vitalità.

Quest’anno, per Natale, m’è venuto da fare questo strano accostamento, riflettendo sul rapporto tra il Natale del Vangelo e le feste di Natale che mi accingevo a vivere come uomo del nostro tempo.

Già qualche tempo fa m’aveva un po’ stupito e turbato il pensiero che Gesù, così profondamente credente, non fosse appartenuto per nulla all’apparato religioso del suo tempo; infatti, nonostante avesse frequentato sia la sinagoga che il tempio, la sua testimonianza la offerse quasi sempre fuori dal tempio, quasi estraneo all’organizzazione ufficiale della gerarchia sacerdotale.

Ora constato pure che Gesù non è nato in chiesa, ma in una stalla, che i primi incontri li ha avuti con povera gente fuori dalle righe, con i pastori e i magi, mentre il sinedrio e le congreghe dei farisei, degli zeloti, leviti ed altri ancora, rimasero estranei, anzi gli furono nemici.

Ora, pensando alle solenni liturgie, ai sermoni pieni di frasi fatte, in chiese riscaldate ed illuminate a festa, alle opere buone natalizie che sanno di beneficenza, mi assale la paura che Cristo, la gente del nostro tempo, lo debba cercare altrove e comunque fuori dal tempio, pensando che il Gesù infreddolito e sulla paglia sta forse a Taranto, ove migliaia di operai sono in angoscia per il loro domani, o anche nel Veneto, ove tantissime piccole industrie chiudono o delocalizzano, piuttosto che nelle comunità cristiane.

La mia non vuole essere una critica esterna, ma guardo tutto ciò con l’angoscia di essere compartecipe e corresponsabile della differenza tra l’evento dell’incarnazione e la festa di Natale. Di fronte a questo pericolo non mi resta che trarre le conclusioni e prendere le decisioni che mi riguardano personalmente.

Volontari autentici samaritani

I miei ricordi dei tempi ormai tanto remoti in cui ho frequentato le aule scolastiche, sono spesso nebbiosi e assai sfumati. Mi spiace, ma non ricordo proprio se sia stato Mazzini, Garibaldi o Cavour ad affermare: “Abbiamo fatto l’Italia, ora bisogna fare gli italiani!”.

E’ stato laborioso e difficile unire gli staterelli che formavano lo stivale, ma pare tanto più difficile “fare gli italiani” se a 150 anni dall’unità d’Italia ci stiamo ancora arrabattando per trovare un denominatore comune tra nord e sud, tra laici e cattolici, tra destra e sinistra.

Questa logora reminiscenza scolastica mi viene in mente in occasione di “scaramucce” e talvolta “guerre” all’interno delle associazioni di volontariato o tra le stesse che formano quello che io, con una certa enfasi, chiamo “Il Polo Solidale del don Vecchi”.

Tantissime volte ho parlato di questa splendida realtà nata in simbiosi con i nostri Centri don Vecchi, realtà che, a parer mio, non trova l’eguale non solo nella nostra diocesi, ma pure in altre città, sebbene intraprendenti ed operose.

La “dottrina” che fa da supporto a queste associazioni, l’efficienza, il volume di solidarietà, il numero di volontari e soprattutto la folla di fruitori, rappresentano qualcosa di miracoloso. Basti pensare che i Magazzini san Martino ritengono di avere 30.000 “visite” all’anno, che il Banco Alimentare aiuta 2500 poveri alla settimana, che “La Buona Terra” distribuisce dai 15 ai 20 quintali di frutta e verdura al giorno, per rendersi conto di ciò che rappresenta questo polo.

Io però, prete, son consapevole che “il bene va fatto bene”, perciò gli ideali che motivano questo servizio, l’armonia e la serenità all’interno di ogni associazione e tra le stesse, la gentilezza e l’amabilità verso i fruitori dei relativi servizi, il disinteresse, la letizia e serenità e, soprattutto, la carità cristiana, dovrebbero essere il distintivo e il punto di forza di questo “Polo Solidale”.

Di questo stile di servizio, di questa benevolenza verso l’interno e l’esterno, non riesco proprio ad essere né certo, né orgoglioso. Spero che qualcuno mi aiuti a fare, dei duecento e più volontari, degli autentici “samaritani”. Però perché ne siamo molto lontani per ora non mi resta che pregare il Signore.

L’arroganza dei governi

I palestinesi della striscia di Gaza per molti anni han tenuto prigioniero un giovane militare di Israele. So che i ripetuti tentativi per liberarlo, o con un blitz o con uno scambio di prigionieri, non ebbero esito positivo. Non so come la cosa sia andata a finire, però confesso che tante volte ho pensato a questo povero ragazzo che, per motivi che gli erano estranei, perdeva gli anni migliori della sua vita e correva il pericolo di pagare al posto di chi comanda e che, con le sue decisioni, l’ha costretto a prendere in mano il fucile contro altri ragazzi che l’ha costretto a chiamare “nemici”.

Di recente ho letto un’altra storia che s’è svolta al di là del confine di Israele. Un altro ragazzo che credeva nell’uomo e che ha ravvisato negli abitanti della striscia di Gaza il debole, il senza domani, il povero e il senza terra, a sua volta è pure stato giudicato, per motivi che gli erano estranei, “nemico”, e per questo motivo, mai valido a livello umano, è stato trucidato.

Da mesi altri due nostri giovani marò, mandati a difendere le navi dai pirati, sono lontani dalle loro famiglie e dai loro affetti, perché han fatto quello che han detto essere il loro “dovere”.

E’ ben triste che la magistratura e il governo di un grande e nobile Paese, qual’è l’India, non vogliano capire che non devono far pagare ai giovani incapacità o, peggio, la cattiva volontà dei vari governi di trovare soluzioni ai problemi che purtroppo ci sono e ci saranno sempre. Sono i governi che non scelgono il dialogo, il compromesso, ma le armi, le ripicche, che non hanno nulla a che fare col bene dell’umanità.

Ripeto ancora una volta che spesso gli individui si comportano in maniera stolta e disumana, ma i governi, che dovrebbero rappresentare il meglio di un popolo, sono sempre arroganti e spietati e soprattutto sprezzanti della vita e delle lacrime dei più indifesi.

Parziale e caro ritorno

Don Gianni, il giovane parroco, mio “nipote” nella successione nella parrocchia di Carpenedo, è rimasto solo. Don Gianni è giovane, intelligente, pieno di risorse, ma solo ed impegnato su troppi fronti.

I preti della Chiesa veneziana, soprattutto i bravi preti, arrischiano di crollare sotto il peso di troppi impegni, a causa della scarsità di sacerdoti, finché il Vaticano non si deciderà a prendere delle decisioni. Per esempio consacrare preti anche gli uomini sposati e le donne, oppure accorpare le parrocchie dando incremento alle “unità pastorali” e creando così delle pur piccole comunità sacerdotali per evitare i doppioni e perché ogni sacerdote possa dare il meglio di sé nel settore che gli è più congeniale.

Finché non si darà fiducia reale e responsabilità ai laici assumendo a libro paga dei collaboratori pastorali, temo che i preti più generosi e più impegnati arrischino di fare la stessa fine del cavallo del bellissimo volume di Orwell “La fattoria degli animali”, un animale sempre disponibile a caricarsi di ogni impegno, ad aggiungere fatica a fatica, finché un brutto giorno crollò sotto le stanghe del carretto che tirava.

Don Gianni mi ha chiesto di aiutarlo a celebrare una delle cinque sante messe di orario alla domenica, quando poi non ci sono degli extra. Di buon grado ho accettato anche perché don Gianni si è reso disponibile a succedermi come presidente della Fondazione don Vecchi, perché amo ancora la mia vecchia parrocchia e perché ritengo giusto offrire la mia collaborazione. Ho scelto la messa delle otto perché la meno frequentata, e soprattutto frequentata da anziani, sperando che s’accontentino più facilmente delle omelie di questo vecchio prete.

Con tanto piacere constato che di domenica in domenica cresce l’intesa e spero di raggiungere il clima caldo, cordiale e fraterno che provo sempre quando celebro nella mia cattedrale fra i cipressi.

Perché Monti non cede alla tentazione

Mentre sto buttando giù questi pensieri, i politici, i politologi, i giornalisti e i mass-media in genere non fanno che parlare della discesa in campo di Mario Monti, il presidente che il Centro sinistra e il Centro destra hanno sopportato contro voglia.

I professionisti della politica, che si sono visti messi da parte dal presidente Napolitano che li ha espropriati del potere, dalla gente che li sta detestando e dall’Europa che li vede male quanto mai, capiscono che aver dalla loro parte Mario Monti rappresenta un salvagente a cui aggrapparsi per non affondare.

Casini e colleghi sognano Monti come un salvatore che potrebbe rimetterli sul trono e perciò, da mane a sera, lo tirano per la giacca. Bersani spera segretamente di poterne disporre dopo la sua vittoria elettorale. Berlusconi, da parte sua, ha tentato d’averlo come capitano di ventura che recuperi il suo esercito irrequieto e poco obbediente agli ordini. E perfino la Chiesa desidera che questo suo “fedele” vada al governo per tutelarla dai vari Vendola e compagni.

Io, ancora una volta, mi trovo isolato ed in controtendenza perché spero con tutte le mie forze che non si metta con questi “cattivi compagni” che potrebbero corromperlo e perché desidererei che l’Italia avesse un tesoretto di uomini in serbo da poter tirar fuori nel momento di bisogno. Questa sera ho chiesto al mio angelo custode, che è uno spirito retto e buono, che si metta in contatto con quello di Mario Monti e pure con quello di Riccardi, di Severino perché non si mettano assieme a quella banda di briganti.

P.S. Questa volta temo che il mio angelo custode non mi abbia dato retta, o che Monti non l’abbia ascoltato.

Le nenie natalizie e i poveri

Oggi è stata una giornata di nebbia: freddo, umidità, cielo cupo. E la serata è ancora peggiore. Quando ero bambino mio padre affermava che queste erano “sere da ladri”.

Me ne sto nel mio studiolo caldo, con la lampada da tavola che illumina il foglio bianco. Ho appena letto nel Vangelo di Luca la risposta che Giovanni Battista dà alla gente che gli chiedeva che cosa dovesse fare per trovare pace: «Chi ha due tuniche, ne dia una a chi non ne ha e chi ha da mangiare faccia altrettanto».

Fra pochi giorni pensai, sarà la festa di Natale: regali, pranzi con i fiocchi a casa, e nelle chiese dolci canti, ricchi di sentimento, di melodia, alleluja a non finire, pastorali e prediche sul presepe, il bambinello Gesù, la stella, i pastori e l’Incarnazione. Le donne in pelliccia, i bambini con giubbotti ben caldi e mariti messi a nuovo che per Natale non mancheranno alla messa di mezzanotte.

Però a questi suoni e a queste immagini romantiche nel mio animo si sovrapponevano quelle dei poveri della mensa dei frati, di Ca’ Letizia e di Altobello, gli ospiti dell’asilo notturno, la stazione sovraffollata di senzatetto, le prostitute discinte per le strade in attesa di offrire “amore a pagamento” e le donne dell’est in cerca disperata di trovare qualche vecchio a cui badare e, sia pure, una squallida stanza in subaffitto.

Avvertivo nell’animo uno stridore insopportabile. Si dica quello che si vuole, ma certi sermoni mi sembrano più bestemmie che atti di fede. La mia Chiesa non può continuare a vivere in questa terribile ipocrisia da farisei. Mi viene in mente l’augurio del defunto vescovo di Molfetta: «Vi auguro un Natale scomodo, un Natale da Cristo che turbi la coscienza dei benpensanti!».

Ho un bell’affermare che al “don Vecchi” si offrono ogni settimana generi alimentari a 2500 persone, che ogni giorno si rendono disponibili 15 quintali di frutta e verdura e vestiti a volontà per un euro (e talvolta anche solo 50 centesimi), che al “don Vecchi” hanno trovato rifugio quasi 500 vecchi poveri in 315 alloggi!

Questo non mi basta per mettere la mia coscienza in pace. Giovanni gridò : «Potrete scoprire e incontrare il Salvatore solamente se cederete una delle due tuniche e metà del vostro cibo!» Ho paura che noi cristiani corriamo il rischio, ancora una volta, di incontrare spesso solamente una bolla di sapone iridata, pronta a scoppiare al primo soffio di vento, piuttosto che Colui che può dare serenità all’oggi e speranza per il domani.

Il segno della fede

Qualche tempo fa è morta una donna per cui è stato chiesto il commiato cristiano. Io non conoscevo assolutamente questa creatura perché era vissuta in un paese dell’interland della nostra città. Avevo chiesto ad un suo fratello qualche notizia sulla vita della sorella e lui era stato abbastanza vago circa la fede e la vita religiosa della sorella, ribadendo però il fatto che era stata molto disponibile ad aiutare un po’ tutti, lavorando in una casa di riposo e che aveva avuto moltissime amiche. Questo tipo di risposta mi giunge abbastanza di frequente.

Prima del rito una collega della defunta è venuta a chiedermi di poter dare un saluto desiderando confermare la grande disponibilità all’amica scomparsa. Quasi d’istinto sentii il desiderio di avere un’ulteriore precisazione circa la religiosità della defunta, però anch’essa rimase un po’ sfuggente. Allora la incalzai chiedendo in maniera diretta: «Era credente?» «Penso di si», mi rispose. Allora continuai: «Ma non era proprio per nulla praticante?» Al che questa giovane amica mi rispose con sicurezza, quasi volesse sfidarmi su un terreno su cui credo avesse già riflettuto: «Era però molto generosa ed amava seriamente il prossimo», quasi a dire che questa è la religiosità che salva agli occhi di Dio.

Non risposi, perché il terreno si faceva scivoloso per un “ministro del culto”, ma soprattutto perché la pensavo come lei, però non volevo correre il rischio che questa cara ragazza pensasse che io ritenessi non utile la pratica religiosa. Credo però che sia proprio l’amore che salva e che non esista fede vera senza amore e solidarietà verso il prossimo.

Santa Lucia

I miei amici sanno che ho una sorella che si chiama Lucia. Mia sorella, dopo aver passato una vita, come infermiera, nel reparto di oculistica dell’ospedale Umberto I di Mestre, ai tempi del professor Rama, si dedica anima e corpo ad un piccolo ospedale del Kenia, all’interno della sconfinata savana, spesso brulla per il sole e talvolta verde e fiorita quando arriva la stagione delle piogge.

Lucia è forse l’unica, tra i miei sei fratelli ed innumerevoli nipoti, a cui faccio gli auguri per l’onomastico, perché ha un nome che il calendario religioso ricorda il 13 dicembre. A Lucia ho donato quest’anno la prima stella di Natale in vendita nel negozio di fiori della piazzetta del cimitero e poi l’ho ricordata durante l’Eucarestia che ho celebrato nel primo pomeriggio nella mia cattedrale tra i cipressi.

La festa di santa Lucia però non mi è cara solamente perché la mia sorella più piccola porta il suo nome, ma anche perché è la protettrice degli occhi e quindi mi rammenta il dono prezioso della vista. Vedere è uno splendido dono di Dio, un dono che si apprezza appieno solamente quando si guardano i volti delle persone, il cielo e la terra, con curiosità, con meraviglia e con stupore. Spesso purtroppo diamo per scontato il fatto di poter scoprire la bellezza, l’armonia, i colori, le sembianze e la tavolozza di infinite sfumature dei colori del Creato.

Nella breve meditazione che ho tenuto durante la messa, riferivo ai fedeli una novella di Gide. Ricordo con riconoscenza questo geniale scrittore d’oltralpe perché mi ha insegnato, con il suo racconto, a guardare il Creato con un sentimento di curiosità, di stupore e di meraviglia, facendomi incantare di quanto mi circonda anche nelle giornate grigie, cupe ed apparentemente spente.

In questa novella Gide racconta l’esperienza di un pastore protestante, che era pure medico, che in un suo giro pastorale scopriva una adolescente cieca, ma che poteva recuperare la vista con cure opportune. Infatti la ragazza guarisce e lo scrittore aiuta il lettore a scoprire la struggente bellezza del Creato con lo stupore e l’incanto con cui questa giovane donna, che è appena uscita dal buio delle tenebre, scopre l’acqua verde del fiume, i movimenti armoniosi dei giunchi mossi da una lieve brezza, il danzare degli uccelli nel cielo azzurro e la luce calda del sole.

Il Signore ha permesso allo scrittore ateo di dare, anche lui, luce agli occhi, per vedere le meraviglie operate dal buon Dio.

Ritorno

Qualche tempo fa la dottoressa Lina Tavolin, responsabile de “Il Germoglio”, centro polivalente per l’infanzia, mi ha invitato a partecipare alla celebrazione del centenario di quello che un tempo era denominato “L’asilo infantile” della parrocchia di Carpenedo, sito in via Ca’ Rossa.

Su questa “creatura”, che con tanti sacrifici ho tentato di far rifiorire, ho scritto innumerevoli volte sulla stampa parrocchiale. Quello del restauro architettonico, ma soprattutto di quello pedagogico della vecchia ed ormai “sgangherata” scuola materna, è stato un capitolo quanto mai importante e ricco di fascino della mia vita come responsabile di quella comunità cristiana.

In una decina d’anni quella struttura obsoleta ed ancorata ad un cliché superato, è diventata una “scuola d’infanzia” – come si dice oggi – di prim’ordine e certamente ai primi posti nella graduatoria delle scuole materne di Mestre. Anzi penso proprio che le si possa con certezza assegnare la medaglia d’oro.

Da un punto di vista strutturale è stato il piccolo alunno di tempi lontani, Andrea Groppo, ora manager affermato, a fare dei veri miracoli. Mentre l’esterno del fabbricato mantiene l’austero volto dello stile Liberty di inizio novecento, l’interno è diventato quanto di più moderno e funzionale che si possa desiderare.

Per quanto invece riguarda l’aspetto pedagogico e didattico, il cuore, il calore e l’incanto, gliel’ha donato l’allora giovanissima pensionata dottoressa Lina Tavolin.

Lina – così tutti la chiamano -, ha creato un corpo di educatrici quanto mai valido ed affiatato, ed uno stile di vita parascolastico così fresco, sorridente, familiare ed accogliente grazie al quale tutta la struttura sembra un’aiuola fiorita dai volti belli dei piccoli della comunità.

La dottoressa Tavolin, che cinque, sei anni fa era andata in pensione per la seconda volta, è stata richiamata alle armi dal nuovo giovane parroco don Gianni, facendo così rifiorire sia la scuola che se stessa, attraverso una sorprendente rigenerazione.

Quando sono entrato nel mio vecchio asilo per il centenario, m’è venuto da pensare che la dottrina buddista della reincarnazione non sia del tutto sbagliata, vedendo questa fresca realtà nata da una struttura centenaria.

Raramente ho visto tanta vitalità, tanto movimento, tanta efficienza e collaborazione tra la scuola e il tessuto ambientale e sociale di cui è anima ed espressione. Ogni infisso, ogni arredo, ogni stanza che ho rivisto in quella mezz’oretta in cui vi sono rimasto, mi ha ricordato un’avventura che ha avuto anche momenti difficili e perfino drammatici, ma che tutto sommato ha approdato a risultati quanto mai positivi.

Me ne sono tornato a casa più che convinto che il coraggio, la collaborazione, la buona volontà e lo spirito di sacrificio, sono ancora capaci di “far miracoli”, e miracoli quanto mai belli e promettent!