Il pettirosso

La cronaca di ogni giorno è per tutti un tessuto fatto di mille fili che, presi uno ad uno, sembrano banali ed insignificanti; poi però, nel loro insieme, guardandoli a sera, spesso rispecchiano un progetto ed offrono messaggi che caricano la giornata di una sua funzione specifica che sarebbe sempre utile accogliere come un dono o un ammonimento. Talora però questi fili della trama del quotidiano hanno un colore più carico e diverso, che attira attenzione ed offre da solo un messaggio specifico.

Ho riflettuto a lungo su questo discorso qualche mattina fa per un episodio particolare che si è ripetuto per ben tre volte di seguito. Come ho confidato molte volte, io mi alzo di buon mattino, poco dopo le cinque, perché quello dell’inizio della giornata lo reputo un tempo di quiete perché nessuno bussa alla mia porta e soprattutto non squilla il cellulare, un tempo che credo opportuno dedicare alla riflessione e alla preghiera.

Normalmente, mentre riordino la mia persona, apro la porta-finestra che dà sulla terrazza per il ricambio dell’aria: un gesto abitudinario. Sennonché, per tre mattine di seguito, è entrato nel soggiorno un pettirosso, un gomitolino di piume forse attratto dalla luce e dal tepore, ma che ben presto si è sentito imprigionato tra le pareti bianche della stanza.

Dopo la prima sorpresa, ho spalancato la porta-finestra perché ritrovasse la sua libertà e infatti, dopo due o tre tentativi, scoperto il varco aperto, s’è rituffato nel cielo ancor buio per cinguettare il suo discorso che per me rimane misterioso e sconosciuto.

Come sempre, ho ripreso prima la recita del breviario, poi il testo della meditazione, però il mio pensiero è ritornato spesso all’avventura mattutina del pettirosso. I pensieri si susseguirono a grappolo: “Da dove è venuto, dove andrà, che funzione avrà nell’ecosistema, come si nutrirà, sarà felice?”.

Mi venne in mente l’introduzione del catechismo olandese che porge il messaggio di Gesù per l’uomo con l’immagine di un uccello che entra improvvisamente in una sala, vi rimane pochi istanti, per volare via verso il mistero.

“Tale – dice quel catechismo – è la vita dell’uomo. Tutto è Provvidenza, tutto è previsto nel progetto di Dio”, ma mentre il pettirosso si lascia condurre dalla provvida mano del Signore, io mi inquieto, mi tormento e mi carico di problemi inutili, quando sarebbe tanto più semplice e più saggio lasciarsi condurre fiduciosamente da quel Signore che se provvede al pettirosso, penserà anche a me.

Nessuno è profeta

Per Capodanno ho ricevuto una lettera, che trascrivo, da parte di un confratello, parroco di una grossa comunità della diocesi di Padova, collega che molto tempo fa, essendo venuto a conoscenza de “L’incontro”, mi ha chiesto il favore di inviarglielo. Questa lettera mi è stata molto di consolazione e di conforto perché credo che non mi sia mai capitato di ricevere un segno di consenso, e meno ancora di complimento, da parte di alcun prete della mia diocesi.

A dir il vero, appena arrivato in diocesi, il cardinale Scola, avendo letto qualche numero del periodico, m’aveva detto che esso era uno strumento quanto mai valido a livello pastorale e mi aveva incoraggiato a continuare. Poi però, dopo “l’incidente” delle vacanze del Papa (quando, avendo appreso dai giornali che queste vacanze avevano un costo – almeno per me – enorme, esorbitante e quindi inaccettabile per un cristiano, avevo manifestato il mio dissenso su “L’incontro”, intervento che la stampa nazionale aveva ripreso dandogli un risalto eccessivo) il vecchio Patriarca non era più tornato sull’argomento del periodico. Mentre c’è stato il silenzio e, talvolta, qualche critica dei colleghi, ho sempre raccolto tanti consensi dai cristiani comuni.

Ora m’è giunta questa lettera che mi conforta facendomi sperare che anche a questo riguardo sia valida l’affermazione evangelica che “nessuno è profeta in casa propria”. Ed ecco la lettera da cui tolgo, per discrezione, ogni elemento di riferimento.

03.01.2013
Carissimo don Armando,
voglio ringraziarla per il dono che mi fa ogni settimana col suo “L’incontro”. La ammiro per la sua parola sincera, libera e carica della passione del Pastore che ama tutti, particolarmente le “pecore” più deboli, come gli anziani. Questo è di stimolo anche per me a dedicarmi con amore e predilezione a questa categoria di persone.
Spero nella sua buona salute e gliela auguro di cuore. Prego con lei e per lei, perché il Signore esaudisca ogni suo desiderio di bene.
Conto sempre sulla sua amicizia, come io le assicuro la mia.

Una scoperta tardiva

Quando ero bambino, l’insegnante di catechismo mi aveva detto che dentro al cuore di ogni uomo c’è, si, l’angioletto, ma anche il diavoletto. Mentre l’angelo ci suggerisce cose buone, il diavolo cerca di tirarci dalla parte opposta. Un buon bambino non deve mai ascoltare lo spirito cattivo, anzi ogni volta che egli tenta di suggerire qualche cosa, ci si deve tappare le orecchie e rifiutare in maniera assoluta di ascoltarlo.

In verità, durante tutta la mia vita, ho dovuto lottare duramente contro “l’avvocato del diavolo” che puntualmente “mi ha fatto le pulci” ogniqualvolta mi venivano proposte le tesi della Chiesa sui vari problemi della vita.

Confesso che è stata una faticaccia non prendere in considerazione discorsi che non sempre mi sembravano sballati, assurdi ed irrazionali. Ho tentato di salvarmi aggrappandomi a Mauriac che affermò che “i fiori del male” appaiono sempre affascinanti ma, se colti, diventano deludenti. Tuttavia, leggendo una recente biografia del cardinale Martini “Il profeta del dialogo”, ho fatto una scoperta che m’è parsa liberatoria, che mi fa rimettere in discussione le fatiche di Sisifo di un’intera vita per dover rifiutare di prendere in considerazione “le tesi del diavolo”, ossia le posizioni dottrinali dei non credenti o dei “lontani”.

Bisognerebbe che riportassi tutto il capitolo sesto del volume “La cattedra dei non credenti” che, a giudizio dello stesso Martini, non è stata istituita principalmente per convertire gli atei, ma soprattutto per motivare, far prendere coscienza, provare e purificare la fede di chi crede. Eccovi un paio di passaggi.

“…Presentandola, il prelato spiegava: «Ritengo che ciascuno di noi abbia in sé un credente e un non credente che si parlano dentro, che si interrogano a vicenda, che rimandano continuamente uno all’altro domande pungenti e inquietanti. Il non credente che è in me inquieta il credente che è in me e viceversa. E’ importante percepire questo dialogo perché permette a ciascuno di crescere nella coscienza di sé. Quindi Cattedra dei non credenti vuol dire che ciascuno è invitato a svegliare le domande che il non credente, che è una parte di se stesso, pone al credente, che è l’altra parte». Dunque non si tratta di un’iniziativa indirizzata, innanzitutto, a chi non crede, ma piuttosto di una provocazione pensata in primo luogo per i credenti. Un dialogo che ancora prima di esprimersi nella parola o nello scritto, si svolge nell’interiorità di ciascuno. Un invito a pensare. Un invito a porsi domande”.

La formula attrae molto: non è né conferenza né predica, né apologetica, ma è far emergere le domande che abbiamo dentro. Significa inquietare chi crede, per fargli vedere che forse la sua fede è fondata su basi fragili, e inquietare chi non crede, per fargli vedere che la sua incredulità non è mai stata approfondita.

Confesso che tante volte mi sono sentito solo, perché ho dovuto sempre sostenere dentro di me un conflitto interiore, scomodo e lacerante, mentre tanti dei miei “vicini” mi sembravano paciosi forse più per non aver grane e non far fatica che per convinzioni maturate al crogiolo, e dall’altro lato mi sembra di constatare che la verità assoluta non è prerogativa del “fedele”, del “credente” o del “praticante”, perché anche chi è sull’altra sponda non ne è in assoluto privo, anzi è provvidenziale, per la mia fede, che egli dissenta da ciò che io credo.

Resurrezione

La comunità “Cenacolo”, che io ho conosciuto tramite una cara volontaria che presta la sua collaborazione presso il Banco alimentare del “don Vecchi”, mi fa pervenire mensilmente la bella rivista “Resurrezione”, che è l’organo di una Onlus che si occupa del recupero dei tossicodipendenti.

Questa comunità è stata fondata da una certa suor Elvira, una religiosa che una ventina di anni fa ha ottenuto il permesso di uscire da una delle tante congregazioni femminili ormai ammuffite e stantie e ne ha fondata un’altra che ha come scopo il recupero dei molti soggetti che sono caduti in una delle tante devianze del nostro tempo, ed in particolare il recupero ad una vita normale dei tossicodipendenti.

Questa suora, in un tempo relativamente breve, ha aperto più di una sessantina di comunità in Italia, in Europa e in tutto il mondo. Lo sviluppo di questo istituto religioso e delle case da esso aperte, ha veramente del miracoloso. Di lei e della sua opera ho parlato più di una volta su “L’incontro” e spesso ho pubblicato delle bellissime testimonianze che la rivista riporta in ogni numero nella rubrica “Testimoni di speranza”. Sono storie raccontate in prima persona da parte di ragazzi entrati in una di queste comunità fondate da suor Elvira e che hanno trovato qui la loro “resurrezione”.

Quando mi arriva la rivista, per prima cosa guardo le foto, poi leggo i titoli, perché sono immagini e parole che sempre sprizzano vita, gioia e ottimismo. Normalmente queste foto che riportano il volto dei “redenti” e delle religiose che si occupano di loro, sono immagini di ragazzi e ragazze che esprimono allegria, ripuliti dalla vita in comunità che ha adottato, come metro per il recupero, la proposta e la vita di un cristianesimo integrale.

Ogni volta che apro la rivista ho la sensazione che il vivere seriamente le proposte del Vangelo di Gesù porti ad essere felici e a servire in letizia chi ha bisogno di un aiuto fraterno. Quando poi comincio a leggere le varie testimonianze, respiro un’aria di entusiasmo, sento come la gente ha ritrovato la strada in una vita serena, aperta e felice, raggiunta attraverso la preghiera.

La rivista “Resurrezione”, che fotografa la vita di queste comunità di recupero dei “rifiuti d’uomo”, è qualcosa che mette ali al cuore e fa capire che il vivere seriamente ciò che Gesù è venuto a insegnarci, è il modo migliore per vivere una vita libera e bella.

Bene e male

I digiuni di Pannella, gli interventi senza numero dei radicali, i tentativi della signora Severino, ministro della giustizia, le esternazioni dell’ergastolano Musumeci e le condanne dell’Europa, oltre ai frequenti articoli sulla stampa, mi hanno reso ultrasensibile al problema delle carceri, che in Italia sembrano essere quelle di parecchi secoli fa.

L’ipocrisia sfacciata degli addetti alla giustizia che dichiarano spudoratamente che il carcere ha la funzione di educare e di redimere, mentre in realtà non fanno che “torturare” i cittadini che hanno sbagliato, costringendoli poi a frequentare una scuola superspecializzata del crimine, qual è oggi il carcere che insegna a delinquere, mi sta indignando ogni giorno di più quando tocca questo nervo nudo che reagisce ogni giorno sempre più intensamente.

Qualche giorno fa un certo tribunale ha condannato a sei anni di reclusione alcuni giovani mascalzoni che a Roma, in una delle tante manifestazioni di delinquenza, hanno attaccato e bruciato un furgone di carabinieri, mettendo in gravissimo pericolo di vita un milite della benemerita che, solo per miracolo, s’è salvata la vita. In tale occasione la televisione ci ha mostrato la scena veramente truce di questi delinquenti di strada, arrabbiati e decisi a sfasciare tutto.

I giudici hanno loro comminato una pena di sei anni. Benissimo! Magari il doppio! Però subito dopo ho pensato:
“Ora i giudici ci hanno accollato una spesa in più per il loro mantenimento, il carcere li abbrutirà ulteriormente e fra sei anni avremo una manovalanza superspecializzata in pronta offerta per la malavita”.

La Severino ha affermato che negli Stati civili i tre quarti dei condannati scontano la pena fuori dal carcere, mentre da noi meno di un terzo. Quanto sarebbe più razionale farli lavorare per il loro mantenimento e per ripagare quella società che loro hanno danneggiato con la loro assurda violenza!

La Severino, donna intelligente, certamente l’avrebbe già fatto, però quei “menarrosti” che siedono, ben pagati, in Parlamento, non glielo hanno permesso a motivo delle loro beghe assurde ed inconcludenti.

Quando rinsaviranno i governanti della nostra povera Italietta?

I brigatisti

Io ho vissuto da adulto gli “anni di piombo” del nostro Paese. Mille volte sono stato costretto a riflettere sul fenomeno delle “Brigate rosse”, sul loro progetto impossibile e già scartato dalla storia e sui loro discorsi farneticanti. Il mio dissenso, per mille motivi, è assoluto, però in questo tempo di “seconda repubblica” più di una volta ho riconsiderato la scelta dei brigatisti e mi sono messo nei loro panni per comprendere il loro modo di reagire ad una società ingiusta, ignobile, arrivando non certo a condividere, ma a comprendere un po’ di più, si!

So di ridire parzialmente in malo modo ciò che i giornali bene informati pubblicano puntualmente ogni giorno e la televisione ci offre nelle rubriche più serie e ci documenta con nomi, cifre e descrizioni particolareggiate.

Ripeto ciò che tutti sanno, forse solo per “sfogarmi” e per non essere travolto dalla ribellione, dallo schifo e dall’infinita amarezza perché chi ha voce più forte della mia non reagisce come dovrebbe e perché “gli angeli dalle trombe d’argento” – come diceva don Zeno, il fondatore di Nomadelfia – “non suonano l’accolta di tutti gli uomini di buona volontà” per combattere tante nefandezze.

Vengo ad un esempio – ma ce ne sarebbero cento, mille da riferire – che dovrebbe appartenere a certi sogni onirici piuttosto che alla realtà: Berlusconi, che è in grado di dare alla seconda moglie centomila euro al giorno, che paga un mensile di 2500 euro a certe ragazze che han partecipato ai suoi festini e che scende nuovamente in politica, accompagnato dalla fidanzatina di quarant’anni più giovane di lui, e che probabilmente avrà ancora milioni di italiani che lo votano! Ripeto però che di Berlusconi e di “Berlusconini” ve ne sono in ogni partito, in ogni ente del nostro Paese.

Di fronte a tutto questo, che almeno da venti, trent’anni si ripete puntualmente, quale reazione è ancora possibile? Non auguro – per carità – nuovi brigatisti, però ora capisco questi ragazzi disperati che sognano, come me, un mondo più giusto. Non mi resta se non la piccola consolazione di condannare e condannare chi non condanna. Ma è una ben poca consolazione!

Il dono di un pensiero diverso

Nota: questo articolo risale a diverse settimane fa, ancor prima delle dimissioni di Benedetto XVI.

Spero e voglio ascoltare sempre con attenzione, rispetto e disponibilità, le parole del Sommo Pontefice, dei nostri vescovi, dei colleghi sacerdoti e di chiunque, credente o non credente, abbia a cuore il bene della società.

Detto questo, ci sono delle cose che condivido, delle altre che non condivido ed altre ancora che rifiuto e che ritengo doveroso “combattere”. Aggiungo poi che quanto più è autorevole la persona che parla, quanto più è in posizione di autorità, di responsabilità e di visione più larga dei problemi della vita, tanto più cerco di essere attento e cauto nell’esprimere il mio giudizio. Il campo dell’opinabile è infinitamente più grande di quello della verità e delle certezze assolute.

Infine – almeno a me capita così – vi sono certe affermazioni che mi esaltano di primo acchito e delle altre che istintivamente mi rendono cauto e talvolta critico, pur conscio che ciascuno ha le sue responsabilità, risponde alla sua coscienza e perciò gli si deve sempre attenzione e rispetto.

Quando è possibile il dialogo e il confronto ritengo utile e doveroso farlo, quando ciò non è possibile, ritengo che questo confronto lo si debba fare onestamente all’interno della propria coscienza.

Vengo al motivo concreto di questo discorso importante, ma teorico. Recentemente il Papa ha ordinato sei vescovi e nel discorso tenuto durante il rito ha affermato pressappoco questo: «Il vescovo deve avere il coraggio di dire talvolta parole diverse da quelle della posizione dominante». Questo discorso mi è piaciuto più di altri, perché mi pare di riscontrare che troppa gente, fuori e dentro alla Chiesa, trova comodo starsene sempre zitta e si appiattisce sempre e comunque sulle “posizioni dominanti”, mentre penso che i “profeti”, anche infimi, sono sempre, anche tendenzialmente, “voci fuori dal coro”.

Sono stato felice nell’apprendere che anche il cardinale Martini era di questo parere e denunciò apertamente questo comportamento. E sento il bisogno di ribadire che, pur non volendo far parte della fronda, del dissenso astioso, non mi dispiace talvolta esprimere un parere un po’ diverso da quello che il Papa ha definito “posizione dominante”.

Spesso soffro e non capisco quando qualcuno mi definisce “coraggioso” o “duro”, quando nel mio intento non ambisco ad altro che collaborare, offrendo una posizione o una angolatura diverse nel vedere certi problemi.

Ancora sull’autoreferenzialità

In relazione ad un mio talloncino pubblicato su “L’incontro” circa l’iniziativa della Caritas e della San Vincenzo di organizzare quest’anno il pranzo natalizio nella chiesa di San Girolamo, alla stregua di quello che va facendo da molti anni la Comunità di Sant’Egidio, ho ricevuto una lettera che pubblico di seguito, perché chi segue il nostro periodico comprenda meglio. Nel talloncino pubblicato dicevo semplicemente che mi faceva felice l’iniziativa del pranzo a San Girolamo, ma che mi faceva ancora più felice sapere che il Banco Alimentare del “don Vecchi” offre i generi alimentari ogni settimana a duemilacinquecento concittadini in difficoltà. Nient’altro!

Eccovi ora la lettera.

Stimata Redazione dell’Incontro,
ogni settimana vi leggo condividendo più o meno quanto scritto.
Lo stile provocatorio così esplicito mi è stato di aiuto per fare un po’ il punto sul mio percorso di fede, sul mio essere parte di una comunità e sulla mia figura di presidente di una Onlus, ma altre volte lo stile autocelebrativo è a dir poco fastidioso.
Anche sul n. 1 di domenica 6 gennaio 2013 a pagina 6 il commento della Redazione sulla grande tavola natalizia è sembrato ancora una volta voler ribadire a tutti quanto di più la Fondazione fa rispetto ad altre realtà. Madre Teresa era solita affermare che “non è importante quanto di dà ma come si dà.” Certo che poter dire di sfamare 2500 poveri alla settimana è una gran bella cosa che gratifica il lavoro di molte persone, ma anche chi ha ascoltato le pene di un ammalato in ospedale, la sofferenza di una mamma di fronte ad una gravidanza inattesa, l’angoscia dei familiari per un caro ammalato, sta svolgendo un servizio per il prossimo. Certo i numeri sono inferiori e hanno meno impatto emotivo ma sono ugualmente importanti agli occhi del Signore perchè “ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 24,40) perciò, ogni tanto, carità e servizio attivo e silenzioso.

Furegon Brunella

Ed ora eccovi la risposta:

Sono d’accordo con Teresa di Calcutta e non mi è mai passato per la mente di non apprezzare quello che altri fanno in altri settori; infatti collaboro con più di un ente benefico. Mentre, essendo anch’io parte della Chiesa veneziana, voglio ribadire che non condivido “la carità spettacolo ed una tantum”, pur sapendo bene cosa fa la San Vincenzo per essere stato anch’io uno dei cofondatori della Mensa di Ca’ Letizia e poi uno dei corresponsabili per molti anni.

Secondo: sono poi del parere che si debba puntare, per quanto è possibile, ad offrire aiuti adeguati e non simbolici – vedi la vecchia abitudine del pacco a Natale e, forse, a Pasqua.

Terzo: mi sono speso ed intendo spendermi ancora per un coordinamento tra le varie attività di solidarietà all’interno della Chiesa di Venezia per una maggior consistenza di aiuti e per una copertura di tanti “spazi” purtroppo ancora non presidiati – vedi il discorso rimasto un binario morto, della “cittadella della solidarietà”.

Infine ringrazio la signora Furegon perché il dialogo e il confronto per me sono sempre utili, purché si rimanga con i piedi per terra.

Autoreferenziale

Fino ad una decina di anni fa non sapevo neppure cosa significasse il termine “autoreferenziale”; infatti non mi era mai capitato di imbattermi nelle mie letture, in questa locuzione. Lo sono venuto a sapere in un’occasione non troppo felice.

Un mio diretto collaboratore, un giorno in cui mi manifestò apertamente il suo dissenso sul mio modo di condurre la parrocchia, quando tentai di fargli osservare che con quell’indirizzo avevo ottenuto più di qualche successo, mi buttò là una risposta con cui mi pareva che liquidasse la questione, dicendomi che io avevo una mentalità ed un comportamento autoreferenziale. Capii poi, un po’ alla volta, che quella parola significava il ritornare, con qualche compiacimento, su qualche risultato vero o presunto, che uno pensava di aver ottenuto con le sue scelte.

Non ho mai consultato il vocabolario per vedere se il termine significasse proprio questo, ma comunque, da quell’occasione, sono sempre un po’ guardingo e prudente quando mi capita di valutare qualche mia “impresa”.

Questo discorso mi è venuto a galla quando, qualche giorno fa, i “miei ragazzi” che stampano “L’incontro”, mi hanno portato a conoscenza di qualche cifra. Infatti mi hanno riferito, alla chiusura del 2012, che lo scorso anno sono state stampate duecentoventimilaquattrocento copie de “L’incontro”, pari a duemilioniseicentoquarantaquattromilaottocento pagine.

A sentire queste cifre, confesso che ho provato un sentimento di soddisfazione, ma subito ho temuto che si trattasse di quella autoreferenzialità di cui mi accusava il mio cappellano.

Non so se questa autoreferenzialità sia un peccato grave, ma confesso pure che ciò non mi ha provocato né rimorso né pentimento. Superiori e colleghi si guardano bene dal complimentarsi per la nostra iniziativa pastorale di evangelizzazione – o preevangelizzazione che sia – tramite “L’incontro”.

E’ vero che in un “mondo di ciechi un monocolo è re”, perché a Mestre, se si eccettua “Piazza maggiore” del duomo di San Lorenzo, non avverto concorrenza di sorta, per quanto pallida, di periodici che si collochino pressappoco sulla stessa linea editoriale sui risultati de “L’incontro”.

Comunque la simpatia della gente – che è quello che ci interessa di più – è una gratificazionne che, referenzialità o meno, mi fa ringraziare il Signore per averci dato la possibilità di una semina così larga e di una resa più che soddisfacente.

Ladri infelici

Caro don Armando, tanto tempo fa (ormai tanto tempo fa) le scrissi indignata perché mi avevano rubato la carrozzina che voi mi avevate prestato. Ora è successa una cosa altrettanto gravissima. A una famiglia in difficoltà (speriamo momentanea) è stata rubata la spesa che aveva appena fatta al supermercato, chiusa in macchina, nel tempo di riporre il carrello.

Rubare il necessario a chi ha figli da nutrire è inaudito.

Mestre Benefica ha appena portato pacchi su pacchi a chi ne aveva bisogno. Società caritatevoli non si contano. Mense e gente di buona volontà, pronta ad aiutare, c’è. Contributi vari, agevolazioni di ogni sorta e… i dieci comandamenti, uno più valido dell’altro. Mi sa che dovrà riscriverli a caratteri cubitali e ogni settimana su “L’incontro”.

Mi perdoni lo sfogo. Se sant’Agostino si è crucciato tutta la vita per una pera… Ora non si cruccia più nessuno.

In una discussione sono stata rimproverata perché sostenevo che un po’ di senso di colpa fa bene, se questo succede quando si diventa coscienti che ci sono azioni che non hanno giustificazione, soprattutto se esistono altri modi per risolverle (e ce ne sono sempre).

Un saluto.
Lettera firmata

Carissima signora, moltissimi anni fa, quando giovane sacerdote, ero cappellano a San Lorenzo, una carissima e buona ragazza, preoccupata della salvezza eterna di un vecchio zio medico che da un’eternità non frequentava la chiesa, mi chiese di andarlo a trovare per “convertirlo” prima che fosse troppo tardi.

Non potei sottrarmi a questa richiesta, ma ognuno può immaginare con quale angoscia, io pivellino, ho suonato il campanello a questo uomo di scienza a me assolutamente sconosciuto. Per grazia di Dio le cose andarono molto meglio di quanto potessi immaginare. Dopo qualche visita mi accolse un giorno con le parole di un testo della Bibbia: “Benedetto colui che viene nel nome del Signore”. Il buon Dio aveva già provveduto a prepararlo. A me non è restato che confessarlo e portargli la comunione.

Di questo incontro ricordo una frase: «Io per una vita non ho praticato la Chiesa, però mi sono sempre attenuto a questa norma: `Preferisco che siano gli altri a farmi del male piuttosto che io a loro. Chi fa del male sarà sempre un soccombente, un infelice ed un fallito!

Cara signora, compianga quei “poveri” ladri, piuttosto che deprecarli e condannarli; la vita, prima che il Signore, li sta già castigando.

Voglio!

Qualche anno fa, nel mio vagabondare tra i periodici o i libri, ho scoperto “un raggio di sole sul nuovo giorno”. Consisteva in uno di quei pezzi intensi e capaci di darti forti emozioni che io vado raccogliendo per inserirli nel mensile che ho immaginato come un quaderno che faciliti ogni giorno una reazione positiva o negativa di fronte agli eventi della vita per trarne comunque vantaggio.

Vedendo poi che aveva come soggetto un anziano di fronte ad un cambiamento radicale della sua vita, ho pensato che potesse essere d’aiuto a tutti quei vecchi che la sorte deposita come la risacca sulla spiaggia tranquilla del “don Vecchi”.

Ho fatto plastificare il testo e l’ho affisso all’entrata dei vari Centri don Vecchi. In realtà l’iniziativa non credo abbia ottenuto l’effetto sperato, perché gli anziani entrano con grandi magoni per aver dovuto lasciare le loro case e pare che siano preoccupati di tutt’altro che leggere “la storiella” affissa all’entrata dei Centri.

Comunque vada, serve sempre a me, che me la vado a rileggere ogni tanto e quest’anno poi mi è servita per la predica di capodanno.

Eccovi la storiella.
Ad un vecchio muore la moglie e i congiunti gli suggeriscono di andare in casa di riposo. Il direttore gli illustra la stanza, i vantaggi della nuova vita protetta e termina dicendogli: «Vedrà che si troverà bene». L’anziano risponde: «Di certo mi piacerà il nuovo alloggio e la vita in questa struttura». Al che il direttore osserva: «Ma come fa a saperlo se non ha ancora visto nulla?». E il vecchio: «Ho già deciso che mi piacerà; sono certo che la stanza sarà bella e la vita serena!».

Morale: la bellezza e la positività della vita dipende soprattutto da noi. Sono convinto che, nonostante gli eventi più o meno positivi, siamo noi a dare colore alla vita, trama e luce al nostro vivere.

In merito a questa riflessione anch’io, ottantaquattrenne, ho deciso che il 2013 sarà il più bell’anno della mia vita e così ho suggerito ai miei fedeli il primo gennaio.

Il 31 dicembre del 2013 vi dirò come è andata se non sarò in Paradiso. E se fosse così, sarà di certo in assoluto l’anno più bello.

Il germe per la fiducia è sempre vivo

Più volte ho confidato agli amici che di primo mattino mi alzo normalmente alle 5,30 e dopo la preghiera dedico qualche tempo ad una lettura spirituale per meditare un po’. Quasi sempre mi avvalgo di semplici riflessioni fatte da cristiani sparsi in tutto il mondo: sono sempre pensieri molto semplici che partendo da un versetto della Bibbia preso a caso, sono analizzati con immagini che attingono alle esperienze quotidiane e che si rifanno alla vita di tutti i giorni.

Il 30 dicembre dello scorso anno un membro di una comunità cristiana degli Stati Uniti d’America, partendo dal versetto del Libro dell’Ecclesiaste “Ogni cosa ha il suo tempo sotto il cielo” calava l’affermazione della Bibbia traducendo il messaggio, di assoluta semplicità, di grande saggezza, in una immagine che tutti abbiamo modo di sperimentare e che mi ha aperto uno spiraglio di luce, di speranza e di serenità e mi ha aiutato a vivere una giornata in maniera più positiva. Eccovi il breve testo:

“Durante la mia abituale passeggiata mattutina passo accanto ad un orto urbano. L’area è stata suddivisa dal comune in piccoli lotti di terreno per gli abitanti del quartiere, che li coltivano a fiori e verdure. Quando sono passato la settimana scorsa, non c’erano né fiori né colori. Come Mai? Nei giorni precedenti avevamo avuto neve precoce e ghiaccio: in questa stagione di solito da noi orti e giardini vanno a riposo. La primavera porterà di certo nuovi frutti e tanti colori.

Come quel terreno, anche nella vita di ognuno ci sono stagioni ricche di colori e momenti grigi, in cui ci sembra di non riuscire a ottenere alcun risultato o di non essere più utili a nessuno. E’ una stagione di gelo. Il saggio autore dell’Ecclesiaste ci ammonisce che “per ogni cosa c’è il suo tempo sotto il cielo”. Poiché conosciamo la grazia infinita del nostro Signore, siamo certi che al momento giusto della nostra vita tornerà la gioia della primavera con la ricchezza dei suoi colori”.

Di certo non si tratta di una riflessione sublime d’alta filosofia o teologia, ma comunque, nello stato d’animo piuttosto grigio e pessimista in cui mi trovavo, un po’ per l’età e un po’ perché le cose non andavano come avrei desiderato ed infine perché non è che l’inverno mi entusiasmi più di tanto, comunque essa m’ha scaldato il cuore, m’ha fatto sognare primavera e soprattutto mi ha aiutato ad abbandonarmi al sapiente disegno di Dio che “ha fatto bene ogni cosa”.

La giornata che ne è seguita è stata più serena di quanto sperassi, sentendo che il Signore ci conduce per mano e forse manda il “ghiaccio” perché sappiamo sognare, desiderare ed apprezzare la primavera e le cose buone della vita.

Un’ottima “predica”

Qualche giorno fa un mio collega più giovane, – credo pur senza volerlo – m’ha fatto un’ottima “predica”, uno di quei sermoni che fanno pensare e mettono positivamente in crisi. Tutto questo non avviene facilmente, perché sono convinto che noi preti, predicatori di professione, siamo maestri nel trovare interpretazioni e scappatoie per cui “stiamo sempre a galla” e ci salviamo nonostante certe posizioni e certi comportamenti siano manifestamente poco conformi al Vangelo.

Vengo alla vicenda che mi ha portato ad ammirare e ad essere quanto mai toccato dal modo di pensare, ma soprattutto di agire, di questo mio confratello.

Gli anziani residenti al Centro don Vecchi di Campalto, dimorano, come qualcuno di loro ha felicemente affermato, “in una prigione d’oro”, ma sempre di prigione si parla perché a causa del traffico forsennato di via Orlanda, a mala pena e con pericolo possono muoversi solamente usando l’autobus; muoversi a piedi o in bicicletta sarebbe un suicidio certo.

Preoccupato anche per l’aspetto religioso, ho fatto due tentativi con due vecchi preti, però per motivi diversi sono andati male. Per grazia di Dio si è praticamente offerto un giovane prete della zona. Io, come comunemente si usa, gli avevo fatto avere una busta con l’offerta, che però egli ha respinto. Per Natale cercai di superare l’ostacolo facendogli avere “il panettone con un’offerta per la sua parrocchia”. Ma questo sacerdote, con una lettera quanto mai nobile ed edificante, mi rimandò l’offerta con queste parole che mi costringono ad una seria verifica personale. Spero di non essere indiscreto pubblicando il motivo del suo rifiuto, ma lo faccio solamente perché penso sia bene che i concittadini sappiano che ci sono anche dei preti di tale rigore, coerenza e delicatezza di coscienza.

Rev. Don Armando,
ho gradito il suo pensiero di riconoscenza, che un suo collaboratore mi ha consegnato la sera di Natale, ma ritorno indietro la somma che lo accompagnava. Non voglio essere scortese nei suoi confronti, e non metto assolutamente in dubbio le sue intenzioni, tuttavia io voglio essere fedele ad un principio che mi sono dato, quello cioè, per quanto è possibile, di fare qualsiasi servizio religioso, senza che esso sia “adombrato” da motivi economici, sia che figurino come offerta – compenso al celebrante o alla parrocchia o ai poveri o a qualsiasi altro scopo. Non entro qui nel discorso, che sarebbe lungo e complesso fare, sulla gestione economica delle parrocchie e sul sostentamento del clero. Sono sicuro che capirà questo mio desiderio.
Mi creda, quel grazie sorridente che gli anziani del Centro mi rivolgono alla fine della Messa, è per me più che sufficiente. A ben pensarci sono io che la devo ringraziare per l’occasione che mi ha dato.

Cordialmente,
29.12.12
(lettera firmata)

Un discorso del genere non può e non deve lasciarmi indifferente. Io finora mi sono comportato nella stessa maniera ogni volta che altri sacerdoti mi hanno chiesto qualche servizio religioso, né mai ho chiesto ai fedeli un centesimo per messe, funerali o matrimoni, però ho sempre accettato e accetto ancora ogni offerta che spontaneamente mi si dà in occasioni del genere, destinandola però interamente alle opere di carità.

Da queste offerte sono nati i Centri don Vecchi ed altre strutture di carità. Ripeto però che mi fa un immenso piacere e mi ha edificato quanto mai il discorso e il comportamento di questo mio confratello, offrendomi un’occasione per una verifica seria e rigorosa delle scelte che finora ho fatto.

Il dono di una splendida testimonianza

Una famigliola, che fa parte di quei “miei parrocchiani del don Vecchi” dei quali ho parlato ieri, per Natale mi ha donato un libro che, a differenza di altri volumi, per leggere i quali mi vogliono mesi, ho divorato in un paio di giorni. Ho deciso di parlarne agli amici perché spero che sentano il desiderio di leggerlo anche loro.

Non è frequente scoprire libri che parlino di Dio e della preghiera in maniera sciolta, scorrevole ed avvincente. Normalmente questi libri sono lagnosi, pieni di frasi fatte, di luoghi comuni, ma soprattutto tanto pedanti da far temere che non siano veri. L’editoria cattolica, a cui sono sommamente interessato non come studioso ma come utente che cerca la verità, sta sfornando attualmente dei libri quanto mai interessanti, ma spesso presumono una seria preparazione culturale specialistica; sono rivolti agli addetti ai lavori e perciò usano un linguaggio da esperti e quindi sono difficilmente fruibili dalla gente normale che ha poco tempo e ha soprattutto bisogno di discorsi scorrevoli, avvincenti, che si rifacciano a testimonianze personali e, per di più, che “suonino” veri.

Il volume che mi ha interessato e mi ha fatto molto bene durante il tempo natalizio, è scritto dal figlio di Adriano Celentano, il cantautore “molleggiato” che talvolta si impalca a predicatore destando ammirazione per le sue canzoni e discussione per i suoi predicozzi duri e provocatori.

Celentano, che non ha mai fatto mistero della sua fede, ma che spesso è stato duramente criticato dai cristiani della domenica, ha tre figli, uno dei quali è Giacomo, autore del volume “La luce oltre il buio”. Dalla lettura si avverte che è un “ragazzo” intelligente, con mille interessi.

La genesi del libro deriva dal fatto che l’autore, mentre sta intraprendendo, con un certo successo, la professione di suo padre, è colpito da una forma di improvvisa e gravissima crisi esistenziale che gli blocca la carriera, lo isola dal mondo e lo fa cadere in uno stato di terribile prostrazione.

Celentano junior confessa come recupera la salute e la fede attraverso la preghiera appassionata, rivolta al Signore.

E’ interessante il racconto autobiografico, ma è ancora molto più interessante il suo discorso sulla fede, su Dio, sull’amore e sulla preghiera. Faccio fatica a descrivervi quanto sia forte la convinzione religiosa di questo giovane del nostro tempo, quanto sia bella ed entusiasta la sua testimonianza di fede, di cui parla apertamente, quasi voglia farne dono a tutti.

La lettura di questo volume a me ha fatto più bene delle ultime encicliche papali; penso che farebbe altrettanto bene anche a tutti i miei amici.

Come Mosè

Un gruppo di “parrocchiani di adozione” della comunità cristiana del Centro don Vecchi di Carpenedo mi offre, durante l’anno, una collaborazione che è determinante per l’uscita settimanale “L’incontro”. Io mi considero “il presbitero sui generis” di questa “congregazione religiosa” composta da elementi tanto eterogenei per età, condizioni di vita e di pensiero.

Questa piccola comunità di adozione, sostanzialmente cristiana, riesce ogni settimana ad offrire un messaggio che tenta di ispirarsi a quello di Gesù per offrirlo ad una folla di uomini e donne che assomiglia a quella descritta dal Vangelo. Infatti, come ai tempi di Gesù, cinque, seimila persone della nostra città ogni settimana seguono ed ascoltano con grande interesse le nostre “catechesi” sulla proposta di Gesù.

Questo tentativo di evangelizzazione, fatto da cristiani non estremamente acculturati in teologia, i quali riescono, di settimana in settimana, a farsi “ascoltare”, è il “gruppo di ascolto” di gran lunga più numeroso di tutti quelli esistenti in diocesi messi assieme.

Io sono “un povero diavolo di prete” e non tento neppure di indottrinare i miei discepoli perché conosco i miei limiti costituiti dall’età e dalla mia modestia intellettuale, perciò cerco di “formare” i discepoli solamente attraverso la mia testimonianza. Faccio fatica a continuare, ma non smetto ancora sembrandomi un vero sacrilegio chiudere una “scuola di vita” e di fede così attenta e così frequentata.

Ogni tanto mi fisso delle date per “chiudere”, però quando mi avvicino ad esse, pensando alle migliaia di “ascoltatori” del nostro periodico, finisco per procrastinare il termine di questa esperienza che mi pare sia tra le poche che vedo nella nostra realtà cittadina, anche se sento parlare da mattina a sera di nuova evangelizzazione.

Talvolta mi sento come il vecchio Mosè che, amando appassionatamente il suo popolo, tiene le mani alzate in preghiera perché il popolo di Dio non soccomba. Sono grato a questi miei collaboratori che, intuendo la mia stanchezza, finora sostengono le mie braccia che invocano dal Cielo benedizione e grazia per i figli di Dio che incontrano tra continue “battaglie”, difficoltà ed insidie.

Oggi sento il dovere di ringraziare di cuore questi miei amati discepoli che aiutano questo povero prete a servire Dio e la comunità, nonostante la sua stanchezza e la sua vecchiaia.