Il Dio di Ruini

Più di quarant’anni fa, al tempo in cui ci fu una grossa emigrazione di operai dal sud al nord Italia, perché allora le fabbriche del nord “tiravano” e assumevano manodopera anche poco qualificata, partecipai ad un convegno che si tenne a Gallarate su questo argomento. La salita di cristiani del meridione in Piemonte, Lombardia e pure nel Triveneto ponevano infatti anche problemi di ordine pastorale. Mentalità, tradizioni e stili religiosi del sud emotivo e caldo, finivano per mal conciliarsi con una certa compostezza e freddezza dei cristiani del settentrione.

A questo dibattito partecipavano preti sia del sud che del nord, per cercare di capire da parte nostra la sensibilità religiosa del meridione e vedere come innestarla nelle strutture e nella sensibilità delle nostre comunità. Ricordo che di fronte ai discorsi di un prete di Napoli che menzionava le confraternite, le feste patronali e i riti tipici del meridione, un lombardo sbottò in una battuta tagliente: “Pensa, reverendo, che il vostro Dio assomigli al nostro?”.

In questi ultimi tempi sto leggendo, con tanta fatica e tanto lentamente, un grosso volume – 300 pagine – del cardinal Ruini, che ha come titolo: “Dio”. In questo recente volume il cardinale, che è stato fino ad un paio di anni fa il presidente dei vescovi italiani ed un diretto collaboratore del Papa, affronta tutte le problematiche che la cultura contemporanea sta elaborando nei riguardi dell’esistenza di Dio.

Confesso che questo testo difficile ed ostico mi incuriosisce, ma non mi fa bene, tanto che sono propenso a lasciarlo perdere. Ruini tenta di confutare tutte le posizioni degli oppositori della Chiesa attuale con argomentazioni arzigogolate, macchinose, irrequiete e talora stravaganti, almeno per me che sono persona di mediocre cultura e di grande semplicità interiore. Da questo volume vien fuori un Dio incerto e pieno di ammaccature. Mi riesce difficile, anzi rifiuto con decisione certi discorsi intellettuali, tali che arrivano ad affermare “cogito ergo sum” (penso e quindi sono). Io sono molto più vicino al famoso entomologo Faber che afferma, quasi in maniera paradossale, ma efficace quanto mai: “Io non credo perché semplicemente vedo Dio nel Creato”.

Ho l’impressione che il mio Dio sia meno misterioso e soprattutto meno problematico di quello di Ruini.

Quanto volontariato!

Una decina di anni fa ho avuto modo di ascoltare una conferenza di un responsabile a livello nazionale delle associazioni di volontariato. E’ stata, la sua, una relazione esaltante perché l’oratore, ben documentato, ha sciorinato una serie di dati sui gruppi di volontariato di ispirazione religiosa, ma pure su quelli di estrazione laica. Questo signore ci ha trasmesso la sensazione che il volontariato fosse il fiore all’occhiello della società italiana.

Da un punto di vista quantitativo non ebbi nulla da obiettare, anche perché non ero in grado di avere dati certi, però a livello qualitativo purtroppo non potevo condividere la certezza che il volontariato nel nostro Paese raggiungesse un livello di eccellenza perché, per esperienza personale, quello lombardo e piemontese è molto serio, mentre quello Veneto e dell’Italia centrale, passabile, pur con molti limiti, e quello del sud Italia piuttosto scadente, sia a livello numerico che qualitativo.

Di recente poi ho avuto modo di leggere da più parti che il volontariato, da tempo, ha avuto un certo affanno, soprattutto a livello numerico (perché questo è il dato più facilmente verificabile e quindi più certo).

Tuttavia, soprattutto da quando si è cominciato a parlare di elezioni, il fenomeno di chi avverte le deficienze e i bisogni della nostra società e il relativo dovere di accorrere al “capezzale dell’ammalato”, pare abbia avuto un sussulto di coscienza e di buona volontà. In queste ultime settimane durante le quali si stavano stilando le liste dei candidati alle varie amministrazioni dello Stato, ho potuto notare una corsa quanto mai affollata, che spesso è sfociata in una lotta accanita, per poter avere un posto nel salvataggio del nostro Paese.

Io sono in cammino veloce verso i novant’anni, ma in questo secolo non ho mai visto tanto desiderio di servire il prossimo e di offrire il proprio tempo e le proprie capacità perché i cittadini più poveri abbiano maggiori attenzioni, perché gli operai lavorino meno e guadagnino di più, perché l’amministrazione dello Stato sia più sana e meno costosa, perché finalmente in Italia regni la giustizia, la pace, l’uguaglianza e la libertà, tanto che mi dispiace quasi di stare per andarmene in Paradiso proprio quando questa schiera di volontari impegnati a ben governare la “polis” stanno per trasformare questa “valle di lacrime” in un nuovo e migliore paradiso terrestre!

A dire il vero mi pare che litighino un po’ troppo, si diano gomitate troppo frequenti e colpi bassi a non finire. Ma che cos’è tutto questo di fronte “all’età dell’oro” che stanno per offrirci? E di farlo per di più in maniera disinteressata, accontentandosi dello stipendio delle badanti e non ambendo ad una pensione superiore a quella sociale?

Fortunate le giovani generazioni che possono fruire di un volontariato così numeroso e disinteressato!

La morte del “barbone”

Nota della Redazione: ricordiamo che i gli appunti di don Armando risalgono a diverse settimane fa.

La notizia della morte per assideramento di un “barbone” su un pontile dei vaporetti in Riva degli Schiavoni ha impegnato tre colonne della cronaca di Venezia de “Il Gazzettino” e quattro righette su una sola colonna il giorno dopo. La cosa credo che sia stata ritenuta di poco conto se la si confronta con i titoloni su quattro cinque colonne dedicate alla campagna elettorale con tutte le problematiche suscitate dall’immensa folla di candidati che stanno dandosi gomitate senza esclusioni di colpi per riuscire ad ottenere la possibilità di “servire il Paese” e di offrire le loro “soluzioni miracolose”.

Il cronista ebbe ben poco da scrivere perché a chi può interessare la notizia che un “barbone” è morto di freddo in una notte senza stelle a Venezia? Credo che siano stati ben pochi i lettori della cronaca nera che si siano posti la domanda su che cosa ci fosse dietro quegli indumenti stracciati e sporchi e sullo squallore di quella morte solitaria sull’imbarcadero e meno ancora quelli che si siano chiesti che cosa si possa e soprattutto si debba fare perché queste cose non avvengano più, non tanto perché non sono convenienti per la bella Venezia e controproducenti per il turismo, ma perché non è degno di una città civile e di una Chiesa di discepoli di Cristo che un figlio di Dio viva e poi muoia così come fosse una bestia indecorosa e abbietta.

Il pensiero che questo decesso miserevole sia avvenuto quasi a ridosso delle belle, luminose e calde liturgie natalizie, mi rattrista e mi avvilisce maggiormente e di primo acchito mi è venuto da rivolgermi ai veneziani e a tutti coloro che fanno soldi con i milioni di turisti perché ci offrano un milione, e forse uno e mezzo di euro, per costruire un ostello per i senzatetto.

Noi della Fondazione siamo pronti a mettere a disposizione la superficie e, in collaborazione col Comune, a gestire una struttura del genere. Nel villaggio dell’accoglienza degli Arzeroni ci starebbe bene una simile struttura, magari un alberghetto di classe uno alla francese con una stanzetta monacale ma essenziale, pulita e decorosa, per ogni senzatetto. I cittadini potrebbero acquistare dei buoni alloggio del costo di pochi euro per darli ai poveri che chiedono l’elemosina, piuttosto che offrire loro denaro del quale essi non sempre fanno buon uso.

Non mi si dica che le parrocchie di Mestre non potrebbero assumersi questo onere! Se chi è deputato a gestire la carità dei quattrocentomila cattolici della diocesi veneziana avesse un progetto ben lucido e la volontà di dare alla carità la stessa importanza della messa e del catechismo e il coraggio di proporlo in maniera seria, nel giro di un anno al massimo l’operazione potrebbe andare in porto, per poi pensare per il prossimo anno ad un altro progetto solidale.

Tanti fratelli quanti sono gli uomini della nostra terra

Credo che per una legge di natura e per tradizione antica l’uomo sia istintivamente portato a difendere e aiutare le persone del suo sangue e della sua famiglia. Questa è certamente una legge sapiente che il buon Dio ha infuso nel cuore dell’uomo. Lo stesso comandamento “Ama il prossimo tuo come te stesso” codifica che l’amore deve riguardare soprattutto quelli che sono più vicini, quelli con i quali si hanno contatti più costanti, perché è facile affermare di amare uomini con i quali non si può avere nessuna dimestichezza e nessun rapporto. Tutto questo però non autorizza a trascurare chi non è della propria famiglia, del proprio clan e del proprio Paese.

Qualche giorno fa mi è capitato di rileggere il brano del Vangelo in cui l’evangelista rferisce che mentre Gesù era impegnato all’interno di una casa a parlare del Regno, qualcuno lo avvertì che “sua madre e i suoi congiunti” lo aspettavano fuori dalla porta. Al che Egli rispose: «Chi è mia madre e chi sono i miei parenti se non quelli che (forse occasionalmente) mi stanno ascoltando, interessati al mio discorso sul progetto di vita?».

Oggi, in un mondo globalizzato in cui la Terra, a motivo dei mezzi di comunicazione di massa, è diventata un “villaggio”, questo discorso diventa più di sempre vero ed attuale. Però sono ancora pochi quelli che lo sanno tradurre in regola di vita ed in esperienza personale.

Penso che Raoul Follereau abbia vissuto questa dimensione dell’amore quando affermò: «Io ho a questo mondo tanti fratelli quanti sono gli uomini e le donne che abitano questa terra» e poi, coerentemente, spese tutta la sua vita per la salvezza dei lebbrosi del mondo intero e pregò: «Signore non permettere che io tenti di essere felice da solo».

Oppure penso al giovane scout Guy De Larigaudle che avendo notato il manifesto di una bellissima attrice, protagonista di un film in programma nei cinema di Parigi ed avendo pensato che dietro quei grandi occhi suadenti e ai bellissimi capelli platinati c’era certamente un cuore di donna con i suoi drammi, entra in una chiesa, ringrazia Dio per tanta bellezza e prega perché la faccia essere felice.

Ascoltare seriamente il messaggio di Gesù sull’amore, comporta anche avere queste convinzioni e questi comportamenti.

Gesu’ a nozze

Quest’anno spero proprio che il mio sermone a commento delle Nozze di Cana abbia fatto centro. Durante la predica c’è stata un’attenzione perfino superiore a quella ottima che registro ogni domenica nella mia “cattedrale fra i cipressi”.

La mia chiesa, che a molti dà l’impressione di una calda ed intima baita di montagna in cui si trovano cari e vecchi amici, è quanto di meglio un prete possa sperare. A me il buon Dio ha fatto questo splendido dono, per cui lo ringrazio cento volte al giorno. Per un vecchio prete che si avvia velocemente verso la novantina, che è conscio dei limiti di sempre e pure di quelli aggiunti dall’età, incontrare ogni domenica una comunità così cara ed attenta, è quanto di meglio un sacerdote possa desiderare. Però devo ammettere che talvolta, in particolare, la parola di Dio sembra calarsi come una dolce carezza che scalda il cuore e che aiuta a sentire quanto il buon Dio ci vuole bene e quanto sia bello camminare tenendoci per mano verso la Terra Promessa.

Già dal momento in cui ho cominciato a riflettere sul sermone da tenere fui avvolto da un’ebbrezza interiore che spero di aver trasmesso ai miei fedeli, così da aiutarli a fare una bella esperienza religiosa come dovrebbe avvenire ogni domenica.

Il sermone si è sviluppato su questi tre argomenti:

1) Gesù, con la sua partecipazione a nozze, abbraccia anche gli aspetti più festosi della vita. Ho notato da sempre, con perplessità, che la religiosità dei cristiani mostra sempre qualche reticenza e preoccupazione nei riguardi della felicità, dell’amore e del sesso. Ho capito finalmente fino in fondo che Gesù non la pensa così, infatti disse: «Sono venuto perché abbiate la gioia e la vostra gioia sia grande». Non bisogna temere, anzi dobbiamo godere appieno delle cose belle della vita, perché esse sono un vero e grande dono di Dio.

2) Gesù comincia la serie dei miracoli apparentemente con un “miracolo superfluo”, non strettamente necessario, e quindi ho riflettuto con la mia gente che anche i nostri involucri multicolori che avvolgono certi aspetti della vita hanno la loro importanza, che non si devono guardare con superiorità, ma anzi usare abbondantemente.

3) Gesù dona non solamente del vino, ma dell’ottimo vino, anche quando avrebbe potuto offrire un vinello da supermercato. La carità va fatta e va fatta bene, senza tirchierie, senza musi lunghi, ma spontaneamente e gioiosamente e con generosità.

A pensarci bene questi discorsi non sono quanto mai impegnativi, ma sembrava, quando li ho fatti nella predica, che i fedeli avessero scoperto l’America, tanto si è abituati, nel pensare comune dei credenti, alla legnosità, al negativo e alla paura del bello e di ciò che rende felice e gioiosa la vita.

La Marini

Ho confidato, anche nel passato, il mio sconcerto nell’apprendere che i giovani di oggi praticamente rifiutano il matrimonio.

Quando ho letto che anche nel patriarcato di Venezia ormai i matrimoni celebrati con rito civile superano di gran lunga quelli religiosi, sono stato pressoché interdetto, perché fino a trent’anni fa si contavano sulle dita di una mano quelli civili.

Ora, non so se per la moda, per paura di un vincolo stabile, per motivi economici, per rifiuto dei corsi prematrimoniali obbligatori o per assoluta indifferenza religiosa, stanno diventando mosche bianche i giovani che si sposano in chiesa. Ma da quanto ho potuto capire attualmente sono entrati in crisi anche i matrimoni celebrati in Comune da qualche funzionario munito di fascia tricolore.

L’ultima moda sembra essere quella della convivenza. Purtroppo constato che “saltano” in ugual misura sia quelli religiosi che i civili, ed ugualmente le convivenze. Anche le unioni nuziali e quelle similari sembrano galleggiare su “valori liquidi” estremamente mobili e di nessuna consistenza.

In una situazione del genere venire a sapere che una ragazza un po’ attempata e che non ha brillato proprio per moralità, si è sposata in chiesa, dovrebbe fare enormemente piacere ad un vecchio prete come me che, anche in queste cose, si rifà fatalmente al suo “piccolo mondo antico”. Invece no! Quando una mia fedele, avanzata negli anni – ma non troppo – mi ha chiesto: «Non ha letto, don Armando, che la Marini, quella dei film erotici di Tinto Brass, si è sposata?», ho risposto di no, perché certo io non leggo mai queste notizie di cronaca (non so se definirla rosa o nera). Lei soggiunse, scandalizzata ed indignata: «S’è sposata, e in Vaticano!» (penso abbia voluto dire “in San Pietro”, madre di tutte le chiese). E poi, con un affondo finale: «Dio sa quanto avrà pagato!».

Io devo essere l’ultimo a scandalizzarsi per la “pecorella smarrita” o per il “figliol prodigo”, però penso che un po’ di discrezione per queste cose e per questi personaggi ci vorrebbe proprio! Con tante chiese che si trovano ovunque, quel prete che l’ha preparata al sacramento nuziale penso che avrebbe potuto suggerirle di entrare in chiesa in punta di piedi e senza l’abito bianco.

Spero tanto che non c’entrino i soldi, però credo che il buon Orazio abbia ancora ragione, quando afferma che “ci sono certi limiti al di qua e aldilà dei quali non c’è il giusto”. Ora non vorrei proprio apprendere che ci sia anche di mezzo un vescovo o, peggio ancora, un cardinale!

La preghiera di un “miscredente”

Un magistrato in pensione, in onore della sua cara e calda amicizia, spesso mi passa libri, dischi e films che egli intuisce che mi possono interessare quanto mai. Essendo questo signore ormai in pensione, dopo essere stato presidente per il tribunale dei minori a Venezia e avendo perduto la sua cara consorte un paio di anni fa, si dedica ora alla lettura, alla musica e all’amato sport della bicicletta.

Laureato alla “Cattolica” di Milano, questo magistrato ha acquisito un sottofondo culturale di notevole spessore, che aggiorna costantemente seguendo la produzione letteraria contemporanea che affronta tematiche sociali e religiose, vedendo film di contenuto elevato e, nello stesso tempo, vivendo la vita religiosa con grande semplicità. Io, come con tutti, gli dedico poco tempo, ma egli, con grande discrezione, mi rende partecipe della sua ricerca spirituale.

Qualche settimana fa mi ha passato una bella preghiera, che pubblico in questo numero de “L’Incontro”, e con fare un po’ sornione mi ha chiesto che, dopo averla letta, gli facessi sapere chi io ritenessi ne fosse l’autore. Ho letto con particolare attenzione questa preghiera; notai che non aveva nulla del lagnoso che spesso hanno le preghiere, anzi intuii, specie nel finale, un lieve sapore critico per la religiosità ufficiale e di maniera.

Tentai, pur sapendo che non era credente e che si era suicidato, di attribuirla a Primo Levi, sapendolo un uomo che ha sperimentato tutta la meschinità dell’uomo sadico e prepotente. Sennonché il mio amico, con un altro sorriso sornione, mi disse che l’autore era Voltaire, il pensatore laico del secolo dei lumi. Al che obiettai: «Ma Voltaire non era ateo?». Il magistrato mi chiarì: «No, Voltaire era anticlericale, non ateo!». Capii subito che il pensatore francese ne aveva ben donde per essere anticlericale, dopo il comportamento dell’alto – ma anche del basso – clero dei suoi tempi.

Riflettei a lungo e seriamente su questo argomento, arrivando ad una conclusione quanto mai amara per chiunque, soprattutto per un prete quale sono io: l’anticlericalismo, piuttosto che un segno di areligiosità o di ateismo, credo che lo si debba considerare segno di una ricerca e di un bisogno di una religiosità autentica. Il discorso si farebbe lungo e triste su questo argomento; per ora mi limito a tentare di trarne le conclusioni per quanto mi riguarda.

Dio

Il mio “primo amore” è stata certamente la parrocchia di San Lorenzo, ove ho fatto le mie prime esperienze di giovane prete. Da questo amore, mai spento, nasce la particolare e costante attenzione allo sviluppo religioso di quella comunità in cui ho imparato che il messaggio cristiano ha ancora mille prospettive di sviluppo qualora sia offerto in linea con la sensibilità della gente del nostro tempo.

Seguo le vicende della vita pastorale di San Lorenzo, soprattutto con la lettura del foglio settimanale “La Borromea” spinto dal fatto di esserne stato cofondatore con monsignor Vecchi nel 1968. “La Borromea” fu il primo foglio parrocchiale apparso nella nostra città ed ha tratto origine da un (per me famoso) “pellegrinaggio pastorale” che, attorno a quegli anni, feci con Monsignore in Francia, Paese che a quel tempo era all’avanguardia nel campo della pastorale.

Ebbene dalla “Borromea” appresi qualche tempo fa il progetto che mons. Bonini sta portando avanti con gli studenti universitari della casa studentesca San Michele e quella della parrocchia. Don Fausto ha denominato questo ciclo di incontri giovanili “Cercatori di Dio”, rifacendosi alla famosa caccia all’oro che ebbe luogo in America un paio di secoli fa.

Questo ciclo di incontri, portato avanti con il metodo seminariale, per arrivare ad una conoscenza più approfondita di Dio, mi fece venire in mente un articolo-confessione apparso su “Epoca” un paio di decenni fa, in cui il famoso giornalista Augusto Guerriero, che si firmava sul settimanale con lo pseudonimo di “Ricciardetto”, scriveva allora che aveva cercato Dio appassionatamente, ma non era stato capace di trovarlo.

Il giornalista intitolava il suo articolo “Quesivi et non inveni” (Ho cercato ma non ho trovato). Nel giro di pochi giorni Carlo Carretto, il famoso presidente della Fiac del dopoguerra, che s’è fatto “piccolo fratello di Gesù”, rispose: “Quesivi et inveni!”, discorso di cui ha fatto poi oggetto di un libro. La “corsa all’oro” anche oggi può avere un risultato positivo. Dio si fa trovare anche dagli uomini di oggi, però lo si deve cercare veramente, senza preconcetti, con grande impegno, senza presunzioni e con animo semplice ed aperto.

Sto leggendo un libro del cardinal Ruini su “Dio”, un testo difficile con infinite citazioni dei pensatori più irrequieti del nostro tempo, animi aggrovigliati, irrequieti e sconclusionati. Per quella strada credo che Dio rimanga sconosciuto per sempre.

Con mia grande consolazione ho appreso invece, alcuni anni fa, che il famoso giornalista di “Epoca” era finalmente approdato alla fede ed era morto in pace con Dio, perché aveva continuato a cercarlo con onestà intellettuale.

Latitanze

Qualche tempo fa un mio vecchio collaboratore, colpito da una lunga malattia, mi ha rimproverato pubblicamente di non essere andato a trovarlo. Aveva ragione! Come hanno ragione altre persone alle quali voglio veramente bene, ma che so di trascurare.

Al vecchio amico del rimprovero ho scritto per chiedergli scusa, aggiungendo poi alcuni motivi che ho ritenuto attenuanti, ma che dubito lui abbia accettati come validi.

Onestamente comprendo ed approvo il desiderio di chi è in difficoltà, di voler accanto un prete conosciuto. Nel mio animo partecipo ai drammi di una infinità di persone che il mio ministero mi ha fatto incontrare, spesso prego ora per l’uno, ora per l’altro quando i loro volti, per i motivi più diversi, emergono dalle nebbie della memoria, però spesso sono latitante e, per questi vecchi amici, deludente.

Questo problema me lo sono posto migliaia di volte, facendo propositi su propositi, però finisco sempre per lasciarmi assorbire dai miei impegni, che poi sono sempre di carattere pastorale, ma che riguardano la collettività piuttosto che l’individuo.

Io confesso che non riservo mai tempo per me, che non me ne resto mai ozioso o disimpegnato, che spendo ogni risorsa per il bene morale o fisico del mio prossimo, che le mie giornate sono piene zeppe per mantenere gli impegni che ho ritenuto doveroso prendermi, però non riesco proprio a trovare il tempo per amicizie particolari o per prestare attenzioni continuative e prolungate ai singoli.

Recentemente è morto monsignor Zardon, che pressappoco aveva la mia età ed era ancora parroco di una piccolissima parrocchia di Venezia. La stampa, ma pure alcune persone, m’han detto che rimaneva nella sua chiesa da mattina a sera, seduto in un banco della sua chiesa, dedicando il tempo a parlare con persone che andavano a cercarlo.

Ho appena letto un brano di san Paolo che afferma che ognuno ha i suoi doni e i suoi carismi specifici, ma ne possiede uno, non tutti; mi auguro che questa sia per me una attenuante e perciò credo che dovrò continuare a dedicarmi alla collettività piuttosto che ai singoli, lasciando ad altri questo compito gratificante per quei, relativamente pochi, che ne possono beneficiare.

Amore

Ogni mattina verso le sette, prima di partire per “il lavoro”, do una scorsa veloce al “Gazzettino”, che puntualmente suor Teresa mi porta a casa. La lettura del quotidiano quasi sempre mi avvilisce perché presenta sempre il volto più deludente e squallido della vita.

Qualche volta mi sono persino preso la briga di contare quanti sono gli articoli con notizie positive e quanti quelli di cronaca nera. Finora le positive non hanno mai superato il cinque per cento e per di più sono tutte confinate in angoli marginali e con titoli minuti, mentre le notizie di beghe politiche, scandali, ruberie, vicende di prostitute, contrasti sindacali, omicidi, fatti di sangue in famiglia e pettegolezzi di ogni sorta, campeggiano trionfanti su ogni pagina del giornale. Fortunatamente, nella mia vita quotidiana, il rapporto tra il bianco e il nero mi risulta all’opposto, altrimenti ci sarebbe proprio da disperarsi.

Stamattina stavo riflettendo sulla funzione negativa della stampa che finisce per educare al male a causa della sua ossessiva mania di assecondare la morbosità del lettore e per la preoccupazione di vendere più copie, quando, una volta ancora, notai un anziano signore che, a capo scoperto nonostante la rigidità della temperatura, stava in meditazione e preghiera di fronte alla tomba di sua moglie seppellita vicino al vecchio ingresso del nostro cimitero. Avevo appena letto il titolo di quattro, cinque fatti di sangue avvenuti in famiglia, con mariti violenti nei riguardi di mogli e conviventi, quando la testimonianza d’amore di questo vecchio signore che “incontro” ogni mattina m’è apparsa ancora più bella e sublime. L’amore “vecchio stampo” è qualcosa di veramente grande e sacro, che dà nobiltà alla vita e positività al rapporto tra uomo e donna.

Mi sono quasi irritato constatando che non c’è mai un cronista che informi su questi aspetti belli e grandi che si possono ancora oggi cogliere nella quotidianità della vita.

Per me la presenza silenziosa di quest’uomo provato dal lutto di fronte alla tomba della sposa è, ogni mattina, un contrappeso di cui ho veramente bisogno per credere ancora all’amore vero.

Il contrappeso

Qualche giorno dopo l’incontro col Patriarca e i colleghi al “don Vecchi”, ho avuto modo di partecipare alla riunione del consiglio di amministrazione della Fondazione, che mi ha “ricaricato” di sogni, progetti, coraggio e di ottimismo.

Il consiglio di amministrazione della Fondazione si riunisce ogni due settimane ed è diretto da don Gianni, il giovane parroco di Carpenedo che sprizza scintille. A sentire questo prete, pare che nella vita non ci siano ostacoli o, quando si incontrano, sembra che faccia parte del gioco saltarli senza esitazione e senza paura, che anzi eccitino a pigliarli di petto.

Il Comune, dopo la sua resa di darci l’area di viale don Luigi Sturzo per l’opposizione di qualche cittadino tutto preoccupato del proprio benessere e per nulla attento e disponibile al bisogno degli altri, ci ha proposto l’assegnazione, in diritto di superficie, di un’altra area praticamente interclusa e gravata da un’infinità di problematiche a livello catastale e di legami legali. Anche le persone più coraggiose, di fronte a quella tela di ragno, avrebbero desistito, mentre don Gianni, con pazienza certosina e fine abilità, ha dipanato quella matassa quanto mai imbrogliata. Ma i suoi collaboratori diretti, il ragionier Rivola, il geometra Groppo e il geometra Franz non sono da meno. Lanfranco Vianello, pure lui consigliere, e il sottoscritto, invitato per cortesia, si sono riservati la funzione di pungolare questi “cavalli di razza”.

L’ultima riunione del consiglio mi ha, più che entusiasmato, letteralmente galvanizzato. E’ stato appena approntato il progetto e reperito il relativo finanziamento, mentre non è ancora partito il cantiere del “don Vecchi 5”, la struttura pilota per anziani in perdita di autosufficienza, che già s’è posto sul tavolo un ventaglio di proposte per una nuova struttura d’accoglienza per i mariti divorziati, i disabili che cercano una vita autonoma ed un ostello per operai ed impiegati fuori sede.

Mentre ascoltavo, deliziandomi, questo fuoco di artificio di progetti di persone che non temono il futuro, ma anzi lo sfidano e ne vanno all’assalto, m’è venuto da pensare che se il Patriarca fosse capace di reclutare una cinquantina di persone del genere che, nonostante la famiglia e la professione, sono disposte ad impegnarsi come volontarie per l’aiuto ai cittadini più fragili, potrebbe dormire sonni più tranquilli.

In passato ho letto una preghiera in cui si chiede al Signore di mandare “uomini folli” per salvare il nostro mondo. Io proporrei che alle preghiere dei fedeli se ne aggiungesse, in tutte le parrocchie e in tutte le messe, una per ottenere anche “preti folli” perché di prudenti, pii, equilibrati e benpensanti ne abbiamo fin troppi, nonostante la carenza del clero.

I miei colleghi

Dopo tanto tempo ho partecipato ad una riunione dei sacerdoti di Mestre, un po’ perché l’incontro s’è tenuto al “don Vecchi” ed un po’ ancora perché il nuovo Patriarca m’ha fatto osservare che sarebbe opportuno che partecipassi almeno alle riunioni più importanti.

All’incontro erano presenti una quarantina tra preti e diaconi, per la maggioranza parroci. Oggi la stragrande maggioranza delle parrocchie di Mestre può contare solamente sul parroco; infatti i cappellani, ossia i giovani preti, sono pressoché scomparsi. Un tempo ero fortemente preoccupato per questo fatto, ora sono più sereno perché ritengo che questa carenza stimolerà i laici ad assumersi quelle responsabilità all’interno della Chiesa che i preti sono stati sempre restii a delegare. Ora la Provvidenza sta costringendoci a fare quello che con un po’ di fiducia e di lungimiranza avremmo dovuto fare almeno da un trentennio.

Il fatto che almeno da un paio d’anni non facessi l’esperienza di queste “congreghe” m’ha reso particolarmente sensibile e reattivo. L’argomento verteva soprattutto sul tempo in cui conferire la cresima e sull’abbandono della pratica religiosa da parte degli adolescenti.

Più di una volta, davanti a certi discorsi accomodanti, vellutati e privati di qualsiasi angolo sarei stato tentato di intervenire con quella rude franchezza che mi ha creato tanti “nemici”, però fortunatamente mi sono trattenuto, ricordandomi che il Patriarca, nell’incontro di presentazione avvenuto qualche settimana fa, m’ha detto che sono vecchio. Non avendo ancora capito cosa volesse dirmi, perché sarebbe stato perfino banale che si riferisse solamente alla mia età anagrafica, mi sono limitato ad ascoltare.

A dire il vero i discorsi dei colleghi non mi sono parsi troppo esaltanti, m’è parso di avvertire tanta rassegnazione, atteggiamento di ripiegamento e di difesa, non ho avvertito un guizzo di ottimismo, di coraggio, un tentativo di balzare fuori dalla trincea per andare al contrattacco, di consapevolezza di avere un messaggio valido, anzi il più valido a rispondere alle attese vere dell’uomo di oggi. Troppe parole mi sono sembrate acquistate al mercatino delle cose usate o, al massimo, all’ipermercato. Ho sentito pensieri “stanchi” e soggezione per la cultura del nostro tempo.

Alla sera, facendo l’esame di coscienza, mi sono chiesto: “Io sono forse un don Chisciotte, o l’ultimo dei moicani?”. Comunque ho deciso di tenermi alla larga da simili incontri perché, almeno secondo me, non mi fanno bene.

Nota dell’autore

Nota della redazione: questa riflessione è stata scritta diverse settimane da e ora il volume “Tempi supplementari” è disponibile nella Chiesa del cimitero, al don Vecchi, all’Angelo e in tutti i luoghi indicati nei vari numeri de L’Incontro.

Oggi ho stilato una “nota d’autore” come prefazione del nuovo volume “Tempi supplementari”, che raccoglie il diario dello scorso anno. Lo anticipo all’uscita dell’ultima raccolta delle mie riflessioni quotidiane, perché penso che, tutto sommato, faccia il punto della mia vita di vecchio prete che spesso ritorna con nostalgia e rimpianto al suo passato, ma che non si è ancora arreso e desidera spender al meglio quel poco che gli resta, perché vorrebbe che “la morte lo incontrasse ancora vivo”.


Per evitare l’ulteriore disagio che provo ad offrire ai miei concittadini delle riflessioni povere, disadorne e spesso scontate, avevo trovato il coraggio di chiedere ad una cara collaboratrice de “L’incontro” di presentare brevemente il mio “diario” del 2012 e lei, con amabile gentilezza, aveva accettato di farlo. Poi però, ancora una volta, vi ho rinunciato perché sono certo, che per farmi piacere, avrebbe usato parole care e avrebbe taciuto sui limiti dei miei pensieri, sulla loro ripetitività e soprattutto sulla loro notevole modestia perché essi non hanno un supporto culturalmente adeguato.

Quindi, sperando di avere ancora sufficiente lucidità nel conoscere i miei limiti, ho preferito ancora una volta essere io, pur arrossendo, a motivare la mia scelta di raccogliere in questo mio ultimo volume le riflessioni che ho maturato lungo i giorni dello scorso anno.

Forse la mia è una delle tante illusioni, o peggio ancora una presunzione, pensare che siano così rare le voci libere nella nostra città e pure nella Chiesa locale, che abbiano la voglia o l’ardire di offrire, seppure con rispetto ed amore, il loro contributo anche se un pizzico controcorrente dall’opinione prevalente e credere doveroso da parte mia compiere questo “servizio” pur sapendolo non sempre ben accetto.

Ripeto che il mio pensiero è nato nel secolo scorso e perciò risente, oltre che della sua vecchiaia, anche, ripeto, del limite di un prete che è vissuto sempre ai margini ed in periferia, che si è impegnato da “manovale” nelle cose della Chiesa e che non ha quasi mai frequentato “i salotti” della cultura laica ed ecclesiale. Non credo proprio di essere espressione del dissenso e della fronda – perché non ho mai inseguito questo obiettivo ma spero di essere almeno la voce della “base”, dei poveri, di quelli che non contano e “tirano la carretta” da sempre. Questo mi basta per motivare l’uscita del volume.

Vi debbo ancora una nota per giustificare il titolo: “Tempi supplementari”.
Fra pochi giorni avrò 84 anni e se questa età non fosse sufficiente per considerarla una “aggiunta” alla vita normale, non saprei proprio quando considerare finiti i tempi regolamentari. Vivo questo tempo, che so breve, con il desiderio di “fare centro”, di non sprecare un solo minuto ed una sola occasione, perché vorrei tanto spendermi tutto, andarmene senza pesi ed ingombri, con assoluta libertà.

Se a qualcuno possono interessare le opinioni di un vecchio prete “libero ma fedele”, eccomi! Se trovate anche qualcosa di buono, sono qui ad offrirvelo di cuore.

don Armando Trevisiol

“Redenta”

La settimana scorsa ho sentito il bisogno di presentare ai miei amici una rivista mensile che porta a conoscenza dell’opinione pubblica la singolare esperienza di suor Elvira, una suora a cui andava troppo stretto il convento “vecchio stampo” e quindi ne uscì per dar vita ad un’esperienza religiosa semplicemente meravigliosa.

Questa suora, sulla sessantina, senza una qualifica specifica, si è buttata a capofitto nella stupenda avventura del recupero dei giovani che si sono abbrutiti ed hanno tentato di evadere da un serio confronto con la realtà della vita, lasciandosi risucchiare dal terribile gorgo della tossicodipendenza o dalle varie devianze che inghiottono una falda tanto larga di giovani di oggi.

Ho parlato del fascino delle foto che ritraggono tanti volti puliti e sorridenti, intenti al lavoro o alla preghiera; mai avrei potuto immaginare che nel loro passato erano come quei gruppuscoli di “rifiuti d’uomo” che purtroppo si incontrano in determinati luoghi della nostra città. Ho pure riferito delle stupende testimonianze di giovani che raccontano le storie della loro redenzione e che ogni mese sono pubblicate nella rivista “Redenzione”.

L’avventura umana di questa suora e le comunità a cui ella è riuscita a dar vita, hanno qualcosa di miracoloso, per nulla confrontabile ai magri risultati che i vari “Sert” (organizzazione statale per il recupero) riescono a fare, che sono anzi spesso fonte di disagio per i cittadini che abitano vicino ai luoghi dove essi si trovano.

Qualche giorno fa al “don Vecchi” mi è capitato di incontrare due “ragazze di suor Elvira” che erano venute ad acquistare dei vestiti per una rappresentazione che avevano deciso di fare nella loro comunità. Erano talmente pulite e belle che pensai subito che fossero due religiose del nuovo ordine fondato da questa suora prodigiosa, ma loro mi dissero che erano due “redente”.

Ho ancora negli occhi quei bei volti sorridenti e puliti. I vestiti non erano alla moda: due sottane piuttosto lunghe e ruvide, però i loro occhi erano belli e pieni di fascino come due perle preziose.

La formula pedagogica che suor Elvira attiva per rigenerare questi poveri ragazzi e ragazze, caduti tanto in basso, è semplicemente carità e preghiera.

Una volta ancora ho capito che la verginità non ha nulla a che fare col nostro corpo, è lo splendore dello spirito che sprigiona dolcezza, soavità, armonia e bellezza.

Mi è amaro il pensiero che troppe donne meravigliose si inaridiscano e si sciupino dentro conventi o in organizzazioni religiose che in realtà non credono alla vita e all’amore.