“Sei vecchio”

Recentemente ho incontrato per la prima volta il nuovo Patriarca, il quale ha voluto sapere da me “vita, morte e miracoli” del mio trascorso. L’ho accontentato senza difficoltà.

Nella mia vita o sono stato un prete fortunato o, come spero, sono stato io a costruire ogni volta la mia “fortuna”. Da parte mia sono convinto che sia giusta questa seconda ipotesi, perché da sempre credo che siamo noi a dare un volto e una storia all’ambiente ove viviamo.

Raccontai al Patriarca la mia vicenda di insegnante alle magistrali, di assistente all’Associazione Italiana Maestri Cattolici e di assistente degli scout (credo umilmente di essere stato un protagonista a livello cittadino dello sviluppo di questa associazione). Gli ho poi parlato delle mie vicende alla San Vincenzo con la mensa di Ca’ Letizia, il periodico e le mille iniziative. Gli ho riferito del ruolo diocesano e soprattutto parrocchiale nei riguardi della pastorale per gli anziani, con la nascita del “Ritrovo” ed il relativo periodico. Gli ho descritto ancora i miei trent’anni di vita da parroco e delle mie tante soddisfazioni, quali i cento chierichetti, i duecento scout, i gruppi sposi, il patronato, villa Flangini, la Galleria, il settimanale “Lettera aperta”, il mensile “Carpinetum”.

Infine gli ho parlato della bellissima avventura dei Centri don Vecchi e di quello che io chiamo, con un po’ di enfasi, il “polo solidale” del Centro don Vecchi, con i relativi magazzini di indumenti, di mobili, di generi alimentari e di frutta e verdura.

Il Patriarca mi ha ascoltato per circa un’ora senza quasi interloquire. Quando poi un anziano diacono, suo “aiutante di campo” l’ha avvisato che il tempo era scaduto, guardandomi negli occhi mi ha detto i miei due principali difetti. Primo: «Sei vecchio, ma per questo difetto non si può far nulla». (Del secondo parlerò un’altra volta).

Ho concluso che il Patriarca sarà solito ascoltare delle storie di preti con storie molto più belle delle mie e questo mi fa molto felice. Mi pare che sia stato Alcibiade – o un altro personaggio di quei tempi – che non essendo stato accettato nel gruppo dei 300 guerrieri più forti della sua città, abbia detto: «Sono orgoglioso che a Sparta vi siano 300 guerrieri migliori di me».

Io ho provato lo stesso sentimento di consolazione e spero di far tesoro del mio primo difetto accentuando la preparazione all’incontro finale col buon Dio e il distacco dalle cose di quaggiù e mi propongo quindi di non buttar via neppure un attimo del mio tempo e non perdere alcuna occasione per servire il mio prossimo e fare un po’ di bene.

Il costruttore benefico

Qualche giorno fa la direttrice della sede del Banco San Marco di Viale Garibaldi mi ha telefonato annunciandomi che un certo Ernesto Cecchinato aveva versato centomila euro a favore della Fondazione Carpinetum per la costruzione del “don Vecchi 5” per gli anziani in perdita di autonomia.

Di primo acchito non riuscii ad orizzontarmi, poi pensai alla telefonata di un responsabile dell’AVIS di Marghera che, qualche tempo prima, mi aveva chiesto le coordinate bancarie perché un novantenne di Bassano voleva fare un’offerta per il “don Vecchi”. Infine chiesi in banca l’indirizzo del generoso benefattore ed allora, pian piano, capii che si trattava di una cara e vecchia conoscenza: l’ingegner Ernesto Cecchinato.

Conobbi personalmente l’ingegner Cecchinato in un’occasione particolare che mi piace ricordare. Sapevo da sempre che questo professionista mestrino, assieme ad un certo “faccendiere” di Carpenedo, aveva bonificato le cave che soprattutto un altro paesano di Carpenedo, il signor Casarin, aveva scavato per cuocere i mattoni nella sua fornace. Nella periferia di Mestre, in quello che poi fu chiamato viale don Sturzo, si trovavano e si trovano tuttora degli strati di argilla con cui si facevano tegole e mattoni a mano in quantità. L’ingegner Cecchinato progettò e realizzò tutti quei fabbricati del viale che ora ha, ai bordi, due magnifici ed imponenti filari di pini marittimi.

Fu un’operazione terribilmente faticosa ed intricata, per la solita burocrazia comunale che anche attualmente mette i bastoni fra le ruote alla costruzione della Torre Cardin, ma che pure vent’anni fa non era meno ottusa ed ingombrante. Tali e tante furono le complicazioni e gli ostacoli, che questo ingegnere finì per prendersi un grave esaurimento nervoso da cui venne fuori dedicandosi alla pittura.

Otto o nove anni fa l’ingegner Cecchinato si presentò al “don Vecchi” chiedendomi se volevo accettare i suoi dipinti. Si trattava di 150 quadri ad olio, di buona fattura, già incorniciati. Li accettai di buon grado perché sono appassionato di pittura e perché mi dava modo di ornare l’immensa sala dei 300 ove ogni settimana celebro messa per i residenti. In quella occasione l’ingegnere mi regalò pure cinque milioni.

Ora questi paesaggi, come murrine ricche di colore, mi sorridono ogni volta che dico messa. Da sempre questi quadri mi ricordavano il volto buono e caro del concittadino costruttore. Ora quel ricordo si ravviva e si impreziosisce per il rinnovato gesto di fiducia e di solidarietà.

Al “don Vecchi” una targa di bronzo ricorderà per i secoli il munifico benefattore.

Anime morte

Non passa giorno che soprattutto qualche donna dell’est, moldava, rumena o ucraina, non venga al “don Vecchi” per chiedere di poter trovare un lavoro.

Una decina di anni fa, quando “inventammo” il “Senior Service” del don Vecchi, queste lavoratrici dell’emigrazione accettavano tutto. Non conoscevano quasi l’italiano, comunque tutte si presentavano dicendosi disponibili per le 24 ore, ossia per un’assistenza giorno e notte, tutti i giorni della settimana, per 600, 700 euro al mese. Le mettevamo a contatto con la coda di richiedenti e queste giovani donne si “seppellivano” anche in piccoli e poveri alloggi, condividendo con vecchi affetti dall’Alzheimer o dal Parkinson, la triste vita, lontane dalle loro famiglie.

Poi, pian piano, presero coscienza dei loro diritti e cominciarono a chiedere un giorno di libertà, due ore di riposo al giorno, un mese di ferie pagate, per rientrare nei loro Paesi lontani, la regolarizzazione sindacale, una stanza per conto proprio o qualche altra cosetta ancora, valutando il peso dell’assistito, e il tipo di malattia. Però la coda di richiedenti si è prima assottigliata e poi è scomparsa. La crisi raggiunse anche i ceti medi che un tempo potevano permettersi la badante.

Oggi le badanti mi appaiono come “anime morte” che vagano in città in cerca di un alloggio, di un lavoro, tra l’indifferenza e il sospetto di un popolo non ancora pronto ad accogliere il diverso e a condividere il dramma che ha colpito l’Europa e il mondo.

La crisi è per tutti, ma per il popolo delle badanti è doppia, forse tripla.
Qualche giorno fa una giovane donna moldava mi supplicava di indicarle un lavoro perché, per mangiare, si arrangiava in qualche modo andando dai frati o alla San Vincenzo, ma per dormire non c’era porta che si aprisse ed anche per una stanza condivisa con altre due o tre coinquiline le domandavano al minimo duecento euro.

Le ho chiesto il numero di cellulare, pur sapendo che non la chiamerò mai, perché da settimane e settimane si accumulano sulla mia scrivania numeri di cellulari con nomi di donne ed uomini stranieri, e pure italiani, che stanno cercando con angoscia un posto di lavoro a qualsiasi titolo e con qualsiasi remunerazione, però il cumulo di richieste continua a crescere piuttosto che a diminuire.

Mi duole il cuore pensando a questa donna che, come tante altre, continua a cercare invano nel freddo e nell’indifferenza, un lavoro, mentre nella mia Chiesa si continua a pensare quasi esclusivamente agli angeli del cielo!

Un seme scout

Una delle cose più accettabili ed anche più belle a cui il popolo italiano ha potuto assistere in quest’ultimo tempo, è stata certamente la competizione tra Bersani e Renzi per le primarie, per chi, del popolo del centrosinistra, dovrà proporsi come leader alle prossime elezioni.

C’è un detto popolare, saggio come sempre, che afferma che “in un popolo di ciechi un monocolo è re”. Così è avvenuto anche per i politici italiani. A questo mondo bisogna sempre accontentarsi!

Tra lo squallore del tira e molla del centrodestra e gli interminabili conati del centro, quello che ci ha offerto il PD è già una piccola consolazione.

Io ho assistito a due dibattiti e, pur facendo il tifo per Renzi, giovane frizzante e quanto mai radicale, ho pure ammirato la pacatezza, l’equilibrio, la misura e il mestiere di Bersani. Da un lato mi pare che sia emersa la poca esperienza di Renzi e dall’altro lato mi è parso che Bersani abbia avuto atteggiamenti pacati e rassicuranti. Mi preoccupano però i “cattivi compagni” Vendola e D’Alema, che questo segretario del PD frequenta ancora, e il tipo di educazione ricevuta fin dall’infanzia a Botteghe oscure.

Io avevo deciso di votare scheda bianca, per unirmi al coro di chi vuole, una volta ancora, bollare i politici parolai, inconcludenti, interessati e corrotti. Il “duello” televisivo mi ha per ora salvato da questo suicidio elettorale e per ora sto alla finestra sperando che in questi ultimi mesi qualcosa accada, perché nel mio cuore si è rinforzata una speranza.

Leggendo la biografia politica di Renzi mi ha fatto piacere leggere che il giovane e “garibaldino” sindaco di Firenze ha messo in capo alla sua dottrina questo messaggio sociale: “Considero mio onore meritare fiducia”. Questo è il primo articolo della “legge scout” che certamente egli ha appreso nella sua adolescenza.

Mi è venuto da pensare: “Vuoi vdere che le centinaia di migliaia di ragazzi che sono passati per i nostri patronati, che hanno militato tra gli scout e l’Azione Cattolica, ai quali abbiamo insegnato l’onestà, la rettitudine, il coraggio e la generosità, abbiano ad approdare alla politica e portare una ventata di giovinezza umana?”

Il Papa da tanto tempo, come soluzione ai mali che fino a ieri sembravano inguaribili, si è augurato l’entrata in politica dei giovani. Spero che Renzi sia “il primo fiore di primavera” o “la prima stella del nuovo giorno”, della politica italiana.

L’EX

Il criterio con cui accettiamo le richieste di entrare al “don Vecchi” è pressoché unico: il bisogno economico o esistenziale.

Abbiamo creato una griglia di valutazione, però essa si rifà fondamentalmente al criterio suddetto. In questa griglia sono assolutamente assenti altre indicazioni, quali militanza politica, pratica religiosa, irregolarità nei rapporti famigliari, storia del passato o i motivi per cui il richiedente è costretto a chiedere aiuto al nostro ente, il quale però non nasconde mai la sua matrice religiosa. L’accoglienza si rifà all’immagine evangelica della “rete buttata in mare e che raccoglie ogni sorta di pesci”. Da noi non c’è cernita alcuna.

Da questa scelta lucida e meditata abbiamo raccolto e stiamo raccogliendo ogni specie di uomo. Per fare qualche confidenza, meno di metà dei residenti viene regolarmente a messa, pur avendo “la chiesa in casa”. Alcuni – pochi ma ci sono – hanno rifiutato il sacerdote che chiedeva di dare la benedizione, alcuni vivono al Centro come fosse un albergo, vanno e vengono, talora degnandosi solamente di un accenno di saluto. Altri si occupano solo dei nipoti, ossia dei figli di quei loro figli che li hanno messi alla porta. Altri ancora non nascondono una certa avversione per il clero e per i suoi “derivati”. Altri sono prontissimi ad approfittare di ogni occasione vantaggiosa, mentre non sono disposti a muovere neppure un dito per la comunità che li ospita. E potrei continuare.

Questo è il volto negativo della medaglia, però c’è anche quello bello, anzi semplicemente meraviglioso. Credo che credere alla carità esiga pagare questo prezzo. Ci siamo proposti di rispettare le opinioni e i comportamenti di coloro che sono i più lontani dalle nostre convinzioni, perché crediamo anzitutto al valore della nostra testimonianza.

Fortunatamente ogni tanto arriva qualche riscontro che aiuta la nostra “fede”. Qualche settimana fa mi è giunto un foglio di una sessantottina radicale che militava in “Lotta continua” e che si dice di estrema sinistra: “Son venuta al don Vecchi perché costretta dal bisogno. Qui però ho incontrato un ambiente `laico’ che mi fa sentire a mio agio. Questa è la `mia casa’ e sono felice di spendermi tutta perché tutti possano vivere con serenità e fraternamente. Ringrazio Lei, don Armando, e il buon Dio perché mi fa sentire ancora viva”.

Al “don Vecchi” si paga poco, l’ambiente è signorile e ricco di cose belle, ma l’aspetto descritto da questa residente è forse una delle componenti più preziose ed esclusive di questa struttura pilota per anziani in difficoltà. Di ciò, confesso, provo orgoglio.

Più monologhi che dialogo

Un mio caro e nuovo amico che si è offerto di darmi una mano come “ministrante” durante i riti che celebro nella mia “cattedrale fra i cipressi”, si intrattiene spesso con me in discorsi che riguardano i problemi religiosi e la vita della Chiesa sul nostro territorio. Questo signore è sensibile a questi problemi, avendo appena concluso il percorso di ricerca religiosa EVO, promosso sulla falsariga degli esercizi spirituali di Sant’Ignazio proposti dai padri gesuiti. Inoltre, essendo un suo figlio, giovane avvocato, entrato da poco in seminario, durante l’attesa delle celebrazioni liturgiche, parla volentieri con me anche di ciò che avviene nel nostro piccolo mondo della diocesi.

Man mano che egli si addentra in questa realtà, per lui nuova in quanto nel passato – pur essendo un cattolico osservante – visse una vita intensa da imprenditore, gli piace riferirmi le sue nuove esperienze ecclesiali. Io gradisco quanto mai questo rapporto perché mi dà modo di confrontarmi su discorsi e problemi di carattere religioso sui quali, purtroppo, data la vita che faccio, a me capita quasi sempre di relazionarmi solamente a senso unico. Lo faccio, di solito, attraverso la lettura dei periodici di ispirazione religiosa, ma quasi mai mi capita di parlare con i colleghi e con i cristiani comuni che pare siano molto indifferenti a questi problemi. Dall’altro lato le informazioni minute e specifiche di quest’uomo sulle iniziative diocesane mi aiutano ad essere più idealmente partecipe alla vita della mia Chiesa locale.

Spesso mi sono domandato come mai nella nostra Chiesa il confronto e il dialogo di carattere religioso e spirituale sia così scarso, poco vivace ed appassionato tra i cristiani del nostro tempo. Ho la sensazione che da un lato la gerarchia ecclesiastica si sia quasi arrogata l’esclusiva di trattare questi problemi e, dall’altra parte, i cristiani comuni abbiano passivamente delegato il loro compito di partecipazione e di contributo.

Credo che sia giusto e doveroso premere perché la Chiesa di oggi diventi sempre più la “nostra Chiesa”, non solo nella dimensione di appartenenza, come avviene ora, ma anche nel senso che la Chiesa deve avvalersi dell’apporto di tutti e sia quasi la risultante di questo apporto, perché è assurda una Chiesa in cui ci sia il predominio assoluto di pensiero e di scelta da parte di qualcuno o di qualche ceto ecclesiale.

Parlare di “Chiesa di popolo” comporta il coinvolgimento attivo e lo stimolo perché ogni cristiano, anche il più umile, diventi partecipe, anzi protagonista, del pensiero e delle scelte del Popolo di Dio.

Ripetitività nei sermoni

Ci sono nel calendario della Chiesa delle feste che ricorrono puntualmente ogni anno. Queste celebrazioni ripetitive mi mettono in crisi fin da sempre perché un anno fa presto a passare ed io mi ritrovo a dover fare la predica sullo stesso argomento che ho fatto per ben 56 volte – tanti sono gli anni che faccio il prete! Il disagio poi aumenta perché io ricordo bene quanto ho detto l’anno o gli anni precedenti sullo stesso argomento ed ho quindi il timore che anche i miei fedeli abbiano buona memoria e possano dire: «Che ripetitivo è questo vecchio prete, che fa ogni anno la stessa predica!».

Fortunatamente il mio vecchio parroco, monsignor Aldo Da Villa, che era un predicatore di prim’ordine, un anno in cui gli confidavo questo mio tormentone, mi rassicurò dicendomi di non preoccuparmi perché, anche dovendo parlare dello stesso argomento, c’è ogni volta un’altra atmosfera e soprattutto cuore e mente suggeriscono qualcosa di diverso e di più vivo,.

Aveva ragione! Io da sempre, quando mi preparo il sermone, mi faccio degli appunti che un tempo conservavo, tanto da averne raccolto mezzo cassone. Quando però talvolta, trovandomi alle strette, andavo a ripescare le vecchie prediche, avvertivo che erano come le vecchie foglie gialle che cadono in autunno: smorte, fredde, superate. E perciò sempre sono stato e sono costretto a mettermi la testa fra le mani a pensare e pregare che il buon Dio mi illumini per trovare pensieri che mi facciano bene.

Quest’anno però, per la Madonna della Salute, ho pensato qualcosa che mi ha convinto e penso abbia convinto anche i fedeli che hanno partecipato alla celebrazione. Eccovi lo schema, se il prossimo anno vorrete verificare se sarà lo stesso:

  1. La salute è un dono esclusivo di Dio, nessuno ha titoli per chiederne tanta e per tanto tempo; tutto quello che ci è donato è assolutamente un dono.
  2. Iddio ci dà questo dono perché lo godiamo; non possiamo essere gli eterni brontoloni che smaniano anche per deficienze marginali.
  3. La salute ci è data perché non la sprechiamo e la usiamo per il bene degli altri.
  4. Possiamo chiedere il dono solamente quando osserviamo le regole di vita che Dio ci ha dato.
  5. Un tempo il Signore intervenne direttamente, mentre ora lo fa tramite la sanità, che diventa così la mano provvida di Dio.
  6. La salute vera è quella che non si riduce al benessere fisico e psichico, ma comprende anche l’aspetto spirituale.

Questa meditazione mi ha fatto bene. Spero che così sia avvenuto anche per i fedeli che hanno pregato con me la Vergine Santa.

Delocalizzazione

Non passa giorno che la stampa e la televisione non ci informino che aziende e fabbriche, anche del nostro Veneto, benché abbiano commissioni sufficienti e attrezzature moderne, decidono di spostarsi in Polonia, in Romania o anche nella vicina Serbia, licenziando decine e centinaia di nostri operai. Noi, qui a Marghera e nel vicino interland, assistiamo impotenti, tanto frequentemente, ai drammi che sono determinati da queste scelte. Perdere il lavoro oggi corrisponde alla morte civile!

Io sono un povero gramo, digiuno in modo assoluto di economia e perciò, con tanto di professoroni in materia che abbiamo al governo, di politici che sanno tutto e di sindacalisti che pare abbiano una risposta per ogni problema occupazionale, dovrei starmene zitto. Però sento il dovere di dire il mio pensiero anche se sono sicuro che è controcorrente e che qualcuno lo giudicherà retrivo e conservatore.

Ho letto di un operaio della Fiat che guadagna 1500 euro al mese, pochi in verità per il costo attuale della vita. E’ stato mandato in Polonia ove la Fiat produce gli stessi modelli d’auto di Torino. Quando questo operaio della Fiom si meravigliò quanto mai che i suoi compagni polacchi guadagnassero solamente 400 euro, essi gli risposero che loro accettavano quella paga perché in Romania altri colleghi, sempre della Fiat, guadagnano solamente 200 euro mensili.

E’ evidente che l’automobile prodotta in Polonia costerà di meno di quella prodotta a Torino e quella della Romania ancor di meno. Mi hanno riferito che l’India produce automobili a 2000 euro soltanto, perché forse gli operai guadagneranno 100 euro al mese. In un mercato globale è evidente che si venderanno le automobili che costano di meno. Io stesso ho tentato di vedere come acquistarne una dall’India.

La soluzione di questo tragico dramma che colpisce l’Italia, credo sia soltanto quello di abbassare il tenore di vita, di abolire gli sprechi, di vivere più sobriamente, di lavorare di più. Ma finché continueremo come adesso, temo che andremo sempre peggio.

Durante il mese di ottobre ho notato che tutte le donne, dico tutte le nostre care donne, adolescenti, giovani, spose e signore attempate, si sono adeguate alla nuova moda: stivaletti, calzemaglie e gonnellino. Mi domando: “E gli indumenti comperati lo scorso ottobre, dove sono andati?”. Spero che almeno ci giungano ai magazzini San Martino, ove si riforniscono gli extracomunitari che sono un po’ in ritardo con la moda! Dicasi la stessa cosa per il mondo dei telefonini.

Sono stufo di sentire le “lettere pastorali” dei politici, dei sindacati e degli economisti. L’unica ricetta è la sobrietà. Se non facciamo così continueremo a depredare e sfruttare i cittadini del terzo, quarto mondo!

Le scarpe del Papa

Ho confessato più volte che io sono un uomo passionale e mi lascio coinvolgere in maniera viscerale dai drammi in cui mi imbatto. Confesso pure che quando leggo testimonianze di uomini del nostro tempo, sento il bisogno profondo – specie quando queste persone sono di notevole spessore umano – di indagare sul loro rapporto con la fede e con la Chiesa.

Oggi ritorno ancora sul discorso che ieri ho appena abbozzato, circa la morte tragica del giovane Vittorio Arrigoni, volontario nella striscia di Gaza. Sua madre, autrice di questa particolare biografia e che si dichiara cattolica praticante, parla dell’infanzia di questo suo figliolo che da bambino aveva fatto il chierichetto e che da adolescente s’era allontanato dalla pratica religiosa anche se lei rimane convinta che, a modo suo, fosse ancora credente.

Dagli scritti di Vittorio a me pare, almeno a livello formale, che non sia così, anche se l’amore materno interpreta certi accenni religiosi come una prova di questa fede sopravvissuta alle scelte e alle tristi esperienze fatte da suo figlio. Comunque sono personalmente convinto che persone come Arrigoni che sognano “il Regno di giustizia e di pace”, abbiano comunque un accesso più facile al Cielo che i fedeli alle messe e ai rosari che però non si sporcano mai le mani per la causa dei poveri, dei derelitti e degli oppressi.

Mi ha colpito una frase, quasi buttata giù per caso: la signora Beretta Arrigoni scrive che il figlio, avendo trovato su un giornale la foto del Papa che indossava scarpette rosse di Prada, la pubblicò accanto ad una immagine di Gesù in croce con i piedi trafitti e quella di un africano a piedi nudi, con la didascalia “Se solo con queste calzature è lecito intraprendere le vie del Signore, quanto sarà improbabile per gli scalzi miseri dell’Africa avere accesso al Paradiso?”

Quello delle scarpe del Papa è certamente un particolare di poco conto, però mi vien da osservare che chi abbraccia il Vangelo deve essere attento anche ai particolari, perché se questi sono divergenti dallo stesso, diventano “scandalo” per chi sogna un mondo veramente nuovo.

A questo riguardo dovrei aprire un discorso serio per una revisione di fondo su tradizioni, pratiche, riti, indumenti, dimore, parole e scelte che sono in manifesta dissonanza con il “manifesto” di Gesù.

La morte di un sognatore a senso unico

Una cara signora che stimo e a cui voglio veramente bene, mi ha regalato il volume “Il viaggio di Vittorio” raccomandandomi di leggerlo presto, anzi meglio subito!

Il volume è stato scritto dalla mamma di un volontario di un piccolo paese della Lombardia che è stato rapito a Gaza e quindi ucciso da non so chi.

Qualche tempo fa avevo letto o sentito alla televisione di questa uccisione avvenuta nella striscia di Gaza, ma non ricordo assolutamente più chi siano stati gli esecutori di questo delitto. Il libro, non ne fa cenno. Comunque la madre di Vittorio – così si chiama il protagonista – sindaco eletto dal P.D. di un paese del bresciano, ricucendo soprattutto le lettere del figlio, parla con amore e condivisione totale delle scelte del figlio il quale, seguendo la splendida utopia della libertà, della democrazia e di quant’altro c’è di nobile, partecipò a varie missioni tramite delle organizzazioni umanitarie nei Paesi più tormentati del mondo più povero e oppresso.

Vittorio perse la sua giovane vita in Palestina, nella striscia di Gaza, avendo egli abbracciato fino in fondo la causa dei palestinesi e dando un giudizio estremamente negativo sugli israeliani.

La tragica vicenda di questo giovane è scritta dalla madre più col suo cuore materno che con la lucida ragione di chi cerca di essere comunque obiettivo.

Confesso che pur ammirando questo giovane generoso, non riesco ad accettare tutte le tesi che l’hanno animato. La signora che mi ha donato il volume è una donna di forte fede comunista che ha vissuto in maniera viscerale il manifesto di questo movimento e credo che viva con una profonda delusione ed amarezza il fallimento di questo sogno che si è miseramente infranto. Immagino che mi abbia donato il volume per mostrarmi l’altra faccia della medaglia della tragedia dei palestinesi e di Gaza in particolare, soprattutto avendo io espresso talvolta la mia simpatia per il popolo ebraico che, tutto sommato, ritengo coraggioso e soprattutto un popolo che lotta disperatamente per poter sopravvivere nonostante sia circondato da Paesi islamici, nemici acerrimi e spietati che apertamente ne vogliono l’annientamento.

Come io posso schierarmi contro gli ebrei avendo letto tutto di Primo Levi? Condivido il sogno di questo ragazzo, che ha seguito un’utopia nobile, condivido pure l’amore di sua madre e la tristezza della mia amica per aver dovuto assistere al fallimento di un sogno condivisibile, però io continuo a sognare e pregare perché questi due popoli vivano in pace nella terra nella quale Gesù ha offerto il messaggio più alto e più risolutivo dei problemi umani.

La terza fase della mia vita

Sono nato nel ’29 e sono diventato prete nel ’54.

La prima fase della mia vita fu quella della preparazione alla missione umana e sacerdotale. La seconda fase, dal 1954 al 2005, fu il tempo “cuore” della mia esistenza, durante il quale mi sono impegnato per farmi testimone e portavoce di Cristo Gesù. Il 2 ottobre di sette anni fa è iniziata la terza fase della mia vita. Iniziò con la pensione, nel 2005, un tempo che non avevo programmato, motivo per cui mi sono trovato totalmente spiazzato, quasi mi fosse venuta meno la terra sotto i piedi, tanto che arrischiai un esaurimento nervoso.

Inizialmente, annaspando, mi cercai un lavoro “in nero”. Poi, celebrando da quarant’anni in cimitero, mi orientai verso la pastorale del lutto. Nacque con fatica un gruppo di mutuo aiuto per l’elaborazione del lutto, che poi passai all’Avapo.

Per anni celebrai la messa a San Rocco per i genitori che han perduto un figlio in giovane età. Poi sono riuscito ad avere una nuova chiesa di 250 posti in cimitero e soprattutto una comunità che la gremisce ogni domenica. Ho collaborato alla stesura di un volume, “L’albero della vita”, di cui ho curato l’aspetto religioso di “nostra sora morte corporale”, come san Francesco chiamò il lutto, volume diffuso in più di 20.000 copie e che “tira” ancora.

Mi sono offerto di celebrare la messa festiva in due frazioni lontane dalle relative parrocchie, però i parroci declinarono la mia offerta per motivi che sono rimasti sconosciuti. Mi sono offerto, a titolo gratuito di celebrare in una chiesa vicina, guidata da un parroco che non ha cappellani, ma dopo sei mesi sono stato licenziato in tronco, con preavviso di alcune ore.

Ho fondato il settimanale “L’incontro” che esce regolarmente, senza pausa alcuna, in 5000 copie, risultando così il periodico di natura religiosa più letto in assoluto a Mestre.

Nel frattempo ho collaborato alla nascita del Centro don Vecchi di Marghera per il cui finanziamento avevo già provveduto per intero. Ho acquistato il terreno per il Centro di Campalto e collaborato alla sua realizzazione.

Ho dato vita, con la redazione degli amici de “L’incontro”, al mensile “Il sole sul nuovo giorno” e pubblicato una decina di volumi.

Ultimamente mi sono offerto di celebrare una messa settimanale a Carpenedo ed una mensile a Ca’ Solaro.

Sono grato al Signore che ha benedetto ed ha reso interessante la terza ed ultima fase della mia lunga vita e soprattutto mi ha aiutato finora a mettere in pratica il proposito “voglio che la morte mi incontri vivo” e ad impegnare bene “i tempi supplementari”.

Sono con la Severino

Una volta ancora ribadisco che ammiro quanto mai la Severino, ministro di grazia e giustizia del governo tecnico. L’ammiro talmente da temere di finire per innamorarmi di questa cara donna che ragiona col cuore e con la testa tra tanti parlamentari balordi e senza senno.

Una volta ancora ella ha ribadito anche in questi ultimi tempi che è opportuno adottare soluzioni alternative al carcere, perché da un lato le sfoltirebbero da un sovraffollamento crudele ed incivile, e dall’altro recupererebbero ad una vita ordinata e civile tanti condannati che nelle patrie galere sono praticamente costretti ad iscriversi alla “Università del malaffare” perché le carceri italiane sono tali, benché si dica che hanno il compito di rieducare i detenuti.

C’è un solo punto su cui dissento, osservando che da tanto tempo annuncia provvedimenti del genere, ma poi finisce per rimandarli a motivo degli ostacoli che incontra da parte dei parlamentari che avrebbero, loro, più di un motivo per essere messi dentro. Sarei più contento se dicesse a tutti, bianchi, rossi o verdi: «O mi autorizzate a far così, altrimenti ritorno al mio mestiere!».

Qualche tempo fa raccontai agli amici che incontrai “un galeotto” che aveva scontato la sua pena e s’era fortunatamente trovato un lavoro dignitoso e forse, vivendo da mane a sera tra le tombe, aveva compreso il vero senso del vivere: in una parola s’era redento. Sennonché lo Stato aveva scoperto che gli mancavano ancora da scontare venti giorni di galera e non ci sono stati santi a evitarglieli: “la giustizia deve fare il suo corso”, come affermano i forcaioli Di Pietro e Bossi! E’ andato in carcere, lo Stato ha speso almeno cinquemila euro per mantenerlo ed è uscito, fortunatamente, senza rancore.

Ora, nel tempo libero dal lavoro, fa il volontario al “don Vecchi”. Termina all’una, mangia un panino in piedi e poi porta carrelli di vestiti da un magazzino all’altro del “don Vecchi”.

Qualche giorno fa l’incontrai durante il tempo del suo doppio lavoro, mi sorrise con tenerezza ed affetto, quasi a dirmi “non sono quel mostro che la giustizia mi reputa”. Allontanandomi pensai che più di un secolo fa Victor Hugo aveva insegnato questo ne “I miserabili”. La nostra società, purtroppo, rimane sempre più ottusa ed incapace di credere nell’uomo.

Vecchi contestatori con le unghie spuntate

Qualche tempo fa un residente al “don Vecchi” di Campalto mi ha informato che un gruppetto di anziane signore aveva deciso di bloccare il traffico della strada statale via Orlanda con un sit-in, per chiedere al Comune e all’Anas il permesso di mettere in sicurezza l’ingresso del Centro che attualmente risulta estremamente pericoloso.

Una notizia del genere mi ha evidentemente sorpreso, sapendo che l’età media dei residenti al Centro si aggira sugli ottant’anni. A me, che ho una fantasia quanto mai vivace, l’immagine di un gruppetto di signore col cappellino in testa sedute sull’asfalto, imperturbabili nonostante il suonare dei clacson delle migliaia di auto e furgoni che transitano velocissimi per via Orlanda, faceva immaginare la sequenza di un film alla Mary Poppins. Sapendo però che vivono al Centro almeno tre, quattro sessantenni, quanto mai esperte in queste cose, ero propenso a pensare che la cosa era più vicina alla realtà che alla favola.

All’annuncio dell’informatore seguì la telefonata di una delle protagoniste – una vecchia conoscenza dei tempi di San Lorenzo che aveva militato lungamente in “lotta continua” – che chiedeva il mio parere. Il mio parere non poteva che essere positivo, “a mali estremi estremi rimedi” pensai. Da un anno non abbiamo fatto che produrre carte su carte presso il Comune e presso l’Anas, senza riuscire a cavarci “un ragno dal buco”. Che cosa avrei potuto ancora fare perché gli ottanta anziani potessero uscire ed entrare senza arrischiare la vita ogniqualvolta hanno bisogno di comperarsi il pane o badare ai nipotini perché i figli lavorano?

La cosa si risolse per fortuna in maniera più prosaica. Un certo perbenismo borghese da un lato sconsigliò un’ azione così eclatante che poteva essere paragonata agli interventi dei Black Bloc e dall’altra l’Anas, dopo un anno e un mese ha dato il sospirato OK, a patto che siamo noi “ricchi” ad assumerci tutte le spese spettanti ai “poveri” Anas e Comune.

Ora ho capito fino in fondo che cosa significhi “Vittoria di Pirro”.

“Voglio vedere con occhi di fratello”

Da molti anni sto tentando di mettere in pratica un proposito che ho fatto fin dai primi anni del mio sacerdozio: “voglio vedere con occhi di fratello ogni uomo e ogni donna che incontro sulla mia strada”.

Confesso che sono purtroppo ben lontano dall’essere riuscito e che spesso sarei tentato di desistere da questo proposito constatando i miei frequenti fallimenti. Ora però che per il mio ministero residuo incontro nella mia chiesa quasi più fedeli morti di quelli vivi e che arrivano da ogni dove, mi riesce ancora più difficile stabilire un rapporto umano di questo genere per poterli salutare per l’ultima volta con cuore di fratello. Spesso non conosco che il nome e l’età, talvolta non c’è neppure l’epigrafe a farmi conoscere il loro volto e tal’altra c’è una foto che li ritrae a venti, trent’anni di meno.

Confesso tuttavia che mi impegno perché il commiato non si riduca ad un rito freddo e formale e sempre tento di lasciarmi coinvolgere dal mistero della vita, della morte e del dolore per il defunto che accompagno alta Casa del Padre. Qualche volta mi capita di salutare e pregare anche per persone care e conoscenti ed allora le parole di saluto diventano più calde e toccanti e la preghiera più viva e sentita.

Qualche tempo fa ho celebrato il commiato di uno dei miei ragazzini di San Lorenzo, uno scout che, diventato medico, mi ha salvato la vita diagnosticandomi un tumore incipiente. Egli è stato un caro e bravo professionista che ha dato una bella testimonianza di altruismo sia in famiglia che nel lavoro e ha dimostrato coraggio nell’affrontare una via crucis quanto mai dolorosa e grande fede, nonostante tante prove difficili ed amare.

Questo tipo di esperienza mi ha sempre dato il dono di umanizzare la mia celebrazione religiosa e di aiutarmi ad uscire da certi automatismi psicologici a causa dei quali il rito arrischia di ridursi a qualcosa di formale e poco coinvolgente da un punto di vista esistenziale. Allora avverto che pure i fedeli sentono quando l’esperienza del commiato è veramente coinvolgente, cristiana e capace di arricchire lo spirito.

“Nessuno è profeta in patria”

Qualche settimana fa è venuta al “don Vecchi” una delegazione della Caritas diocesana di Trieste per prendere visione dell’impostazione del polo caritativo che in questi ultimi anni s’è sviluppato attorno al nostro Centro.

E’ normale che la notizia di certe iniziative di solidarietà si diffonda, portata sull’onda dell’etere o della carta stampata e ci sia chi voglia verificare sul campo la consistenza, le modalità ed i traguardi raggiunti. Chi ha a cuore certi problemi sta con le orecchie sempre tese e lo sguardo aperto per sentire e vedere ciò che avviene fuori dal suo piccolo mondo.

Anche a me capita spesso di apprendere dalla stampa ciò che sì sta facendo altrove e talvolta mi lascio andare a sentimenti di invidia nell’apprendere iniziative più o meno originali, ma sempre utili per chi è in difficoltà e spesso mi angustio per non essere capace di coinvolgere colleghi e comunità cristiane in questo sforzo di affrontare sempre nuovi servizi per tentare di dare dette risposte adeguate alle vecchie e nuove povertà.

Confesso poi che provo una certa amarezza nel constatare come il mondo cattolico della Chiesa veneziana sembri spesso indifferente ai tentativi, i progetti e soprattutto alle realizzazioni di solidarietà che sono nate attorno al “don Vecchi”.

Credo che siano pochi a Mestre che non sappiano dell’esistenza di questa iniziativa a favore degli anziani poveri, della quale s’è perfino interessata una rete televisiva del Giappone, mentre è un numero assai esiguo quello dei concittadini che hanno sentito il dovere di mettere il naso dentro at “don Vecchi” e ancor meno i preti, i responsabili delle parrocchie e degli organismi caritativi ufficiali detta diocesi che abbiano preso visione e si siano confrontati e che abbiano tentato di mettersi in rete per una indispensabile sinergia se si vuole contrastare il bisogno e dar corpo alla carità concreta.

Ho visto con piacere questa gente che, come la regina di Saba, viene da lontano per vedere. Altrettanto mi spiace che i concittadini e i fratelli di fede vi rimangano indifferenti. Quando mi prende questa malinconia mi consolo con la parola di Gesù: “Nessuno è profeta in patria” e tiro avanti in solitudine.