La “veste nuziale”

Nel mese dì novembre due delle principali associazioni di volontariato che operano al “don Vecchi” e che hanno fatto di questo Centro uno dei poli più significativi e consistenti della solidarietà nel Triveneto, hanno giustamente ritenuto opportuno invitare ad un incontro conviviale i relativi associati.

Papa Giovanni, quando era Patriarca a Venezia, affermava di sovente che il modo migliore per intendersi e risolvere incomprensioni e diffidenze, era quello di “mettere le gambe sotto la tavola”; il mangiare assieme facilita l’intesa e la comprensione.

Al “don Vecchi” lavorano circa 250 volontari nei vari comparti e il relativo reclutamento non avviene mediante un esame preliminare con lo psicologo o il sociologo dell’ufficio personale, ma le porte dello “stabilimento” sono aperte a tutti: a persone che maturano la scelta seria di donare un po’ del proprio tempo, della propria esperienza professionale al prossimo, ma sono egualmente aperte a chi cerca di passare il tempo in compagnia di qualcuno, a chi è esaurito, a chi è mandato dai servizi sociali del Comune o del tribunale per un reinserimento nella vita sociale, a chi non sarebbe mai assunto in nessuna azienda per un deficit mentale e perfino a chi spera di portare a casa qualcosa.

La mia gente consiste in una specie di esercito di Brancaleone talvolta irrequieto, individualista, che convive con anime elette che sanno accettare anche i “figli prodighi”. Mi pare ogni giorno dì più che esso possa continuare a stare in piedi e a produrre carità, forse non di prima qualità, ma pur preziosa e necessaria.

Mentre qualche tempo fa ho partecipato ad uno di questi incontri conviviali, mi sono sentito dentro, fino in fondo, alla parabola degli invitati a nozze.

Quando gli invitati ragguardevoli che, per un motivo o per un altro, declinavano l’invito con pretesti vari, concludendo “Abbimi per iscusato”, il re che voleva gente alle nozze del figlio, disse ai servi: «Andate per le strade ed invitate ciechi, zoppi e sciancati perché ci sia festa».

Io non ho mai pensato di realizzare la parabola evangelica, però fortunatamente, senza pensarci, mi ci sono trovato felicemente dentro. La vita non è facile neanche da noi, perché alcuni neppure sanno della “veste nuziale”, pero spero tanto che, magari ognuno a modo suo, lo impari, prima o poi.

“Agenzie di servizi religiosi”

Ogni organizzazione sociale finisce per adottare un suo gergo, il quale quasi sempre rimane pressoché incomprensibile a chi non è del mestiere.

Un paio di anni fa un impiegato di banca mi parlò dei “prodotti” che erano in offerta presso il suo istituto bancario.

Rimasi di stucco perché non avrei mai pensato che la banca producesse qualcosa di specifico; semmai sapevo che le banche offrono poco interesse quando tu le affidi del denaro e molto quando glielo chiedi in prestito.

Così capita per l’ambiente ecclesiastico: da qualche tempo va di moda e si va affermando tra i “preti progressisti” che la parrocchia e la Chiesa non possono ridursi a diventare delle “agenzie di servizi religiosi”. Io condivido questa affermazione per quello che afferma, ma ho il terribile sospetto che essa sia il solito paravento per nascondere pigrizia, mancanza di generosità ed assenza di spirito di servizio.

Quando qualcuno mi chiede il funerale per un povero vecchio ultranovantenne e a me sconosciuto, che ha passato dieci anni in casa di ricovero o con una badante moldava, oppure mi si domanda la benedizione delle ceneri o della salma prima della chiusura della bara, lo faccio volentieri e senza farmi pregare. Può darsi che questi gesti religiosi appartengano ad una categoria di “fede povera”, comunque li ritengo uno di quei “santi segni” che il teologo Romano Guardini riteneva, si umili, ma importanti per alimentare la fede.

Così per anni, imperturbabile, ho benedetto tutti gli anni le case della parrocchia, nonostante ì “colleghi” mi compatissero perché sorridevano di fronte ad un prete che ‘”bagnava d’acqua i muri”.

Ho letto qualche tempo fa un bel pezzo sul “recupero” delle parole e dei gesti più consueti e più umili delta vita, quali il saluto, il sorriso, il grazie, la stretta di mano. Di certo non mi sento di affermare che il processo di secolarizzazione, dell’abbandono della pratica religiosa, dipendano dal rifiuto di questi sacri segni, ma penso che esso sia di certo una concausa.

L’amore non consiste di certo in un bacio, in una carezza o in una parola gentile, però ritengo che non ci sia amore senza questi segni di affetto. La fede è di certo qualcosa. di alto e di sublime, però è ben difficile che resista senza questi piccoli gesti della religione. Anche il più umile, se fatto con partecipazione vera, alimenta sia l’amore che la fede.

Non c’è rosa senza spine

Spessissimo ho parlato con entusiasmo dell’esperienza del Centro don Vecchi come un’esperienza innovativa a favore degli anziani autosufficienti poveri.

Questo è lo spazio che era scoperto e che abbiamo scelto di occupare, poiché per i non autosufficienti ci sono strutture che in questi ultimi trent’anni si sono collaudate e che offrono un servizio per quanto possibile dignitoso e attento atta disabilità. Queste case di riposo però sono costose quanto mai, comunque i servizi che devono erogare giustificano queste rette.

la soluzione del “don Vecchi” è risultata assolutamente felice per la signorilità dell’ambiente, per i sussidi sociali inerenti alla fragilità fisica e psichica e soprattutto per i costi che sono estremamente inferiori a quelli di qualsiasi struttura esistente sul suolo nazionale.

La nostra struttura ci è invidiata da mezzo mondo e sono innumerevoli gli enti che l’hanno visitata per avere ispirazione per dar vita a soluzioni similari.

Ci siamo preoccupati di “garantire il brevetto” facendo sottoscrivere all’anziano richiedente e ad un garante che, qualora l’anziano non fosse più autosufficiente, il residente sarebbe stato ritirato e collocato in una struttura più adeguata. Purtroppo l’anziano abbastanza facilmente perde autonomia e viene a trovarsi in un luogo non attrezzato e che soprattutto ha scelto di non attrezzarsi per i non autosufficienti.

Ora abbiamo al “don Vecchi” delle situazioni di persone che hanno assolutamente perso la mobilità e che costituiscono perciò un grave pericolo per sé e per gli altri e che caricano la Fondazione di responsabilità umane e legali che non può e non deve addossarsi. Quando si fa presente questo ai figli spesso ci si scontra con una forma di egoismo inconcepibile e pressoché insuperabile e, nonostante gli impegni formali, essi spesso si rifiutano di farsi carico del genitore per non pagare le rette m case di riposo o per non avere in casa il vecchio scomodo. Chi ha offerto anni di vita serena è ritenuto “crudele” perché esige che si rispettino i patti sottoscritti, arrivando a far scrivere all’avvocato o a ricorrere all’ente pubblico e caricando di una responsabilità che potrebbe, una volta capitasse un sinistro, avere conseguenze legali veramente gravi.

In questi giorni sto vivendo momenti di amarezza e di delusione a questo proposito, tanto da farmi concludere che sono stimate le persone che se ne fregano e ritenuto crudele ed ingeneroso chi si è adoperato per il bene dei loro genitori, spesso sottraendosi ai doveri umani di farsi carico delle toro difficoltà.

I “tempi supplementari”

Nota della Redazione: questo appunto è stato scritto, come gli altri, diverse settimane fa. Ora il volume contenente il diario del 2012 di don Armando è in distribuzione al don Vecchi, nelle chiese del cimitero e in ospedale all’Angelo. Ogni offerta è devoluta per finanziare il don Vecchi 5.

Tra le tante benedizioni e fortune della mia vita, ho avuto anche quella di avere sempre tanti e bravi collaboratori che sono riusciti a fare delle cose veramente belle. Quando penso ai duecento volontari impegnati a Radiocarpini o ai quattrocento in parrocchia di Carpenedo e ai duecentocinquanta e più che attualmente sono impegnati nette varie attività che gravitano attorno al “don Vecchi”, non posso che benedire il Signore.

Anche il “granello di senape” da cui è germogliato “L’Incontro” e che oggi conta una cinquantina di collaboratori, è partito dal nulla, ma in pochi anni è diventato un albero frondoso che sforna cinquemila copie del periodico alla settimana ed almeno due o tre volumi all’anno.

Qualche giorno fa uno di questi collaboratori mi avverti che i primi dieci mesi del diario del 2012 erano già pronti e quindi mi invitò a pensare al titolo e alla prefazione del volume che l’avrebbe raccolto, perché vorrebbero darlo alla stampa fin dai primi mesi del 2013. Riflettendo sulla mia veneranda età, 84 anni, e confrontandola con l’età media degli africani, che supera di poco i quarant’anni, m’è venuto da pensare che comunque sto vivendo i “tempi supplementari” come nelle partite di calcio: quel breve quarto d’ora in cui si risolve la partita.

Su questa riflessione s’è sviluppata fatalmente la mia riflessione: i tempi supplementari per loro natura sono brevi, essi sono risolutivi per il buon esito della partita, quindi bisogna mettercela tutta, tirar fuori le risorse residue, vivere intensamente, non ogni giorno ma ogni minuto, cogliere al volo ogni opportunità.

Da queste conclusioni m’è venuto spontaneo e necessario un attento esame di coscienza. Circa l’impegno ad occupare tutto it tempo, non mi è parso di avere rimproveri da farmi, ma sul vivere con la consapevolezza che i minuti sono contati e che le occasioni opportune sono sempre più rare e che in ogni incontro ed in ogni rapporto è doveroso che io dia il meglio di me, sono meno tranquillo. Non mi resta che sperare sulla comprensione di Dio e sull’aiuto dei fratelli.

“Mal comune…”

Una volta ancora ho modo di riscontrare che certi detti popolari che sono contenitori di saggezza ed anche di verità. In questa occasione sto registrando la validità della massima “mal comune mezzo gaudio” in merito al problema della predica.

Tante, forse troppe volte, ho ribadito che per me il sermone domenicale, nonostante predichi da 56 anni, costituisce ancora un dramma. Sono fortemente preoccupato su cosa e come dire e poi non sono mai contento di come ho offerto ai miei cari fedeli il commento al Vangelo.

Pure i motivi del mio scontento li ho più volte manifestati. 1: la parola di Dio è un qualcosa di talmente importante che chi la comunica deve farlo in maniera sublime. 2: la mia gente è tanto cara che meriterebbe che il dono del Signore le fosse offerto in un piatto d’oro. 3: mi piacerebbe essere all’altezza del compito che ho azzardato ad assumermi.

Il “mezzo gaudio” mi viene da una recente lettura di un’affermazione del compianto cardinale Martini. infatti in una sua conferenza afferma: «Mi ha confortato una lettera di un arcivescovo degli Stati Uniti perché mi ha detto “Eminenza sono preoccupato della qualità delle mie omelie e di quella esercitata da molti dei nostri pulpiti”». E il cardinale Martini aggiunge: «Mi ha consolato che abbiamo gli stessi problemi e le stesse difficoltà». Anche sant’Agostino però era sempre scontento delle sue omelie e ad un suo diacono che gli confidava di vergognarsi perché la catechesi del vescovo lo infastidiva, rispose: «Anche a me il mio parlare non piace quasi sempre, vorrei tanto esprimermi meglio».

Ora se gente di questo calibro fa queste confessioni ed è cosi preoccupata di non spiacere al sommo Iddio e al suo popolo, credo che io dovrò “tenermi la mia croce” e continuare a portarla confidando soprattutto sulla indulgenza di Dio e del suo popolo.

Qualche tempo fa mi è passata per la mente l’idea: “Chissà che non arrivi il tempo in cui sia dispensato dal predicare!”. Pero, dopo questa confidenza di così illustri personaggi, credo di non dover più coltivare questo desiderio.

Il problema dei bossoli e delle candele

La diocesi di Venezia ha avuto delle splendide figure di Patriarchi, due dei quali, Roncalli e Luciani, nel lasso di pochi anni sono stati chiamati a sedere nella cattedra di Pietro. Io però ricordo con grande ammirazione pure altre figure di Patriarchi che credo non sia giusto definire minori.

Di questi ultimi ho conosciuto, solamente per fama, il cardinale La Fontaine, mentre ho conosciuto di persona i cardinali Piazza, Agostini, Urbani. Mi piacerebbe dar testimonianza del valore di ognuno di essi perché hanno guidato la Chiesa di Venezia in tempi difficili. Cito solamente il veneziano cardinal Urbani, cui toccò in sorte il tempo amaro della contestazione. Di questo vescovo ricordo una sua particolare massima per dire a tutti quanto gli fosse difficile mettere il prete giusto al posto giusto. Con arguzia tipicamente veneziana, affermava: «Talvolta mi capita di avere una candela grossa, però ho un bossolo piccolo e talaltra ho un bossolo grande ma una candela fina”.

Quant’è difficile trovare il posto giusto a chi ti offre la sua disponibilità a dare una mano nelle opere di bene!

La mia ammirazione per questo vescovo certamente non è determinata da questo suo fiorito modo di argomentare, ma spesso mi sovviene quando qualcuno mi offre la sua disponibilità.

C’è sempre un grande bisogno di collaborazione, però il compito più difficile è quello di trovare il posto giusto per il tipo di persona, di attese e di competenze di chi si offre, perché spesso “il bossolo” per mettere la candela non è il più idoneo.

Ho gruppi che si lamentano di essere in pochi, d’aver troppo lavoro, però quando metto a loro disposizione il nuovo o la nuova venuta fanno subito i difficili e pare che invece di spalancare le braccia ad un’accoglienza cordiale ed affettuosa, si chiudano a riccio, quasi gelosi che qualcuno rubi loro il posto e che non sia idoneo o che tolga loro la corona del martirio per la causa a cui si dedicano.

Spessissimo mi trovo imbarazzato perché quando qualcuno risponde all’appello, incontro difficoltà pressoché insuperabili per l’inserimento. Il volontariato è una delle imprese più ardue e difficili per chi deve condurre questo esercito raccogliticcio, volubile e pretenzioso. Dico questo non per farmi commiserare, ma solo sperando che qualcuno comprenda il difficile “mestiere” che ho accettato di fare.

Il punto ove trovare il cristiano

Qualche settimana fa il parroco di Tessera ha pensato bene, nel quadro dell’anno della fede, di organizzare un incontro nella sua comunità per evidenziare che la fede, per essere tale, deve sfociare nell’alveo della carità.

All’interno di questa paraliturgia ha ritenuto opportuno che io portassi la mia testimonianza per quanto s’è fatto a Mestre negli ultimi cinquant’anni a livello di solidarietà.

Nonostante la cosa mi risultasse gravosa, però a motivo della stima che nutro per questo parroco e della mia totale condivisione per questa linea ideale, ho accettato, pur con disagio per la preoccupazione di poter essere giudicato uno che si fa bello per aver tentato di fare quello che ogni prete deve fare.

Ho iniziato la mia testimonianza dicendo che se si vuole scoprire dove sta il cristiano, nel guazzabuglio di idee che spumeggiano in questo mondo, bisogna usare le famose coordinate: la longitudine e la latitudine. La prima: la longitudine, il cristiano è uno che crede in maniera totale a Dio, a Gesù che ci ha parlato in suo nome e nella Chiesa che custodisce e trasmette il messaggio di Cristo. La seconda: la latitudine è costituita dalla carità, “ama il prossimo tuo come te stesso”. Nel punto di incrocio fra queste due dimensioni si trova il cristiano.

Ho tentato quindi di parlare degli eventi di solidarietà in cui mi sono trovato coinvolto e a cui ho tentato di dare il mio apporto.

A San Lorenzo dal 1956 al 1971: la mensa di Ca’ Letizia con cena e poi colazione – il magazzino degli indumenti – docce – barbiere – vacanze estive dei vecchi e dei ragazzi – il mensile “Il prossimo” – i gruppi per la casa di riposo e per l’ospedale – il “Caldonatale” – gruppi caritativi nelle parrocchie di Mestre, il settimanale la Borromea.

A Carpenedo dal 1971 al 2005: il Ritrovo degli anziani – Villa Flangini, la Malga dei faggi e il mensile “L’anziano” per i vecchi e la rivista Carpinetum per le famiglie – radio Carpini – il gruppo “Il mughetto” per i disabili – il gruppo “San Camillo” per gli ammalati – i gruppi di adulti e di giovani della San Vincenzo – il gruppo per il terzo mondo – le prime residenze per gli anziani (Piavento, Ca’ Dolores, Ca’ Teresa, Ca’ Elisabetta e Ca’ Elisa).

Da pensionato dal 2005 al 2012: i Centri “don Vecchi” – due a Mestre, uno a Marghera e uno a Campalto. La fondazione del settimanale L’Incontro, Il polo solidale del “don Vecchi”, costituito da tre associazioni di volontariato:

  • “Vestire gli ignudi” (i magazzini dei vestiti cui convergono 30.000 persone l’anno);
  • “Carpenedo solidale” per il ritiro di mobili ed arredo per la casa e i supporti per gli infermi e il “Banco alimentare” con 2500 assistiti alla settimana;
  • “La buona terra” per la distribuzione di frutta e verdura (15 quintali al giorno).

In complesso più di 200 volontari sono impegnati in queste attività. Ora stiamo lavorando per il “don Vecchi 5”.

Guardando indietro devo constatare che il buon Dio mi ha donato una bella avventura, so bene che “tutto è grazia” e che basta lasciarsi condurre sempre dalla Provvidenza e divenirne l’umile braccio operativo.

Una decisione lucida

C’è anche chi mi rifiuta e parla male di me, ma per mia fortuna c’è anche chi mi stima e mi usa attenzioni che forse non merito ma che mi fanno piacere.

Quando s’è trattato di formare il consiglio della Fondazione Carpinetum che gestisce i Centri don Vecchi e per la quale il patriarca Scola m’aveva designato presidente, i soci fondatori della stessa – parrocchia di Carpenedo e diocesi – mi hanno cortesemente offerto di potermi scegliere i relativi consiglieri, che poi essi hanno nominato. Quando poi ho ritenuto opportuno di non accettare per un altro mandato la presidenza della Fondazione, il patriarcato mi ha chiesto di suggerire un nuovo presidente. E quando si è installato il nuovo consiglio, esso mi ha pregato di accettare la nomina a “direttore generale”. Non si pensi però che si tratti della direzione della Banca d’Italia! Comunque è stato un gesto di cortesia che ho quanto mai apprezzato e per il quale sono stato riconoscente ai membri di questa Fondazione.

Però in un recente consiglio di amministrazione ho fatto presente il mio desiderio di collaborare da semplice volontario e non più con alcun incarico ufficiale. Ho sempre approvato l’idea che ai giovani appartiene il futuro perché esso sorge ove loro puntano gli occhi. Sono pure convinto che la gerontocrazia, seppur fatta da gente preparata ed intelligente, finisce per rallentare la giusta evoluzione e quindi diventa fatalmente un ostacolo piuttosto che un vantaggio. Così in politica – io sono per Renzi – come nella Chiesa e così pure nelle strutture di minore entità, tifo per chi guarda al futuro piuttosto che al passato.

Non scelgo né la poltrona né la pantofola, ma penso di usare meglio i miei tempi residui come volontario piuttosto che da dirigente.

Fortunatamente, anche in questi tempi, ci sono state delle bellissime figure di vescovi che, una volta smessi la mitria e il pastorale, hanno scelto di fare i cappellani senza far mancare alla Chiesa il loro apporto. Io, pur conoscendo fino in fondo i miei limiti, sento di dovermi orientare con decisione verso una soluzione simile, servendo il prossimo come l’ultimo “manovale”, lasciando ai più giovani e più dotati, il timone della barca.

I preti che stimo

Una volta una buona signora, che mi stima e mi è affezionata, mi chiese candidamente come mai io ce l’avessi contro i preti.

Non mi è stato tanto facile spiegarglielo. Io ho un concetto molto alto del sacerdote. Di certo non sono un ammiratore dei curatini tutti Gesummaria, meno che meno dei preti “impiegati” dell'”azienda Chiesa”. Neppure mi esaltano i preti “allineati e coperti” preoccupati di eseguire ciecamente tutti i desideri del loro vescovo anche quando fossero insulsi e campati in aria. Detesto ancora i preti in carriera e quelli che vivono in combutta con i faccendieri e compatisco con fatica i “don Abbondio”.

Detto questo, confesso che ammiro quanto mai i sacerdoti credenti, quelli onesti, quelli liberi, quelli generosi e coerenti e “faccio le bave” per quelli folli, ossia quelli che si compromettono, che guardano con fiducia al futuro, quelli che vivono poveramente, quelli che rappresentano la testimonianza e soprattutto la profezia e nella società attuale e si sporcano le mani per gli ultimi. Non faccio nomi solamente perché li ho fatti già infinite volte.

Quando scopro poi dei “tesori nascosti” mi sento felice, mi ritengo fortunato ed entro positivamente in crisi perché essi mi sono di pungolo per la mia coscienza di cristiano e di sacerdote.

Già ho parlato con gli amici più intimi con i quali dialogo settimanalmente con questo mio diario, delle traversie per trovare un prete che dicesse messa nella nuova “parrocchietta” dei settanta anziani del Centro don Vecchi di Campalto, tagliato fuori dal consorzio civile dalla trafficatissima e pericolosa via Orlanda. Ho fatto tre tentativi che, per un motivo o per l’altro, sono andati falliti, tanto che non m’è rimasta se non la speranza che i cristiani copti egiziani, che abitano accanto al don Vecchi, costruiscano la chiesa in preventivo, per suggerire ai nostri vecchi di frequentare almeno la chiesa dei nostri fratelli vicini ma “separati”.

Sennonché un giovane parroco, che mi avevano descritto come un contestatore, si è offerto di farlo lui e quindi, in modo garbato e rispettoso, ho tentato di fargli accettare l’offerta “consacrata dalla tradizione”: l’ha prontamente e cortesemente rifiutata.

Vorrei spiegare quindi alla mia buona signora e a chi la pensa come lei, che questo tipo di preti fa più bene al mio spirito che la “summa teologica” di san Tommaso o gli scritti di mistica di san Giovanni della croce, mentre i primi, di cui ho parlato, li considero una delle cinque piaghe delle quali ha parlato Rosmini.

Le soluzioni ci sono ma…

Qualche giorno fa, di primo mattino, mentre riassettavo le ceriere ed i lumini della chiesa della mia “diocesi” popolata da non moltissimi vivi, mi ha raggiunto una inaspettata telefonata dall’Agordino. Un signore mi chiedeva di potermi incontrare per avere più precisi ragguagli sulla nostra meravigliosa realizzazione nei riguardi degli anziani.

Per caso aveva scoperto in internet il “don Vecchi” come una delle “nove meraviglie del mondo”. Spinto dalla curiosità, il mio interlocutore telefonico mi confessò pure che un giorno, in incognito, era venuto a “spiare” il nostro Centro ed aveva visto la hall animata da tanti anziani che gli sono parsi tanto vivi e contenti. Da questa “scoperta” gli era nata l’idea di poter trasformare un suo condominio ad Alleghe, di cui era comproprietario con altri soci, in un Centro per anziani simile al nostro.

A me è venuto il sospetto che la sua sia stata un’operazione commerciale che non ha avuto buon esito, soprattutto a causa della crisi che ha falcidiato le richieste di affitto, durante la stagione estiva ed invernale, di questi costosissimi appartamentini di montagna. Comunque rimango convinto che sia sempre opportuna ogni operazione che sia posta in atto a favore dei nostri vecchi.

Gli risposi che sarei stato ben felice di incontrarlo per mostrargli più direttamente la nostra struttura, ma soprattutto la dottrina che la supporta, cioè offrire un alloggio protetto agli anziani meno abbienti, tanto che anche chi ha una pensione sociale possa abitarvi e vivere, o almeno a sopravvivere, dignitosamente.

Purtroppo ho già incontrato un numero consistente di imprenditori che pensavano di fare un business con questo tipo di alloggi, poi però, quando ho parlato loro di quanto pagavano gli utenti, “è cascato l’asino” perché la nostra è un’operazione sociale con motivazioni ideali e quindi non è realizzabile per chi non accetta la logica della solidarietà.

Ora non mi resta che sperare che il Signore di Alleghe e i suoi amici, magari con qualche aiuto del loro Comune, vogliano entrare in questa logica squisitamente cristiana di concepire il nostro vivere su questa nostra terra.

L’ultimo miracolo

Mi ha amareggiato e preoccupato quanto mai quando una scheggia impazzita è schizzata da una delle associazioni di volontariato che ogni settimana offrono generi alimentari e frutta e verdura a duemilacinquecento concittadini che non hanno denaro sufficiente per sopravvivere in questo tempo di crisi che colpisce soprattutto i più deboli.

Temevo che i contrasti interni finissero per danneggiare la folla di poveri che quotidianamente raccoglie presso il “don Vecchi” la “manna” che fortunatamente cade dal cielo.

Ho tentato con tutte le mie forze e le mie risorse di imbrigliare questa “scheggia” perché non solo non disperdesse la sua energia ma, una volta incanalata, finisse per offrire più luce e conforto. L’impresa non è stata facile, perché è sempre stato difficile guidare quello che nasce dal sospetto e dal dissenso. I primi tempi sono stati tribolati ed incerti, ma poi, pian piano, la cosa ha cominciato a funzionare ed ora sembra davvero promettente, anzi provvidenziale.

E’ vero che la sinergia rappresenta la soluzione ottimale, ma quando risulta impossibile ci si deve accontentare almeno di una concorrenza non belligerante. Così è nata al “don Vecchi” la nuova associazione di volontariato che è stata battezzata col nome augurale e riconoscente “La buona terra”. Essa conta già una quindicina di volontari, ha un presidente, un codice fiscale, gestisce ogni giorno una quindicina di quintali di frutta e verdura, possiede un furgone, ha un “fatturato” di un migliaio di euro mensili e accontenta tre, quattrocento bisognosi alla settimana e, meraviglia delle meraviglie, riesce anche a fornire frutta e verdura alla mensa della San Vincenzo e a quella dei frati.

Una volta tanto una calamità è diventata un’opportunità ed una bella prospettiva per il futuro. Di certo questo evento ha ulteriormente aggravato il cuore già affaticato di questo vecchio prete.

La tonaca

Ho letto qualche settimana fa, su un settimanale parrocchiale, una specie di elogio della tonaca nera del prete da parte di un giovane sacerdote di cui sono grande ammiratore.

Stimo quanto mai questo sacerdote perché zelante, pio e molto capace a livello pastorale e perché ho visto le opere alle quali questo parroco ha dato vita e il consenso che riscuote nella sua parrocchia; anzi, più di una volta, ho sperato che il Patriarca “lo scopra” e gli affidi incarichi di maggior rilievo perché di certo, non dico che li meriterebbe, ma li porterebbe avanti con competenza e bravura. Questo suo “inno” alla tonaca mi è però sembrato strano, mi è parso tanto fuori tempo. Io ho portato la tonaca per più di vent’anni ed oltre la tonaca avevo pure la chierica, il circoletto rasato dei capelli. Non mi è pesato, l’ho accettato serenamente senza disagio alcuno.

Pur essendo io un prete che veste in clergyman, sono ben contento che la Chiesa ci abbia permesso di smettere la tonaca, un abito ingombrante e soprattutto fuori tempo. Il distintivo del prete è per me la sua fede, il suo amore per gli uomini, la sua coerenza e il suo zelo pastorale. Credo che non abbiamo più bisogno di ulteriori diaframmi, di segni che ci collocano fatalmente nei secoli passati, che separano ulteriormente dal comune sentire. Il cristiano Diogneto queste cose le aveva capite e dette già venti secoli fa.

Per carità, si può essere ottimi preti anche con la tonaca, però mi pare che sia un indumento che sa di passato e sia un segno di sacralità, mentre la nostra gente ha soprattutto bisogno di quello della santità per cui non serve affatto la tonaca.

“Il galeotto”

“Il galeotto” di cui ho parlato un paio di volte sul mio diario, l’ho finalmente rivisto al lavoro dopo una ventina di giorni di assenza. Riassumo questa storia per chi non avesse letto tutti i numeri de “L’incontro” o non avesse, come me, una buona memoria.

Due, tre mesi fa, uno di quei lavoratori che tutti una volta chiamavano becchini, ma che ora si chiamano operatori cimiteriali, m’aveva chiesto il testo delle preghiere che io ho posto accanto alla Madonna, a Papa Giovanni, a Madre Teresa di Calcutta, san Francesco, Padre Pio, a Papa Vojtyla, a sant’Antonio o Papa Luciani per aiutare i fedeli a pregare e per sintonizzarli sul messaggio che questi testimoni di Gesù ci hanno lasciato.

La richiesta mi ha colpito perché la trentina di operai che lavorano nel nostro camposanto, sono dei cari ragazzi con cui ho una rapporto amichevole ed affettuoso, ma non mi capita di frequente di vederli fare la “visitina a Gesù”.

Già avevo osservato questo nuovo operatore perché quest’estate avevo notato i numerosi tatuaggi (oggi questi arabeschi sulla pelle vanno di moda, ma io sono rimasto al tempo in cui i tatuaggi se li facevano solamente i galeotti in carcere).

Questo operatore pian piano mi raccontò la sua storia, una storia non edificante che gli ha fatto trascorrere parecchie stagioni nelle patrie galere. Mi raccontò pure che aveva voltato le spalle al passato, che aveva intrapreso una nuova strada. La giustizia però, facendo i conti, si era accorta che aveva ancora venti giorni da pagare e, nonostante “la conversione”, il lavoro e la buona volontà, l’ha rimesso dentro, spendendo invano altri cinque-seimila euro!

Fortunatamente quest’uomo è stato più bravo dello Stato e mi ha proposto: «Don Armando, dopo il lavoro, che termino all’una, verrei volentieri a far volontariato da Lei».

A sentir questo mi viene da pensare che sarebbe giusto che fosse “lo Stato” a scontare almeno quaranta giorni nelle sue carceri per la sua insipienza che non capisce ancora che l’importante è “la conversione” e non la vendetta!

Il buon Dio continua ancora a far bene il suo mestiere

Confesso che io debbo ai radicali l’interesse per il problema delle carceri. La passione civile di Pannella, della Bonino e di quel piccolo drappello di loro seguaci hanno il merito di sottolineare in assoluto l’assurdità del carcere e, relativamente all’Italia, la barbarie di sovraffollare le celle con quasi il doppio di detenuti che erano destinati ad ospitare.

Quando penso ai radicali, che per tanti altri motivi rifiuto per via del loro esasperato anticlericalismo, concludo che stanno battendo una strada abbastanza praticabile per giungere al Regno dei Cieli, anche se non vengono a messa la domenica e detestano i preti, ma soprattutto il Vaticano.

Credo che in Paradiso ne vedremo veramente delle belle! Io e moltissimi altri colleghi, e i vescovi in particolare, siamo angosciati per il fenomeno della secolarizzazione, per l’abbandono della pratica della religione, per le convivenze e i matrimoni civili, mentre il buon Dio pare impegnatissimo ad aprire strade nuove che portano al Regno.

Per rimanere nel campo dei radicali, non volete che il buon Dio accolga in Paradiso Pannella e il suo seguito con tutti i digiuni quaresimali, con il loro diuturno ed appassionato impegno per la certezza del diritto, per la legalità, per l’umanizzare le carceri, per redimere l’individuo, per la libertà di coscienza e perfino per la libertà religiosa?

Ho l’impressione che, una volta ancora, noi cristiani del terzo millennio ci comportiamo come Giacomo e Giovanni, figli di Zebedeo, che dicono a Gesù: «Vogliamo che tu ci conceda quello che ti chiediamo!». Non capivano che non si insegna a Dio ma si va a scuola da Lui per imparare e prender ordini. Noi fedeli, nonostante siano passati duemila anni, continuiamo a fare gli stessi sbagli. Non ci accorgiamo che Dio è Dio, che al Signore non c’è da insegnare, che a Dio interessano i fatti e non le chiacchiere al vento, ma soprattutto che Dio sa fare il suo mestiere, non discrimina le persone, non si lascia condizionare dalle tradizioni, che rimane comunque padre di tutti, che accetta il prodigo pentito e rifiuta il perbenismo dell’egoismo del figlio maggiore.

Quando comincio a guardare la realtà confusa ed aggrovigliata di questo povero mondo, non è che mi venga la tentazione di abbandonare il grande patrimonio ideale che la tradizione cristiana mi ha trasmesso, ma mi incanto nello scoprire con quanta agilità, disinvoltura e fantasia Dio apre nuove strade di salvezza e mi meraviglia e mi confonde come i “lontani” le imbocchino con decisione e con passi da gigante.

Qualche addetto ai lavori afferma con preoccupazione che questa è una “religione civile”, mentre io sono propenso a credere che questa è: vita, provvidenza e salvezza.

Detto questo non ho ancora messo nel messalino il “santino” con il volto di Pannella, però non lo penso neanche infilzato nel forcone di Lucifero! E mi ricordo ancora una volta del detto del ramo che cade con fragore mentre però l’intera foresta cresce in silenzio.

Vittorio, maestro del colore

Esiste a Mestre un’associazione piuttosto numerosa e assai efficiente: “Gli amici dell’arte”. Io non sono iscritto ufficialmente ma ne condivido l’interesse.

Nella mia attività pastorale di un tempo c’era un posto abbastanza di rilievo anche per l’arte. Ricordo con gioia e soddisfazione le quattrocento “personali” fatte presso la galleria parrocchiale “La cella”, le numerose biennali d’arte sacra, le opere esposte nelle strutture parrocchiali che costituiscono in assoluto la più grande galleria d’arte moderna della nostra città. Ma soprattutto il grande “giro” di artisti che hanno colloquiato con la nostra comunità.

Dante afferma che la natura è la “figlia” di Dio e che l’arte ne è la “nipote”. Sono convinto che una comunità cristiana non possa e non debba trascurare questa realtà perché è di certo una strada, magari un po’ sconosciuta, che porta a Dio, indipendentemente dal fatto che i cittadini siano coscienti o meno di questo percorso. Se l’arte non facesse altro, allontana le persone dal brutto, dal banale e dal volgare che spesso trovano posto anche negli edifici parrocchiali e perfino nelle chiese.

La mia vecchia parrocchia aveva, fortunatamente, delle belle personalità di artisti: da Bepi Pavan ad Aldo Bovo, da Toni Fontanella ad Archiutti, da Piero Barbieri a Vittorio Felisati ed altri ancora, senza contare l’indotto che essi richiamavano.

Sono tanto riconoscente a questi protagonisti della vita artistica che, coscientemente o meno, hanno educato al bello e quindi al culto di Dio, almeno un paio di generazioni di parrocchiani.

Ritorno su questo argomento, su cui mi sono soffermato altre volte, perché quest’anno ricorre il centenario della nascita di Vittorio Felisati, il vecchio pittore di via Goldoni che morì improvvisamente mentre stava ritoccando il mio ritratto che voleva regalarmi per l’uscita dalla parrocchia. Come ricordo con nostalgia le lunghe chiacchierate, quando mi presentava l’immenso deposito dei suoi dipinti. Ricordo come brillavano i suoi occhi quando mi diceva, con entusiasmo e quasi con voluttà: «Don Armando, io amo il colore!».

Davvero Felisati aveva una tavolozza di colori forti, con i quali esaltava la bellezza dei suoi paesaggi preferiti: Asolo, il Brenta, le vecchie strade di Carpenedo, Burano, Torcello, Monfumo, ecc.

Il Comune ha organizzato una mostra al Candiani per questo concittadino innamorato dell’arte, ma anch’io voglio offrire un piccolo apporto in onore di questo “maestro del colore”. Il figlio di Felisati mi ha dato una ventina di opere di suo padre, io ho cercato delle cornici che esaltino quanto mai questa festa di colori. Son certo che non c’è stata né ci sarà mostra in cui apparirà il colore nel suo fulgore come nella galleria “San Valentino”, quando a fine giugno, organizzeremo una personale per Vittorio.

Vittorio Felisati ci ha fatto un dono che quasi ci costringe ad accorgerci della bellezza del Creato, segno della gloria ineffabile di Dio.