La zingara

Questa mattina, mentre mi stavo riordinando le idee per mettere a punto l’organizzazione degli impegni e degli incontri della giornata, mi ha raggiunto nella sagrestia della mia “cattedrale” una zingara che bazzica spesso in cimitero per questuare.

Questa giovane donna, sui trenta trentacinque anni, in atteggiamento mesto e compunto, si è seduta senza un mio invito nella sedia accanto al mio tavolo ed ha cominciato a rovistare nella borsa per presentarmi il motivo specifico della sua richiesta di aiuto: era una scatola quadrata che un tempo aveva contenuto delle medicine. Le ripetei quello che già due altre volte le avevo detto: «Venga al “don Vecchi”, là ho modo di farle avere generi alimentari, indumenti e frutta e verdura», ma mentre le altre volte, in attesa che lei approfittasse della mia offerta, le avevo sporto qualche euro, questa mattina, richiamandomi ai discorsi passati, rimasi fermo nella mia decisione, pur sapendo che il mio rifiuto m’avrebbe tormentato durante la messa che stavo per celebrare e per tutto il giorno. Lei insistette un poco, poi se ne andò, delusa, quasi l’avessi insultata o bastonata.

La zingara è una degli Udorovich che abitano nelle casette per i sinti costruite dal Comune, il villaggio che spesso tien banco sui giornali locali per i furti, le baruffe e i colpi di pistola tra i membri delle etnie diverse ed ultimamente anche per il rifiuto collettivo di pagare la luce e i venti, trenta euro di affitto.

Nonostante tutto questo ci rimasi male per il rifiuto, ricordandomi del parere espressomi anni fa da una “piccola sorella di Gesù” che mi disse che, a suo umile parere, un “piccolo segno di solidarietà” è sempre positivo.

Dissi messa male e poi, ad aumentare il mio turbamento e – confesso pure – il mio rimorso, mentre celebravo, è stata la vista di una vecchia conoscenza entrata in chiesa, una persona che normalmente mi fa delle offerte generose. Infatti, appena finita la messa, la mia amica, quasi centenaria, avendo appena ricevuto la pensione, mi ha dato 200 euro.

Ho un bel dire che non ho né vizi né capricci – infatti risparmio perfino usando più a lungo possibile la vecchia lametta per la barba e quanto ricavo lo destino tutto per il “don Vecchi 5” – però il disagio e il rimorso mi resta. Non so proprio chi possiede milioni come possa vivere tranquillo!

La Biennale

Ci risiamo! Ad anni alterni arrivano a Venezia gli “artisti” di tutto il mondo, non a portarci un messaggio di armonia e di bellezza, ma per propinarci le stravaganze, le brutture e le peggiori profanazioni dell’uomo e della natura, riempiendo la nostra città – che si può definire senza timori di smentita, “il tempio dello splendore, dell’armonia e dell’arte” – di mostruosità che dissacrano non solo il senso del bello, ma le più elementari norme del buon gusto e della correttezza.

Io non so quanto ci costi la Biennale e neppure che cosa si ricavi da questa rassegna di cose strampalate e spesso disgustose, ma anche se i vantaggi economici fossero positivi, non so se sia giusto prestarci ad accogliere il frutto di menti malate ed irrequiete.

Dicono che gli alberghi hanno il pieno per la Biennale e che arrivano i vip del mondo intero, però questo evento che è contrabbandato sotto il paravento prestigioso dell’arte, ritengo che sia invece quanto mai diseducativo e che favorisca il fenomeno già incombente di un modo di vestire, di parlare e di comportarsi di cattivo gusto, che è già sfociato nel bullismo dei nostri ragazzi e nel vivere sgangherato di una parte ormai consistente della nostra gente.

Ci sarà qualcuno che mi farà osservare che per la Biennale vengono personaggi di ogni Paese; io ritengo che essi siano i soliti perditempo arricchiti sulla sofferenza dei poveri e che siano del tutto simili a chi un tempo andava a vedere curiosità come i nani e i grassoni dei baracconi nelle fiere paesane.

Prestarci a questo imbarbarimento di costume ritengo che sia quanto mai deplorevole da parte della nostra amministrazione comunale, la quale ha il compito non solo di preoccuparsi del benessere dei cittadini, ma anche quello di promuovere la qualità della vita e della crescita civile.

Do per scontato che qualcuno della intelligentia, o illuso di appartenervi, mi accuserà di oscurantismo, però sento doveroso e ritengo giusto dar voce a tanta povera gente che lavora, suda e soffre, mentre tanto denaro pubblico va sprecato per qualcosa di brutto e sconveniente. Io di certo non andrò alla Biennale, perché mi è già di troppo scorgere ogni giorno le immagini delle “opere d’arte” che abbrutiscono Venezia e leggere le critiche talvolta ironiche e talora codine che appaiono sui giornali e credo che, come me, il nostro popolo non perderà tempo per vedere direttamente la dissacrazione del bello e del sensato.

L’obbedienza ammalata

Quando ero in seminario la nostra vita pratica ed ideale si rifaceva alla “regola” che qualcuno dei miei superiori d’allora arriva a denominare “santa”. Non cito le prescrizioni del libretto perché alcune sono del tutto superate. Ricordo ad esempio che una delle norme della regola diceva pressappoco così: “Un buon seminarista procuri di essere a casa prima del tramontare del sole”. V’erano però degli articoli di indirizzo spirituale più seri, i cui contenuti hanno forgiato generazioni di preti, sui quali però penso di aver qualcosa da dire.

Ricordo che c’era un articolo che diceva pressappoco che “l’obbedienza deve essere cieca, pronta ed assoluta”. A questo proposito ricordo un particolare che m’è rimasto impigliato nella memoria ed ogni tanto mi appare creandomi un particolare stato d’animo. Ai miei tempi le varie attività della nostra vita in seminario erano scandite dal suono della campanella ed a proposito dell’obbedienza pronta ed assoluta, qualche superiore giungeva a raccomandarci che se il suono ci fosse giunto all’orecchio mentre in studio stavamo scrivendo, era opportuno lasciare la parola a metà. Infatti s’era dato il fatto che un santo, avendolo fatto, al ritorno avesse trovato la parola completata a caratteri d’oro da un angelo mandato dal Signore. Questa è l’obbedienza che mi fu insegnata.

Ai tempi della contestazione nel mondo ecclesiastico ci fu chi ha parlato invece della “santa disobbedienza”. Il mio concetto di obbedienza non ha abbracciato questa tesi, però provo un senso di pena e di rifiuto assoluto per chi, o per quieto vivere, per bigotteria o per non compromettere la propria carriera, si pone in questa posizione nei riguardi dei superiori.

Ricordo sempre la frase di san Paolo nei riguardi del suo “superiore”, san Pietro: “Resistetti in faccia perché aveva torto”. Non avere una posizione dialettica, non contraddire mai il superiore, non offrirgli la propria posizione, anche se si sa che non condivisa da lui, è tradire e pugnalare alle spalle chi ha posizione di maggiore responsabilità. Sono contento perché recentemente ho appreso che sia il cardinal Martini, sia il nostro caro Papa Francesco, non sono lontani dal pensarla come me.

L’innesto

La confidenza che vi faccio è certamente un po’ puerile, credo però che sia opportuno che mi presenti come sono e non come vorrei essere o come gli altri vorrebbero che io fossi.

Quando ho sentito che il nuovo presidente del governo italiano non potendo andare a messa al mattino per via dei suoi impegni di capo del governo, era andato alla messa vespertina, ho provato quasi una carezza al cuore.

Enrico Letta è del partito democratico, quel partito che ormai solamente Berlusconi e lo “sceriffo” trevigiano Gentilini si ostinano a chiamare ancora comunista. Anch’io, come credo la maggioranza degli italiani, sono convinto che il PD. abbia poco a che fare con il partito di Togliatti, Ingrao e Paglietta, anche se talvolta si avverte che, tutto sommato, qualcuno ha ancora qualche nostalgia, o almeno qualche reminiscenza della scuola fatta alle Botteghe oscure.

Io sono molto contento che all’interno del PD ci sia una componente di cattolici abbastanza significativa; la mia contentezza non proviene dalla speranza che questi cattolici diventino maggioranza e si impadroniscano di questo partito, ma solamente dalla speranza ché vi portino un po’ di stile, un tono, degli atteggiamenti più moderati e più vicini al comandamento “ama il prossimo tuo”, meno polemici e differenti da chi rimane legato al secolo scorso quando Marx ha predicato la lotta di classe in una società che ormai oggi non esiste più.

Quando sento parlare Letta, Renzi, Fioroni, lo stesso Franceschini – anche se un po’ più spigoloso – e qualche altro, ho la sensazione che, pur dichiarando il proprio dissenso, la diversità di orientamento dalla destra, non ci sia più quell’acredine, quel disprezzo, quella voglia di scontro, quella polemica, quella alterigia che per molto tempo rimase il retaggio di gente che proveniva dalla lotta di classe, dalla bandiera rossa e da quel repertorio che sapeva di rivoluzione piuttosto truculenta.

Sono convinto che l’immissione nel PD di personalità provenienti dalla cultura cristiana, tutto sommato, abbia “addolcito le acque” e stia mettendo le premesse perché il confronto diventi più civile e costruttivo.

Un tempo giudicai con diffidenza questo innesto su questo “albero selvatico”, ora però mi pare che stiano crescendo germogli più vicini all’innesto che al vecchio tronco.

Il flop

Ricorderanno gli amici una mia recente confidenza: ho scritto “Ho paura di Grillo, ho tanta paura del Movimento Cinque Stelle”! Non sono per nulla preoccupato che Grillo predichi la rivoluzione contro i politicanti, meno ancora sono preoccupato di questo consistente ricambio tra i vecchi addetti ai lavori della politica con una folla di giovani neofiti, anzi! Quello che mi preoccupa è la dottrina piuttosto presuntuosa e velleitaria di quel filosofo di Casaleggio che si atteggia a ideologo di questo movimento.

Ho paura di un movimento guidato da un “padre padrone” che detta legge, che decide tutto, che non si confronta con nessuno, che non dialoga, ma sbraita, che non collabora e che strilla come un forsennato, rimanendo esattamente quell’istrione che è da comico e che, usando questi sistemi piuttosto volgari con cui ha intrattenuto le folle, è diventato ricco. Ho paura di quella grande folla di italiani che l’hanno seguito come nella nota favola del pifferaio e che l’hanno scelto non tanto perché sia razionalmente convincente, ma perché dice, anzi urla, imprecazioni contro l’odiata casta dei politici ormai rifiutati dalla gran parte degli italiani. Ho paura perché Grillo adopera quello strano e non collaudato aggeggio, che è internet, che non mi pare lo strumento più idoneo per il dibattito e il confronto di idee.

Infine ho paura per “i prodotti” venuti fuori dagli sproloqui volgari e insultanti con i quali ha fatto fortuna nelle piazze del nostro Paese. I discepoli eletti al Parlamento, tutti plagiati come i seguaci di quelle sette americane che riescono a far soldi mandando chi si fa incantare da loro a mendicare e a prostituirsi, tanto che riescono ad infinocchiarli con le loro stravaganti ed interessate dottrine.

Confesso che quei “ritiri spirituali” in agriturismo con le porte sbarrate, quel rifiuto a rispondere ai giornalisti, quell’obbedienza assoluta al capo, quel ripetere ossessivo che loro hanno le ricette per una soluzione miracolista, mi sembrano qualcosa che ha a che fare con lo stile dei testimoni di Geova in versione parlamentare piuttosto che i portavoce delle istanze sociali.

L’ultimo flop elettorale mi ha fatto tirare un respiro di sollievo, però non sogno che siano mandati a casa, spero solo che ci ripensino e diventino un popolo di uomini e donne liberi, decisi a dare una mano al salvataggio del nostro Paese.

I miracoli di oggi

Qualche settimana fa, essendomi recato al “don Vecchi” di Campalto, ho incontrato una “mia sessantottina” che, uscita tanti anni fa dalla fila dell’Azione Cattolica della mia vecchia parrocchia di San Lorenzo, ha abbracciato appassionatamente la bandiera della contestazione.

La Provvidenza, attraverso un disegno che mi rimane sconosciuto, l’ha dolcemente e fatalmente depositata, dopo quasi mezzo secolo, sul bagnasciuga del “don Vecchi”. Io ho ringraziato e ancora ringrazio il buon Dio per questo “dono” perché la ragazzina di mezzo secolo fa ha conservato tutta la sua ricchezza umana, forte ed esplosiva, tendente ad una visione critica di un mondo che era e continua ad essere criticabile per le sue innumerevoli miserie ed ingiustizie. Mariolina – così si chiama la nostra “rivoluzionaria” di un tempo, ha ancora dentro di sé un po’ dell’argento vivo di un tempo e in fondo le è rimasto qualcosa della “passionaria” che fu.

Quando la incontrai aveva in mano un giornale che non conoscevo, “Il fatto”, periodico che aveva in copertina una foto a tutta pagina di don Gallo, con questa didascalia: “Ogni volta che allargo le braccia si realizza qualcosa di buono”. Don Gallo ha ragione!

Voglio ricordare una piccola vicenda di cui ho parlato agli amici qualche settimana fa. Matteo, un mio “vecchio” obiettore, che ha rifiutato il servizio di leva preferendogli il servizio civile, quest’inverno ha scoperto in una casa cantoniera delle Ferrovie dello Stato ormai deserta, una famiglia rumena al freddo e al buio, con in più la paura che la polizia scoprisse questa occupazione abusiva. Matteo s’è dato da fare per risolvere questo “caso impossibile”. Fra gli altri, ha bussato alla coscienza del suo vecchio “datore di lavoro”, infatti ha fatto il servizio civile al “don Vecchi”.

Io ho parlato di questo dramma nel mio “diario personale”. Una signora di Venezia che, non so come, riceve l’Incontro, mi ha mandato una e-mail offrendo gratuitamente a questa famiglia una casa restaurata in una sua azienda agricola a Musile di Piave. In questi giorni la famigliola, che poi in verità non è affatto piccola – marito, moglie e quattro figli – ha preso possesso dell’immobile.

Quando Matteo me l’ha annunciato, mi sono ricordato di don Gallo e della mia sessantottina: “Basta aprire le braccia e i miracoli avvengono ancora”, e non miracoli di seconda categoria perché questi tre – Mariolina, Matteo e la famiglia rumena, sono dei miracoli “super”.

La diversità è una ricchezza

I vecchi ritornano spesso sugli stessi discorsi ed io non sono una eccezione. Tempo fa mi sono imbattuto in una splendida e sorprendente sentenza che si rifà alla saggezza dell’antica Roma. Essa dice: “Gli anziani hanno diritto a dimenticarsi!”. Da quando ho appreso questa norma me ne avvalgo a piene mani, non arrossendo e non sentendomi affatto mortificato per le mie sempre più frequenti dimenticanze.

Non conosco però un’altra sentenza come questa che codifichi in maniera “sapienziale” e giuridica un altro argomento. Comunque, se non ci fosse, la faccio io; anche se non ha un passato glorioso, comunque la reputo quanto mai valida: “La diversità non rappresenta un pericolo o un impoverimento della vita sociale, ma una ricchezza!”. Questa constatazione non è del tutto farina del mio sacco, ma ho appreso – non so dove – questa verità, ci ho riflettuto e mi è parsa quanto mai calzante.

Spesso si sente dire da personaggi affermati che essi sono per la libertà, però Dio ti guardi se dici qualcosa che non sia conforme alla “loro” verità. Ne so qualcosa quando mi sono permesso di scrivere nel passato che non era lecito che per quindici giorni di vacanza del Papa in Cadore o in Val d’Aosta venissero spesi centinaia di milioni!

I movimenti ecclesiali, oggi in auge, peccano un po’ tutti di supponenza, di illusione – dico io – di possedere “il meglio” della verità; infatti sono quasi sempre arroccati, col ponte levatoio alzato, un po’ sprezzanti del parere degli altri, quasi che essi abbiano il monopolio assoluto della verità. Questa mentalità “in alto” viene ritenuta disobbedienza, mancanza di disciplina o di rispetto ed “in basso” come rifiuto del confronto delle idee.

A parer mio questo atteggiamento sa di insicurezza, di poca apertura alla verità, di sfiducia nel prossimo. Aprire le finestre fa sempre entrare il sole che mette in mostra le magagne ma, nello stesso tempo, dà la possibilità di correre ai ripari, mettendo maggiormente a fuoco “le proprie piccole e fragili verità” e, nel contempo, se uno ha dentro il proprio “orticello” qualcosa di buono, il confronto non può far altro che valorizzarlo.

Non ritengo opportuno scendere in particolari, però credo di aiutare il mio prossimo e i miei colleghi affermando che il confronto non è mai dannoso ma sempre arricchente, facendo sempre scelte in linea con questo principio.

La legge e la coscienza

In Italia vi sono tre gradi di giudizio: la sentenza, l’appello e la cassazione. Il nostro è un Paese garantista, però ultimamente più di uno afferma che questi tre gradi appesantiscono e rallentano i processi, tanto che essi finiscono per mortificare la giustizia piuttosto che esaltarla; inoltre questo modo di procedere è molto costoso e permette ai soliti “furbi” di evadere i rigori della legge facendo spesso cadere i reati in prescrizione.

Per quanto invece concerne la vita religiosa di un cristiano, quasi tutto è lasciato alla responsabilità del singolo credente. Il primo appello è costituito dal raffronto che egli è chiamato a fare con la legge che si rifà sostanzialmente al decalogo e all’interpretazione autorevole che ne è stata fatta dalla Bibbia e dalla tradizione. Il secondo appello, che è poi il definitivo, è emesso dalla coscienza del singolo credente. Nella sostanza poi, questo è il verdetto che costituisce l’ultimo appello a cui l’uomo è moralmente tenuto ad attenersi, perché lo rende pure responsabile di fronte a Dio.

Tornando alla giustizia italiana, da qualche decennio c’è stato un rigurgito un po’ fittizio ed interessato di legalismo, vedi ad esempio le fortune, che poi si sono dimostrate quanto mai effimere, di Di Pietro, che ha fatto della legalità il motivo fondante del suo partito politico. La cosa non è andata perché la sua era una giustizia che doveva valere soprattutto per gli altri, ma pare che fin dall’inizio non contasse granché per quanto riguardava la sua condotta. In questo ultimo decennio spesso si sentiva dire anche per le cose più banali: “E’ la legge!”, ma dietro questo paravento si sono nascoste mascalzonate, magagne ed interessi di ogni genere.

Questa ventata legalitaria pare abbia inciso anche su quanto riguarda le leggi ecclesiastiche, le norme, i sinodi, le regole religiose, il codice di diritto canonico e dintorni, però mi pare sia tempo di affermare il primato della propria coscienza e di fronte a norme, pur esaminate con attenzione, rispetto e riverenza, si possa sempre appellarsi direttamente alla propria coscienza, poiché il giudizio finale di Dio si rifà in maniera assoluta alla “sentenza” della propria coscienza prima di qualsiasi altro giudizio esteriore.

Questo discorso viene a confortare ed aiutare tutti coloro che si trovano di fronte a norme rozze, superate, non aggiornate e spesso disumane. Questo discorso penso sia quanto mai liberatorio per tanti cristiani che vengono a trovarsi oggi in aperto conflitto fra la propria coscienza e la norma formale ereditata dal passato.

La chiesa del domani

In queste ultime settimane, venendo a conoscenza della listerella di preti che vanno in pensione per raggiunti limiti di età e delle relative parrocchie che rimarranno senza parroco, tante volte ho pensato al nostro Patriarca, dicendomi: “Come farà a tappare tanti buchi avendo pochissimi preti e per di più tanto anziani?”

Pur non essendo questo un problema che mi riguardi personalmente, pur essendomi lambiccato il cervello, non sono riuscito a trovare una soluzione che mi appaia valida. Già nel passato mi è parso che una delle soluzioni più razionali sarebbe quella di accorpare le parrocchie e creare delle pur piccole comunità sacerdotali che si pongano a servizio delle parrocchie accorpate, evitando così doppioni nell’assistenza ai vari gruppi parrocchiali, sfruttando la sinergia delle diverse attitudini e soprattutto destinando i singoli sacerdoti a quel tipo di apostolato verso il quale si sentono più portati e preparati.

Comunque, pur adoperando questa soluzione-tampone, sono ancora infiniti i problemi da affrontare e il più cruciale fra questi è e rimane quello della carenza di clero, problema che pare tenda progressivamente ad aumentare piuttosto che a diminuire.

La Chiesa, nei suoi due millenni di storia, ne ha avuti di problemi, e forse più gravi di quelli attuali: invasioni barbariche, caduta del Sacro Romano Impero, eresie di ogni genere, diatribe teologiche, caduta dello Stato pontificio e tante altre ancora. Ogni volta essa è risorta a vita nuova e forse migliore di prima. Anche la grave crisi attuale troverà di certo una soluzione perché a Dio non manca la fantasia e l’intelligenza.

Forse la Chiesa sarà costretta a fare quello che a suo tempo avrebbe voluto fare don Gallo, il prete genovese morto da un paio di mesi, che era tranquillo al riguardo, pensando che probabilmente la Chiesa dovrà concedere il sacerdozio alle donne, come avviene nella Chiesa cristiana protestante, aprire le porte al matrimonio ai preti, come avviene nella Chiesa cattolica orientale. Forse la nostra Chiesa sarà costretta a dare maggior spazio ai laici, forse dovrà smantellare l’apparato macchinoso ereditato dalla tradizione, forse dovrà far diventare più snella ed essenziale la vita religiosa come avveniva nei primi secoli della vita cristiana.

Penso che i credenti piuttosto che lasciarsi andare all’angoscia e alla preoccupazione, debbano lasciarsi condurre docilmente dalla mano saggia e provvida di Dio.

La religione di Gesù

Ignazio Silone, il letterato che si dichiarava “socialista senza partito e cristiano senza Chiesa”, da piccolo era stato accolto in una delle tante case per orfani aperte da quel sant’uomo che fu don Orione. Silone ha scritto un bellissimo volume “L’avventura di un povero cristiano” tutto impostato sulla vicenda di Celestino 5°, il Papa che “insegnò” a Papa Ratzinger la possibilità di rinunciare al papato.

La lettura del suo volume mi ha fatto bene, aiutandomi a cercare sempre ciò che è veramente genuino ed autentico in quel cristianesimo in cui credo fermamente, ma per cui soffro spesso per le sue devianze. Silone approfitta della vicenda del Papa che fu dimissionario perché si trovò a disagio con i fasti della Chiesa del suo tempo, tanto da voler tornare alla vita di eremita per auspicare che la Chiesa tornasse alla semplicità e alla povertà delle sue origini.

Credo che lo scrittore abbia condensato in una frase, divenuta famosa, questo auspicio: “Altro è vedere l’acqua che esce monotona ed incolore dal rubinetto collegato all’acquedotto della città, un qualcosa di persino troppo banale, altro è vedere il mistero, la poesia, l’incanto dell’acqua che sgorga umile e pura dalla sorgente e, scintillando tra le rocce, si avvia lesta e briosa verso il mare”.

Anch’io sento il bisogno di tornare alla sorgente domandandomi: “Gli apostoli dicevano messa tutti i giorni, i primi cristiani si confessavano ogni settimana, gli apostoli avevano un segretario e abitavano nel palazzo vescovile, nominavano monsignori i preti più in vista, erano laureati in teologia o diritto canonico?” Quando comincio a pormi queste domande non finisco più, e quanto più continuo, non solo noto diversità per via dei venti secoli che ci dividono dalle prime comunità apostoliche, ma pure mi pare che l’impalcatura che si sviluppò nel tempo, sia per stile che per comportamento, sia tanto diversa da quella delle origini.

Ho già detto che non condivido l’affermazione perentoria di Ermanno Olmi che “la Chiesa oggi ha dimenticato Gesù”, però temo che col passare degli anni stiamo veramente arrischiando di perdere lo stile, il respiro e il comportamento del nostro Maestro Gesù.

Provo spesso il bisogno di ritornare alla sorgente saltando talora tutte le mediazioni elaborate dalla teologia o dalla tradizione. Per fortuna Papa Francesco sta provvidenzialmente ridestando nel cuore dei cattolici di oggi la nostalgia per il Vangelo.

Autodistruzione

Ci sono certe frasi che, per dei motivi non sempre semplici da capire, rimangono impresse nella memoria ed altri pensieri, pure veri e profondi, che scompaiono e si dissolvono appena letti.

Tanti anni fa trovai, non so più dove, questa sentenza: “Dio perdona sempre, gli uomini qualche volta, ma la natura mai!”. Quando capita una catastrofe naturale qualcuno la giudica una fatalità, qualche altro un po’ bigotto e di una religiosità molto povera, pensa che sia un castigo di Dio, stanco di vedere i peccati degli uomini. Per fortuna si fa sempre più strada chi giudica invece che essa sia una forma di autopunizione, conseguenza fatale di un comportamento dissennato che viola i ritmi e le leggi ferree della natura la quale esige rispetto assoluto di quello che attualmente chiamiamo “ecosistema”, ma che sarebbe più giusto definire il progetto del Creatore.

Nulla avviene o è presente per caso, ma ogni realtà ha la sua funzione precisa ed assolutamente necessaria. Gli interventi dell’uomo dovrebbero essere sempre cauti, prudenti e rispettosi di quell’equilibrio armonioso su cui poggia la vita e il benessere di tutte le realtà presenti in questo mondo.

Giovannino Guareschi, col suo humour sottile e provocatorio, in un suo racconto collocato come premessa allo splendido volume “Mondo piccolo”, dice che gli uomini da un’eternità tentano la scalata al cielo con le loro Torri di Babele per spodestare il Padreterno dal suo trono. Dio spesso li lascia fare, ma quando esagerano muove la falangina del dito mignolo e rovescia la torre che crolla rovinosamente a terra. La metafora del famoso “padre” di don Camillo non fa altro che ricordarci, in maniera fantasiosa, che ogni volta che noi manomettiamo la natura, ossia il saggio progetto di Dio, per motivi di passione o di egoismo, non facciamo altro che condannarci ad una vita squallida e all’autodistruzione.

Pensavo in questi giorni a queste verità di fronte alle tragiche e rovinose alluvioni causate dal massacro che stiamo operando sulla terra, sui fiumi, sui boschi ed in genere su tutto il Creato, come alle violazioni alle sacre e provvide leggi naturali che regolano la vita dell’uomo. Anche l’immagine del matrimonio gay, celebrato in questi giorni in Francia di fronte alla sindachessa, non solo mi ha dato una sensazione di squallore, ma pure la certezza che la violazione del precetto intelligente e sublime di Dio sulla famiglia non farà altro che aumentare il disordine nella nostra società.

Viva il più bravo!

Ieri avevo letto sul Gazzettino che il sindaco Orsoni ha in mente di fare un “rimpasto” all’interno della giunta comunale. L’articolo era contorto e con qualche illazione, ma mi pare pressappoco di aver capito che avendo un assessore abbandonato il partito per il quale era stato eletto ed essendosi iscritto al gruppo misto, questo partito non era più rappresentato in giunta. Quindi esso reclamava una poltrona, altrimenti come avrebbe potuto sopravvivere ed operare l’amministrazione comunale senza il suo apporto prezioso ed insostituibile? Era dunque necessario far posto in giunta per accogliere il nuovo rappresentante di partito.

La vittima sacrificale immolata sull’altare della logica politica probabilmente sarebbe stata quella di un tecnico, ossia di un amministratore chiamato ad operare per il solo motivo della sua competenza professionale e non per meriti di ordine politico.

Oggi ho letto sullo stesso quotidiano che l’assessore Enzo Micelli era stato giubilato e “licenziato in tronco”, come si direbbe nel linguaggio commerciale. Peccato che questo assessore tecnico fosse uno dei migliori di cui il Comune potesse disporre.

In questi due ultimi anni, a motivo dei Centri don Vecchi, ho avuto a che fare in particolar modo con due assessori: uno di nomina politica (uno squallore!) e l’altro, Micelli, di nomina professionale, un tecnico che pur dovendosi occupare di un assessorato disastrato, corrotto (infatti è quello in cui Bertoncello velocizzava le pratiche a suon di mazzette) ce l’ha messa tutta ed è riuscito a sbrogliare la matassa estremamente ingarbugliata della concessione della superficie agli Arzeroni che è stata destinata al “don Vecchi 5”.

L’assessore Micelli, con la collaborazione dei suoi tecnici, che si sono appassionati all’impresa, ha fatto un autentico “miracolo”, quello di portare a compimento la pratica. Proprio l’ultimo giorno del suo “servizio” dal Comune è arrivata la concessione edilizia. Don Gianni e il suo splendido staff di collaboratori si sono spesi all’ultimo sangue, ma senza la collaborazione decisa, intelligente, leale e generosa del professor Micelli, di certo non si sarebbe cavato un ragno dal buco.

Sento il dovere di rendere onore a questo amministratore di alto senso civico e di notevoli capacità tecniche e di manifestare ancora una volta rabbia ed avvilimento per dei politici avidi ed esperti solamente nella caccia alle poltrone!

Don Puglisi

Non so se sia solamente casuale oppure appartenga ad un disegno della Provvidenza, che il funerale di don Gallo sia stato celebrato lo stesso giorno in cui papa Francesco ha portato all’onore degli altari don Pino Puglisi, il prete assassinato dalla mafia perché ha avuto l’ardire di attuare il Vangelo a Palermo.

Don Gallo e don Puglisi, a mio parere, fanno parte ambedue di quella piccola schiera di “preti folli” che hanno tentato di praticare un cristianesimo radicale e da Vangelo, a differenza della gran massa di preti, anche per bene, che però non tentano di uscire dai ranghi per tradurre il messaggio di Gesù, la “buona notizia”, nella realtà cruda del nostro tempo, ma che preferiscono la religiosità quieta che vive nelle sagrestie e celebra i riti cristiani in santa pace, senza scomodare la coscienza di alcuno.

Don Gallo e don Puglisi erano tanto diversi fra loro, hanno operato in ambiti tanto lontani, uno nel nord borghese e benestante, l’altro nel profondo sud povero e sottomesso ad una tradizione di mafia e sopruso; eppure hanno avuto ambedue in comune la radicalità evangelica, il coraggio di andar contro corrente, di osare quello che umanamente sembra per tutti folle ed impossibile.

Ho già parlato della testimonianza ardita ma solitaria di don Gallo, che penso nessuno mai si sarà sognato di nominare monsignore, anzi che è sempre stato guardato con sospetto perché ha abbracciato la causa degli ultimi.

Don Puglisi, pur con una testimonianza ed un taglio di vita da prete in ambito e con modalità diverse, perseguì la stessa utopia di don Gallo. Mi sono tante volte domandato in questi venti anni che ci separano dalla sua morte: “Al tempo in cui visse ed operò nel sud questo parroco e fino ad oggi, quanti sono stati e sono i preti che operano nelle terre desolate dominate dalla mafia? Centinaia, migliaia, forse decine di migliaia! E come mai “l’onorata società” ha trucidato solamente – o quasi – don Pino? Di certo essi erano e sono “buoni preti”, che però hanno poco a che fare con il Vangelo di Gesù, anche se portano titoli di merito e sottane rosse.

Mi viene da gridare a questo nostro amato popolo di Dio, e soprattutto ai miei colleghi preti: “ammiriamoli e siamo almeno orgogliosi dei nostri campioni e dei nostri martiri, anche se noi non riusciamo a far altro che tirare le ciabatte e lustrare i candelieri dell’altare!

Don Gallo

E’ morto don Andrea Gallo, il prete genovese noto in tutta Italia per le sue prese di posizione, per il poco ossequio verso le gerarchie ecclesiastiche, per la sconfinata ammirazione per il cantautore De André e per la sua frequentazione del mondo dei drogati, delle prostitute, dei transessuali, dei centri sociali e della sinistra estrema. Confesso che questa morte, per me non prevista, mi ha sconcertato.

Sono rimasto scosso da questa notizia ferale perché non sapevo che ultimamente don Gallo non stesse bene di salute, ma in cambio sapevo bene che aveva la mia età. Parlare della morte, dire che non si ha paura di morire è abbastanza facile, ma se poi constati che le date dei morti di cui celebri i funerali girano tutte attorno alla tua età, e venendo a sapere della morte non prevista del “collega”, col quale si è stretto un certo rapporto di pensiero, porta un certo sconvolgimento.

Ripeto ancora una volta che avevo sentito parlare di don Gallo una decina di anni fa come un prete della fronda, filocomunista, irrequieto, sbandato da un punto di vista dottrinale, che la gerarchia teneva sott’occhio per le sue stravaganze e per le sue prese di posizione per nulla ortodosse; ma nulla più. Dentro di me non avevo preso posizione essendo arrivato, per esperienza diretta, alla conclusione che l’autorità costituita è purtroppo sempre più preoccupata per chi fa fughe in avanti o tenta di praticare un cristianesimo radicale e da Vangelo, che per chi invece sonnecchia, s’accoda alla massa, pensa ai fatti suoi, è ossequiente all’autorità, per chi non prende posizione su niente, tira a campare e vive una fede in modo estremamente borghese, pago di vedere accese le candele, di controllare che il profumo di incenso sia gradevole e l’acqua santa sia senza germi.

Ho conosciuto invece più da vicino questo vecchio prete un paio di anni fa leggendo una sua strana e particolare autobiografia che m’è stata donata da qualcuno che, non sapendo cosa regalarmi, ha scelto un volume sulla cui copertina c’era il volto di un vecchio prete con un sigaro in bocca e un cappellaccio nero a larghe falde in testa. Conoscere le parole, le scelte, il pensiero e la vita di questo prete, mi ha toccato a fondo, messo in crisi e – perché no? – edificato.

L’amore di don Gallo per gli ultimi, i perduti, i fuori strada, gli abbietti della nostra società, mi ha sorpreso. Le scelte di don Gallo d’istinto le ho collegate ai movimenti radicali del tempo di san Francesco descritti nel volume “Nel nome della rosa” di Umberto Eco, che volendo vivere autenticamente il Vangelo, come Francesco d’Assisi, hanno faticato alquanto per farsi legittimare dall’autorità religiosa costituita. La nostra società perbenista e il nostro cristianesimo formale tagliano fuori con un colpo netto, senza pensarci due volte, quel mondo che Gesù ha amato e del quale ha parlato con bontà.

Forse non tutti condivideranno il mio pensiero, però io sono propenso a mettere il nome di don Andrea Gallo accanto a quelli di don Tonino Bello, don Lorenzo Milani, don Primo Mazzolari, padre David Maria Turoldo e qualche altro. Penso che fra non molto anche don Gallo diventerà una bandiera per i cattolici: siamo purtroppo un popolo che ancora “uccide” i profeti e poi erige loro i monumenti.

Il nuovo panteon

Quando ero bambino nella mia parrocchia di campagna in riva al Piave era cappellano un vecchio prete che non aveva fatto carriera e che penso abbia trascorso l’intera vita ad Eraclea. Viveva aiutato dalle “signorine della posta”, ossia due anziane nubili che per tutta la loro lunga vita hanno gestito l’ufficio postale del paese per quelle poche operazioni che a quei tempi vi si potevano fare: vendita di bolli, libretto di risparmio e poco altro.

Don Marcello – così si chiamava il vecchio cappellano – tutti dicevano che sapesse fare solamente due prediche: quella della “pecorella smarrita” e quella “degli dei falsi e bugiardi”. Io ricordo solamente la seconda, non tanto per il contenuto, ma per la veemenza con cui se la prendeva con gli idoli falsi e bugiardi, che penso fossero quelli della Grecia e di Roma. Si infervorava talmente che finiva per pestare i pugni sul pulpito di legno collocato in alto a tre quarti della chiesa. Ricordo bene questi particolari perché era anche mia mansione di chierichetto aprire e chiudere la porta sopra la scaletta che portava all’ambone.

Più tardi, prima il catechismo, poi gli studi di filosofia e teologia, mi insegnarono che col progredire dei tempi l’umanità era arrivata alla verità dell’unico Dio, mentre gli altri dei furono relegati nei testi della storia delle religioni.

Per tanto tempo sono stato convinto che gli uomini del nostro tempo, alla luce del progresso, si erano lasciati definitivamente alle spalle le divinità pagane. Ora, ormai vecchio decrepito, non sono tanto certo che le cose siano andate così: ho il dubbio fondato che nella nostra società si sia costruito un nuovo panteon, più grande di quello di Roma, per collocarvi altari più numerosi di quelli del vecchio panteon, per le nuove divinità, che poi sono quelle antiche.

Mi capita talvolta, leggendo i giornali e vedendo la televisione, di scoprire il nome e il volto degli idoli del nostro tempo, i quali hanno, purtroppo, tantissimi fedeli. Talvolta faccio un giro con lo sguardo per scoprire le divinità del nostro panteon e constatare le folle di devoti. Non so bene quale sia l’ordine con il quale sono collocati i vari idoli. Cito a memoria i loro nomi scritti sui relativi altari e butto uno sguardo alle pale di questi altari rimessi a nuovo: sesso, denaro, successo, mafia, potere, burocrazia, carriera, ipocrisia, perbenismo, quieto vivere, egoismo, invidia, politica, inganno, sport, auto di lusso, moda, violenza, superficialità. E ancora bellezza, erotismo, divertimento, ecc. ecc.

Non sono purtroppo né Savonarola né il mio don Marcello, però auspico e prego che arrivi un nuovo Goffredo di Buglione per predicare una nuova crociata per liberare la nostra società dal paganesimo incombente.