Integrismo

Come non posso seguire con attenzione e preoccupazione emotiva la vicenda di una comunità in cui ho vissuto i miei migliori 35 anni di vita e alla quale ho dedicato ogni mia risorsa?

Al mercoledì esce “Lettera aperta”, il periodico che ho fondato nell’ottobre del 1971, una settimana dopo aver “preso possesso” della parrocchia.

A Carpenedo la contestazione del ’68 giunse un po’ in ritardo, era la coda di quel fenomeno così radicale, da un lato devastante e dall’altro purificatore, della società e della Chiesa in tutte le sue articolazioni. Sapevo che in parrocchia era forte e gagliardo il vento di contestazione, soprattutto tra i giovani, e sapevo pure che qualcuno aveva sparso la voce che io ero un conservatore. Presi “il diavolo per le corna” e nella prima predica dissi chiaramente e con forza che io ero della Chiesa di Paolo sesto, il pontefice “regnante” d’allora.

Il giorno dopo una delegazione di giovani che aveva capito fin troppo bene l’antifona, venne a chiedere di trasformare la messa delle 10 in assemblea pubblica per dibattere i problemi della parrocchia. Rifiutai e fu guerra, una guerra per cui mi dissero che se anche mi avessero sparato l’avrebbero fatto per il bene della comunità e se io avessi costruito il patronato, essi l’avrebbero distrutto. Capii immediatamente che dovevo crearmi uno strumento per parlare alla comunità ed oppormi a certe tesi che giudicavo pericolose.

La domenica dopo usciva il primo numero di “Lettera aperta” col sottotitolo: “Settimanale con il quale il parroco parla alla comunità”.

“Lettera aperta” fece fortuna e si impose all’attenzione non solo della parrocchia, ma della città e i sessantottini di Carpenedo si dissolsero presto come neve al sole.

Don Gianni, il parroco attuale, pure lui tiene ben stretto nelle sue mani il periodico, ma lo fa con stile diverso, di certo meno polemico e meno angoloso del mio. Il pensiero corrente e l’opinione pubblica è ora molto diversa da quella del mio tempo.

Qualche settimana fa però, egli pubblicò un corsivo di una parrocchiana, a mio avviso integrista, amaro e sprezzante. Non riuscii a capire perché l’avesse pubblicato. La settimana dopo però don Gianni è intervenuto personalmente per ridimensionare l’intervento precedente che rappresentava lo scontro, oltre che fra la generazione al tramonto e quella all’aurora, tra modi di pensare estremamente diversi, anzi contrapposti. La settimana successiva ancora, forse per bilanciare le tesi contrapposte, il giovane parroco pubblicò un altro intervento di un giovane, di stile e contenuto, anche se più articolato e motivato, pure sferzante e, a mio parere, integrista.

Questo “dialogo” m’è parso né bello né costruttivo. Una volta ancora constato che l’integralismo genera altro integralismo di segno opposto. Queste cose succedono però anche in tutte le “migliori famiglie”. Mi auguro che il tutto sia segno di vitalità e di partecipazione al dibattito assai vivo nel Paese a questo proposito.

I miracoli della sagra

Sono ormai passati quasi dieci anni da quando sono uscito dalla parrocchia. Tante cose sono cambiate, comunque sono molte ancora le “vestigia” del vecchio mondo che ho lasciato; vestigia rimaste non come “magnifiche rovine”, ma come “piante” quanto mai cresciute e frondose.

In occasione della sagra, che festeggia quest’anno i ventun anni dalla nascita, m’è venuta voglia di visitare il padiglione nel quale è stata allestita una mostra fotografica che documenta l’impegno della comunità a favore del terzo mondo: India, Filippine ed Africa.

Ho incontrato alcuni veterani di quello splendido gruppo che ha realizzato delle opere imponenti e straordinarie e che ha continuato ad estendersi sia dal punto di vista geografico nel soccorso ai poveri del terzo mondo, che da quello del numero dei soccorritori.

Ho chiesto a Gianni Scarpa, veterano del gruppo e uno dei “padri fondatori” del gruppo per il terzo mondo di Carpenedo, quante siano attualmente le adozioni a distanza. Mi ha risposto che le adozioni a distanza in atto sono circa tremila, poi mi ha mostrato con legittimo orgoglio, misto a vera commozione, il primo ragazzino indiano che Edy, sua moglie, e lui, hanno adottato vent’anni fa, ora laureato e docente universitario.

Ho continuato a scorrere rapidamente le moltissime fotografie disposte in quell’ordine perfetto e pignolo che è proprio di Gianni. Ho rivisto il grande dormitorio annesso al college, costato 80 milioni di lire, costruito in India mentre ero ancora parroco, e le cucine, i pozzi, le scuole, le tante costruzioni che ora non si contano più.

Visitata la mostra m’è venuta voglia di fare quattro passi nel terreno della sagra tra i padiglioni, i giochi per i bambini, la piattaforma per il ballo, le cucine e mille altre cose ancora. Erano le 18,30 e c’era già una lunga fila in coda per prenotare la cena e un profumo quanto mai invitante di crosticine. M’è parso tutto tanto grande, tanto complicato, con tanti operatori, molti dei quali li ricordavo, ma tanti altri m’erano del tutto sconosciuti. Mi son sentito quasi smarrito in quella confusione festosa, tanto da chiedermi se io sarei mai capace di mandare avanti una “baracca” così imponente e complessa.

Poi, d’istinto, riandai alla radice di quella “quercia” tanto solida e fronzuta, al motivo che mi aveva spinto vent’anni fa a piantare il piccolo “seme di sagra”. La comunità, a quel tempo, era nettamente spaccata in due: da una parte la chiesa, dall’altra il bar della piazza e la sede del PCI in via Ligabue. Ognuno aveva i suoi fedeli, ognuno, pur battezzato, credente e sposato in chiesa, camminava per la sua strada. Quelli del prete e quelli della piazza, due binari nati con la fine dell’ultima guerra. Le salsicce ai ferri, la piattaforma e la pesca fecero “il miracolo”. Si, la sagra ha fatto il miracolo che tutti si ritrovassero assieme per alcuni giorni di festa e di cordialità.

Tornando al “don Vecchi”, un po’ stordito per quel “marchingegno” così complesso ed animato, mi son detto: «Spero proprio che la sagra continui a far miracoli!».

Finalmente le ruspe!

Non vorrei dar troppe informazioni sui tragitti che sono solito percorrere, perché a qualcuno, a cui spesso rompo le scatole, non venga in mente di metterci l’esplosivo come a Capaci! Per fortuna l’essere un povero diavolo che si permette di fare solamente qualche “denuncia”, da un lato non scuote granché la nostra società sonnolenta, che continua a dormicchiare e a pensare ai fatti suoi, dall’altro lato oggi non mette affatto in pericolo la mia vita.

Mi reco due volte a portare la buona stampa in ospedale. Ormai da oltre un paio d’anni non sono più impegnato nella pastorale diretta dell’ospedale, ma credo che non ci sia degente ed assistente medico o impiegato che non conosca le mie idee e i miei messaggi.

Due volte la settimana porto dunque, assieme a suor Teresa, una tonnellata di buona stampa, “L’Incontro”, “Il sole sul nuovo giorno”, “Il libro delle preghiere” che regolarmente volontari generosi distribuiscono ai degenti e i parenti prendono dagli espositori.

Penso che da anni alcun operatore pastorale abbia la gioia di offrire “la buona notizia” al migliaio e più di persone che ruotano, per un motivo o per l’altro, attorno all'”Angelo”.

Dopo aver deposto la stampa nei luoghi strategici, ritorno al “don Vecchi” per la nuova grande strada che gira alle spalle dell’ospedale per andare a congiungersi al Terraglio nei pressi di Villa Salus.

L’altro ieri, alla seconda rotonda – quella che è di fronte al MacDonald, girai lo sguardo dalla parte opposta e vidi finalmente una gran ruspa che asportava la terra per far posto al sedime della strada che congiungerà questa rotatoria al Villaggio solidale degli Arzeroni del quale farà parte il “don Vecchi 5”.

Credo che Mosè, alla vista della Terra Promessa, non sia stato più felice di me. E’ vero che Mosè impiegò 40 anni per arrivare alla terra promessagli dal buon Dio, mentre io e gli amici della Fondazione ce ne abbiamo messi soltanto tre, ma quanti ostacoli, quanta fatica!

Le ruspe dovranno spostare l’equivalente di cento camion di terra per creare il sedime e portarne altri cento per riempirlo di ghiaione, comunque “il dado è tratto”, come disse Cesare quando passò il Rubicone; ora non si tratta che di proseguire, sperando che il Signore ce la mandi buona.

Intanto confesso che mai mi sono accorto di quant’è bella una ruspa, che con quelle sue mani dalle lunghe unghie solleva la terra. Grazie Signore, per nostra sorella ruspa!

I soldati di ventura

Quante volte, soprattutto quando ero a Venezia, non ho ammirato in campo dei santi Giovanni e Paolo, la possente statua equestre del Colleoni. Quel campo di Venezia ha, a nord, quello splendido ricamo della facciata del convento dei domenicani che è diventato, con i secoli, la sede scomoda dell’ospedale civile. A destra la splendida facciata della chiesa dei santi Giovanni e Paolo, la chiesa più grande di Venezia ove i domenicani, ordine dei predicatori, parlavano alle folle di fedeli. Al centro il monumento al Colleoni, il celebre condottiero, capitano di ventura, che ha “lavorato” per molti anni ed ha ben meritato presso la Serenissima.

Io che sono cresciuto durante il fascismo e sono stato educato all’amor patrio, ho sempre provato un senso di repulsione per questi soldati di ventura che si mettevano al servizio di qualcuno e combattevano non spinti da amor di Patria, ma dagli ingaggi assai generosi. Nutro pure un sommo rispetto per i nostri soldati di professione che si offrono come volontari di pace, di libertà o di democrazia e partono per tutti gli angoli del mondo dove questi valori sono minacciati, ma sempre mi sorge il dubbio che i diecimila euro al mese di ingaggio siano forse più determinanti che quegli alti ideali che spesso fungono da paravento ipocrita.

Passi per i nostri “volontari” che partono in “missioni di pace” armati fino ai denti, però quello che mi è ancor più difficile capire ed accettare sono altri “soldati di ventura”, ossia i giovani dei centri sociali e perfino uomini che incutono soggezione per le loro pretese di promuovere libertà, giustizia e democrazia, mentre sono super addestrati per combattere la polizia, per bruciare automobili, rompere le vetrine dei negozi, per lanciare bombe Molotov e per disselciare le strade.

Questi soldati di ventura sono onnipresenti ove c’è una qualche opportunità di menar le mani. Ricordo le loro epiche imprese per il G8 di Genova, contro la base Del Molin a Vicenza, la TAV in val di Susa, in bacino san Marco contro le grandi navi, a Roma, Napoli, Taranto….

La magistratura pare abbia un occhio di riguardo perché le loro devastazioni non sono solo devastazioni, ma “devastazioni politiche”.

Ricordo quel povero carabiniere che si è difeso per non essere bruciato vivo nel suo mezzo e, purtroppo, avendo fatto partire un colpo, ha ucciso il suo assalitore: lui è diventato un criminale per una certa parte politica, mentre l’assalitore, nuovo “soldato di ventura”, un eroe!

Ogni volta che passo per campo san Giovanni e Paolo e vedo il monumento al Colleoni, temo che prima o poi si edifichi in piazza san Marco un monumento a Casarin che è pure un condottiero dei “soldati di ventura” dei nostri giorni.

Il Papa della rivoluzione evangelica

Il popolo pare che, magari inconsciamente, subisca sempre più il fascino di Papa Francesco, e lo senta come un apostolo che riconduce i fedeli e la Chiesa allo “stile di Gesù”. Mi pare che non ci sia più incontro al quale non partecipino folle sempre più numerose. Forse il parlare semplice, senza tante elucubrazioni teologiche, il calore umano che sprigiona dal suo modo di rapportarsi con la gente, la semplificazione nel vestire, il ridurre al minimo vesti, ritualità e preghiere, la proposta di un Dio ricco di bontà e di misericordia reale, l’abbandono dei testi scritti che risultano sempre sofisticati e difficilmente capaci di andare al cuore, soprattutto l’assunzione dello stile del linguaggio e del comportamento della gente normale, tutto questo lo mette in sintonia con il sentire della gente del nostro tempo.

Certe scelte poi di non abitare più negli appartamenti che sono stati costruiti per il “Papa re”, la critica aperta alla Chiesa arroccata nella sua sacralità e prigioniera di consuetudini, tradizioni e soprattutto del protocollo; il discorso reso credibile dal suo passato e vivo nel suo presente, sulla povertà della Chiesa, sul rifiuto di un inquadramento gerarchico, su carriere pressoché automatiche e certi accenti quanto mai decisi nei riguardi di qualcosa che non ha proprio nulla a che fare con il Vangelo, sono tutti fatti che pare stiano promuovendo una profonda rivoluzione nei riguardi di una Chiesa troppo strutturata, che lascia poco respiro alla radicalità evangelica, per un nuovo stile di Chiesa.

La mia sensazione poi è che il nuovo Papa scelga di dare una testimonianza personale sul tipo di Chiesa che si correla alla comunità umana in cui è inserita, che preferisca fare il pastore della Chiesa di Roma piuttosto che il pontefice che governa direttamente attraverso i suoi ministeri la Chiesa universale, dando quindi più autonomia alle realtà diocesane che meglio possono adattare il messaggio evangelico al loro popolo.

Il Papa sta sottomettendosi a ritmi tanto intensi per dare un volto ed un respiro nuovo al cattolicesimo. Mi auguro tanto che egli regga a questa fatica immane e senta che i cristiani di Roma e del mondo sono con lui perché, nonostante tutto, avvertono che soltanto lo stile evangelico può dare risposte al bisogno di autenticità che tutti sentiamo.

Le carceri in affitto

Io sono un uomo che risparmia a tutti i livelli e quindi cerco di non buttar via neppure un secondo. In questa ottica avrei scrupolo di coscienza anche a sprecare i venti minuti che impiego ogni giorno per il tragitto dal “don Vecchi” al cimitero e viceversa. Impiego questo tempo, come ho già detto altre volte, ascoltando radio radicale, che è l’unica emittente tanto seria da non indulgere mai in programmi di intrattenimento sempre banali.

In questo momento la radio di Pannella e della Bonino non fa altro che parlare del problema delle carceri, giudicate sovraffollate, vecchie, disumane, incivili, tanto che Pannella & Co. accusa lo Stato italiano di essere criminale. Questo i radicali non lo dicono da oggi, ma da decenni e io, dal giorno in cui sono entrato a Santa Maria Maggiore col Patriarca Roncalli per celebrare colà la messa di Pasqua, la penso esattamente come loro. Avevo avuto un sussulto di speranza con la ministro Severino che propugnava, nel suo breve periodo di Ministro della Giustizia, pene alternative a quelle della detenzione in gabbia. Purtroppo lei, che di carceri penso se ne intendesse essendo un avvocato di grido, se n’è andata troppo presto assieme al suo “principale” Mario Monti.

La Cancellieri non so come la pensi, comunque anche in questo settore specifico soltanto, una “rivoluzione” della portata di quella francese o russa potrebbe farci sperare che qualcosa possa cambiare.

Qualche domenica fa, però, mentre me ne stavo andando dopo la messa, mi ha raggiunto un signore che di certo legge “L’Incontro” e perciò sapeva come la penso a proposito di carceri, e m’ha donato un volume sull’argomento: “Uccidiamo il criminale?”, di Mario Ottoboni. Non ho ancora terminato di leggere il volume quanto mai interessante soprattutto per gli “addetti ai lavori”, ma anche per chi ha a cuore la dignità dell’uomo e il suo recupero ad una società corretta.

Leggendo il percorso che è proposto per i carcerati, si capisce immediatamente che non prevale l’azione punitiva – che non serve a nulla – ma la vera rieducazione e il coinvolgimento in questo percorso di tutte le realtà che girano attorno al carcere. Confesso che mi ha stupito quanto mai il discorso di affidare ad enti privati, distinti dalla burocrazia pesante, costosa ed inconcludente dello Stato, la gestione delle carceri, soluzione che ne rende infinitamente meno costoso l’onere per la collettività.

“Troppa grazia, sant’Antonio!”

Da sempre punto e spero di ricevere “la mercede” del Signore per il mio impegno pastorale. Questa però è una mia scelta obbligata perché in questi ultimi dieci anni, pur non avendo mai ricevuto un centesimo, e meno che meno un riconoscimento per la stampa e la diffusione del nostro settimanale da parte della Chiesa veneziana, con un gruppetto di volontari abbiamo continuato imperterriti, settimana dopo settimana, senza pausa alcuna, a stampare cinquemila copie de “L’Incontro”. Di certo “L’Incontro” nel mondo religioso mestrino è il periodco più diffuso e il più letto. E nel campo della stampa indipendente non so se neppure “Il Gazzettino” abbia, a Mestre una tiratura pari.

Dicono – ma io non ci credo – che ogni giornale o rivista possa contare su almeno quattro lettori alla copia. Anche se non fosse così, ogni settimana abbiamo la possibilità di parlare a cinquemila concittadini di ogni estrazione sociale, infatti il nostro periodico è diffuso più nei bar, nelle banche e nei negozi di ogni genere, che nelle chiese. Se però fosse vero ciò che si dice nel mondo della comunicazione sociale, vorrebbe dire che ogni settimana riusciamo ad avere più fedeli “alla nostra predica settimanale” che tutti quelli delle 32 parrocchie messi assieme.

Forse questa è una nostra illusione, però non ci siamo mai illusi sulla modestia del nostro periodico che è di certo un “re settimanale”, però in un “mondo di periodici poveri grami” qual’è quello della stampa parrocchiale. Senonché qualche giorno fa è arrivata una e-mail dalla “Biblioteca Nazionale Marciana – ufficio periodici” in cui mi si fa esattamente questo discorso: ” Gentile don Armando, la prego di voler inserire il nominativo di questa Biblioteca nell’indirizzario de “L’incontro”, anche per far conoscere ad un più vasto pubblico il giornale che terrà esposto al pubblico degli studiosi che quotidianamente frequentano la sala di lettura della Marciana. La ringrazio fin d’ora. Firmato: dottoressa Maria Michieli”.

Confesso che ho avuto un sobbalzo di orgoglio. Che “L’Incontro” entri nei sacri scaffali della “Marciana” per “sedere” assieme ai volumi che la Serenissima raccoglie da secoli, era proprio una cosa che non mi sarei mai aspettato!

Ho provveduto subito ad “aumentare” del 30% il prezzo di copertina (la cosa varia solamente da un punto di vista ideale perché “L’Incontro” è gratuito e continuerà ad esserlo!).

Vangelo e Costituzione

Le mie letture provengono tutte dalla produzione del mondo cattolico, sia come volumi che come periodici. Non mi sento di imbarcarmi in terreni sconosciuti e pericolosi per la mia fede, sapendo di non essere culturalmente attrezzato per difendermi da tesi portate avanti dal mondo laico, agnostico ed ateo che caratterizza la gran parte della cultura e dell’opinione pubblica del nostro tempo.

Talvolta ho persino paura che qualcuno possa minare in maniera seria e pericolosa quella strutturazione religiosa e teologica che mi sono costruito con fatica durante tutta la mia vita. Talvolta avverto qualche piccola crepa, qualche cedimento, qualche parete con infiltrazioni estranee, però ho la sensazione che gli elementi portanti reggano ancora bene.

Questa relativa serenità la debbo soprattutto alle “frequentazioni” dei “profeti del nostro tempo”: da don Mazzolari a don Milani, da papa Giovanni al vescovo don Antonino Bello, da padre Turoldo a don Gnocchi. E poi quella bella schiera di scrittori cattolici d’oltralpe: Maritaine, Peguy, Mauriac, Mounier ed altri ancora.

Però in questi ultimi anni la mia riflessione si fa particolarmente attenta ed appassionata su questi valori che la gerarchia ecclesiastica chiama “irrinunciabili”. Sono totalmente d’accordo col magistero ufficiale della Chiesa, rivendico in maniera assoluta il diritto che la Chiesa li possa proporre, con ogni suo mezzo, ai “fedeli” come agli “infedeli” del nostro Paese e del mondo intero, ho però sempre qualche dubbio in più che si pretenda di imporre questi splendidi e preziosi “tesori” per legge.

Don Gallo, che ho conosciuto recentemente, afferma che il cristiano di oggi deve avere come guide religiose e civili, il Vangelo e la Costituzione. Credo che il Vangelo debba essere per i cristiani credenti una legge assoluta e inderogabile e di esso si deva fare una legittima proposta per tutti, mentre per quello che riguarda la vita civile, come cittadini d’Italia, il codice fondamentale debba essere la Costituzione e solamente essa debba essere il comune denominatore per credenti e non credenti.

Lo Stato deve garantire in maniera assoluta che i credenti possano vivere integralmente i valori e le norme della loro fede, mentre temo che non sia neppure “cristiano” pretendere che anche chi non crede e non condivide la proposta evangelica debba adeguarsi per legge a ciò che noi cattolici crediamo. In tempi lontani vigeva la norma che la religione dei cittadini doveva essere quella del loro re, oggi però, fortunatamente, ne abbiamo fatto della strada a questo riguardo.

Un rimpianto ingiustificato

Non so da quanto, comunque la Chiesa da molto tempo, come ha dedicato il mese di marzo alla devozione di san Giuseppe, maggio alla Madonna, ha pure dedicato il mese di giugno alla devozione del Sacro Cuore di Gesù.

Io ho vissuto la mia fanciullezza quando questa devozione era quanto mai in auge. Ricordo che nel mio paese natio, piccolo borgo di campagna che si adagia tranquillo e sonnolento a ridosso dell’argine sinistro del Piave, nella chiesa parrocchiale ricostruita dopo la prima guerra mondiale in stile neoromanico a tre navate, c’era nell’abside della navata di sinistra un altare dedicato al Sacro Cuore. Sopra l’altare troneggiava una statua di terracotta dipinta, con l’immagine tradizionale di Gesù col cuore rosso sangue in mano.

A quel tempo quel singolare atteggiamento non lo trovavo strano, ora questo sezionamento da tavola anatomica mi crea un rifiuto istintivo, ma allora le prediche, la coroncina del sacro cuore, la messa dei primi nove venerdì del mese che ci “garantivano” comunque il Paradiso, mi facevano trovar naturali queste iconografie.

Anche quest’anno, all’inizio del mese di giugno, sulla scia di quelle esperienze della prima infanzia, invitai i miei cari fedeli a prendere coscienza di come e di quanto Gesù ha amato l’uomo e ci ha insegnato ad amarlo pure noi. D’istinto, parlando di questa pietà, mi venne da rimpiangere la chiesa affollata di gente, le comunioni generali di un tempo, mentre ora pare che i fedeli lascino passare sopra i capelli questo invito a scoprire il vero volto di Gesù: non quello effeminato dei santini, ma quello robusto, virile, appassionato del Cristo del Vangelo.

Quest’anno, mentre parlavo di questo argomento, ebbi la sensazione che il punto di riferimento per questo invito a scoprire il Cristo storico, fosse più il Gesù di Pierpaolo Pasolini che quello di santa Margherita Maria Alacoque.

In quest’ultimo tempo della mia vita mi appassiona ogni giorno di più l’impegno a tradurre la fede e la religiosità appresa nella mia infanzia in qualcosa di nuovo e di più aggiornato, per renderne la sostanza accettabile e credibile alla gente del nostro tempo. Constato che questa è un’operazione difficile, che sono pochi i preti a farlo, ma che è sempre più urgente e necessario farla, se non si vuole che Cristo sia messo in soffitta tra le cose vecchie che non servono più.

Più miracoli che nel passato

Un tempo si portava, a prova della divinità di Cristo, i miracoli che ha fatto durante i tre anni della sua vita pubblica. Gesù stesso ha più volte affermato che aveva guarito perché la gente credesse che Egli era mandato dal Padre e parlava e agiva in Suo nome e perciò la sua parola era veritiera. Nel Vangelo si legge più volte che i miracolati s’erano aperti alla fede, come pure tanta gente che era stata testimone di quei fatti miracolosi s’era convertita ed aveva creduto in lui.

Ora pare che gli uomini del nostro tempo non poggino più la loro fede su fatti miracolosi che la scienza non sa spiegare, anche se è pur vero che la gente credente, come pure la non credente, accorre a folle nei luoghi ove si dice che la Madonna sia apparsa, abbia parlato o abbia anche compiuto dei miracoli.

L’avidità dello spettacolare, dello straordinario, ha avuto sempre un fascino particolare sul popolo. Basti pensare ai milioni di cittadini che accorrono a Lourdes, a Fatima, a Medjugorje, ma pure a sant’Antonio, a Pompei e in mille altri santuari o località ove si dice sia avvenuto qualcosa di portentoso.

Io non ho mai provato questo prurito del portento, condividendo il pensiero di un famoso entomologo il quale affermò: “Io non credo in Dio, perché lo vedo nella natura e nel Creato. Un fiore di campo, il volo o il canto di un uccello, il sorriso di un bambino, la grazia di una donna, il cielo stellato o la maestà delle montagne parlano alla mia ragione di Dio in maniera così immediata ed eloquente da non aver bisogno di aggiunte di nessun genere»

A proposito di miracoli, proprio alcuni giorni fa, soffrendo di una brutta influenza con tosse, raffreddore e febbre, mi fu ordinato dalla dottoressa che si cura della salute dei residenti del “don Vecchi”, una serie di pastiglie di antibiotico. Una volta guarito, mi venne da pensare che io stesso sono stato più volte miracolato. Prima il tifo, poi una pleurite essudativa, quindi un tumore all’intestino, poi un altro al rene che mi fu infatti asportato, e qualche altro malanno attuale. Ma sempre me la sono cavata.

Per me il buon Dio si serve dei medici e di tante altre persone dotate di una intelligenza, che pure essi hanno ricevuto dal Creatore e, attraverso loro, ci fa capire che, a momento debito, interviene per manifestarci la sua bontà e la sua misericordia. Dio fa ancora miracoli, meglio e più di quanti ha fatto suo Figlio Gesù quando visse con noi. Dio ci è vicino come sempre, siamo noi che spesso siamo tanto ciechi da non “vedere”.

Sorella acqua

Ci sono certe pagine della Bibbia che oltre ad essere poesia, sono pure preghiere e lode a Dio per la sua bontà e per la sua munificenza.

Leggo sempre tanto volentieri quella pagina in cui lo scrittore sacro fa dire all’orante una lauda veramente stupenda con cui canta la gloria di Dio e, fiducioso e devoto, lo ringrazia per gli elementi della natura: il sole, il bel tempo, i ghiacci, le nevi e la pioggia. Questo devoto dimostra una fiducia così assoluta nel Creatore, che lo loda per ogni evento bello come per quelli che noi poveri, meno fiduciosi, riteniamo essere, se non un castigo, almeno una amara calamità.

San Francesco poi, che oltre ad essere santo era anche poeta, nel suo magnifico Cantico delle creature, ha una lode particolarmente bella per l’acqua “umile e casta”. Io confesso che sono ancora molto lontano da questa fede “senza ma, chissà, perché”, come recita Trilussa, il noto poeta romano.

In questa interminabile “primavera” si sono alternate, tutti i santi giorni, piogge di ogni tipo: uggiose, piovaschi, scrosci, tempestate, temporali: infatti è caduta pioggia per tutti i gusti e in sovrabbondanza. Vedendo i campi allagati, le semine dilazionate, i raccolti compromessi, ma soprattutto i fiumi esondati, i torrenti e i canali minacciosi che han preoccupato ed anche allagato casolari e minacciato città, tante volte mi sono chiesto il senso di tale evento.

Ho scartato subito la risposta più immediata e tradizionale: “castigo di Dio!”, però ho trovato una qualche difficoltà a comprendere e ringraziare il Signore per una calamità che pare non intenda a smettere.

Detto questo ritorno su concetti che ho già espressi anche recentemente: il monito a non violentare la natura per colpa del nostro egoismo e la presa di coscienza che, nonostante tutte le nostre conquiste scientifiche e la nostra prosopopea, rimaniamo ancora delle povere creature fragili e in balia degli eventi. Infine ho pensato che il Signore sa “scrivere dritto anche su righe storte”, come dice un proverbio spagnolo; quindi è ancora preferibile cercare il lato positivo e fidarci del buon Dio piuttosto che arrabbiarci e disperare.

La legge!

Finalmente si è conclusa la vicenda della custodia delle biciclette dei trecento anziani ospiti nel “don Vecchi” di Carpenedo. La storia è lunga e quanto mai amara e merita di essere raccontata per constatare che i romani avevano ragione quando già duemila anni fa hanno sentenziato “Summa jus, summa iniuria” (traduco alla buona: “anche la legge più perfetta, fatta per il bene della comunità, talvolta si rivela una ingiustizia clamorosa”).

Una decina di anni fa chiesi ad un architetto di fare un progetto ed ottenere il permesso per creare un deposito per riparare le biciclette. Il “don Vecchi” di Carpenedo è composto da 192 alloggi ed ospita circa 300 anziani. Di questi residenti una decina o poco più, posseggono ancora l’automobile, 150 circa vanno a piedi o in autobus e tutti gli altri posseggono ancora una bicicletta. M’è parso giusto che questo “prezioso patrimonio” fosse difeso dalle intemperie. Il motivo per cui le cose non sono andate per il giusto verso non l’ho ancora capito. Forse c’è stato uno sbaglio, forse gli operai hanno interpretato male i disegni. Quello che purtroppo ho capito bene è stato il fatto che un “parrocchiano fedele” che non c’entrava nulla nella questione, ha fatto ben tra denunce per quella che egli, esperto di queste cose, ha ritenuto una irregolarità ed ha pensato che un prete prepotente dovesse essere punito.

Per questa vicenda, prima c’è stata erogata una multa di cinquemila euro, poi ci han fatto togliere le pareti di questa custodia, dopo per mesi siamo andati avanti con visite di vigili, con suggerimenti vari che dicevano potessero sanare l’illecito; infine, per non danneggiare il professionista che aveva firmato il progetto, abbiamo dovuto togliere anche la copertura perché il “gabbiotto” diventasse legale, mentre quello che è stato fatto in piazza San Marco sotto il campanile, forse sarà fatto togliere solamente per motivi di carattere estetico e di convenienza.

Ora le biciclette dei nonni sono sotto il cielo “riparate” da tre profilati in ferro larghi qualche centimetro, ma comunque “giustizia è stata fatta!”. Abbiamo possibilità di collocare la struttura in altri luoghi, ma con il cantiere per il “don Vecchi 5” appena aperto, distrarre soldi da questa partita sarà ben difficile.

Credo che sia doveroso che i cittadini sappiano quale compenso riceve chi si occupa degli anziani più poveri ed altrettanto conoscano lo zelo per la legge di certi cittadini, di certi vigili, di certi funzionari comunali e di certi magistrati!

La visitazione

Le feste della Madonna offrono sempre al mio animo un dolce sentimento che profuma di famiglia e di calda maternità. In questa cornice ed in questa atmosfera questa mattina ho celebrato la festa della Visitazione, ossia il caro “mistero” cristiano che fa memoria dell’aiuto offerto dalla Vergine Maria all’anziana cugina Elisabetta.

Il lontano ricordo dell’ode con cui Alessandro Manzoni racconta poeticamente questo evento, forse mi ha sempre aiutato ad avvolgere di incanto e di poesia questo episodio della vita della Madonna. Non ricordo esattamente le parole con cui l’autore dei “Promessi sposi” descrive questo evento, ma ho ben presente l’atmosfera dolce, incantata e ricca di poesia che sprigiona dall’ode manzoniana. Ho negli occhi, bella e fresca, l’immagine di questa ragazza che già sente ineffabile la presenza del figlio che sta germogliando nel suo grembo, mentre prende il sentiero della montagna e che, con passo lesto e leggero, va ad offrire il suo aiuto e dire la bella notizia che le canta nel cuore, alla sua anziana cugina bisognosa di aiuto. Com’è poi un’esplosione di beatitudine l’incontro delle future madri di Gesù e di Battista.

Però, tra tanta luce e tanta gioia, da questo dolce mistero emerge anche un insegnamento forte e preciso. Maria non si fa supplicare o tirare per la manica per andare a portare aiuto all’anziana bisognosa ma, pur vivendo il momento soave dell’attesa, spontaneamente lascia i preparativi per la nascita vicina, la casa e lo sposo, per offrire il suo sorriso e le sue mani laboriose e care ad Elisabetta in difficoltà.

Tra tanta soavità emerge un messaggio che qualcuno ha recepito ed attuato in maniera esemplare. Proprio in questi giorni ho letto una serie di servizi su don Oreste Benzi, il prete romagnolo che ha lasciato alla Chiesa e alla nostra gente una testimonianza esemplare di carità da Vangelo. Don Benzi, con la sua tonaca sdrucita e logora e la sua calotta in testa, usciva di notte per cercare e recuperare ad una vita degna le prostitute e nelle sue innumerevoli case-famiglia le porte erano e sono sempre spalancate, per accogliere i “rifiuti dell’umanità”.

Nel volume di don Gallo che sto leggendo, “Come un cane in chiesa”, questo “prete estremo” dei bassifondi del porto di Genova, scrive: “La domenica, dopo la messa, a tavola mi piace invitare e condividere il pasto con i gay, le lesbiche, i transgender, i transessuali: sono loro che hanno bisogno del nostro ascolto e della nostra accoglienza”.

Questi sono i cristiani che han “letto” il Vangelo in maniera seria ed onesta! Questi sono i preti che mi mettono in crisi e che mi fanno arrossire!

La delegazione di Torino

Un paio di settimane fa mi ha telefonato un signore da Torino, il quale mi disse che aveva scoperto in internet la nostra esperienza dei Centri don Vecchi e che desiderava visitare le nostre strutture, informarsi sulle “dottrine”, sui criteri di costruzione, di accoglienza e di gestione con i quali stiamo conducendo avanti l’iniziativa di un nuovo tipo di domiciliarità per gli anziani, soprattutto per quelli di minori possibilità economiche.

L’altro ieri questo signore mi ha ritelefonato dicendomi che sarebbe venuto con due architetti ed un membro del consiglio regionale del Piemonte, che è pure membro del consiglio di amministrazione della fondazione di cui lui stesso è presidente.

Stamattina ho accolto al “don Vecchi” la delegazione piemontese chiedendo che fossero con me due membri della Fondazione Carpinetum, il ragionier Giorgio Franz per quanto riguarda l’aspetto finanziario e il geomentra Andrea Groppo per quello che concerne gli aspetti tecnici. Durante l’incontro venni a sapere che il signore di Torino aveva acquistato un intero piccolo paese in val di Susa, attualmente pressoché disabitato, nel quale sogna di costruire una megastruttura impostata sulla dottrina e sui criteri abitativi che noi stiamo sperimentando.

Confesso che in fondo all’animo si è affacciata l’illusione di essere quasi un innovatore, un padre fondatore di un nuovo mondo per gli anziani, ma questa tentazione si è dissolta presto, consapevole dei limiti della mia senilità.

L’incontro è stato cordiale e quanto mai costruttivo, i piemontesi sono stati ammirati e riconoscenti affermando che avrebbero fatto tesoro della nostra esperienza e chiedendomi consulenza anche per l’avvenire. Noi invece abbiamo capito che il loro dialogo con la Regione Piemonte, la ULSS e il Comune era estremamente collaborativo e che questi enti con cui collaboravano si sentivano riconoscenti per gli apporti del privato sociale e disponibili a finanziare sia la costruzione che la gestione di chi li aiutava a risolvere in maniera nuova, più economica e più rispettosa degli anziani, mentre i nostri referenti locali ci considerano dei noiosi questuanti, o peggio dei “rompiscatole”, piuttosto che dei provvidenziali collaboratori.

A conclusione della visita, mentre facevo il bilancio sull’aspetto positivo che ci riguardava, mi venne in mente l’affermazione di Gesù: «Nessuno è profeta nella propria patria!» I riconoscimenti che finora ci sono pervenuti, fortunatamente molti e calorosi, ci sono giunti da fuori piuttosto che dai nostri “governanti”.