Dove sta il giusto?

Questa mattina è cominciata veramente male. Come al solito alle 7,30, orario di apertura del nostro cimitero, ero pronto per riordinare la “cattedrale” e la vecchia chiesa succursale. Verso le 8,15 ero già in sacrestia a fissare sulla carta qualche riflessione per questo mio appuntamento quotidiano con i miei amici.

Il primo impegno l’avevo alle 9,30 per accompagnare in cielo una mia vecchia parrocchiana. Senonché, mentre rigiravo la biro tra le mani per scegliere l’argomento, entrò dalla porta – che lascio sempre aperta – un giovane vestito dignitosamente e dal volto pulito. Mi chiese un aiuto per pagare la bolletta della luce. Cominciai a tentare di inquadrare la persona e la situazione (chi legge le mie vicende ricorderà come, non più tardi della settimana scorsa sono incappato in uno dei tanti raggiri che i “poveri di professione” sanno imbastire in maniera magistrale).

In breve, questo giovane era di Favaro, la bolletta era di 90 euro: 50 – disse – gliele aveva date il suo parroco, quindi ne rimanevano 40. Gli chiesi come mi aveva scoperto; infatti, in passato, uno dei professionisti della questua mi mostrò una listarella di preti con gli euro che erano soliti dare ai poveri, listarella che aveva comprato da un suo collega più intraprendente di lui: nella lista c’ero anch’io! Gli chiesi come mai alla sua età non lavorava, dato che avrà avuto circa vent’anni. Gli diedi due euro, sempre per via della decisione di dare quello di cui dispongo ad una struttura che, come mi ha insegnato mons. Vecchi, avrebbe continuato a far del bene per almeno altri cent’anni. Mi salutò dicendomi “grazie”. Dopo mezz’ora l’avrei rincorso e gli avrei dato anche il portafoglio!

Neanche dieci minuti dopo, sempre dalla porta aperta, entrò una ragazza, pure lei sui vent’anni, chiedendomi aiuto perché aveva una bambina e il suo compagno l’aveva mollata. Anche lei era di Favaro, però l’avevo vista domenica mattina alla porta della chiesa di Carpenedo ed un po’ più tardi armeggiare con un signore. E poi lei stessa mi ricordò che un giorno le avevo detto che mi facesse telefonare dal suo parroco e, se lui l’avesse fatto, gli avrei mandato un’offerta perché gliela passasse. Don Alfredo mi telefonò. In verità non aveva molti più elementi di quanti non ne avessi io, comunque gli mandai 30 euro. Pure a questa ragazza diedi due euro, ma non provai rimorso perché aveva un fare un po’ malizioso e perché ebbi la sensazione che questuasse per mestiere.

Celebrai male la messa e la coscienza mi tormentò per tutta la giornata. Tentai di rasserenarmi dicendomi che quando a questa gente offri generi alimentari, frutta e verdura e vestiti, normalmente lasciano cadere il discorso. So però, per esperienza diretta, che per vivere ci vogliono anche soldi contanti. A me non costa dare; confesso che mi farebbe lo stesso dare ai questuanti e alla Fondazione per i Centri don Vecchi. Resta il fatto che se avessi fatto la prima scelta più di 500 anziani oggi non avrebbero una casa. Però neanche questo mi dà totalmente pace.

Ebbrezza da libertà

Normalmente si pensa che i poeti siano delle persone campate in aria e che la poesia sia un sogno che sboccia dall’illusione. Io però sono portato a pensare che le cose non stiano proprio così, anzi credo che una lettura in chiave poetica, della realtà, sia il modo più bello e più vero del vivere.

Questa mattina la pagina del Vangelo che ho letto durante l’Eucarestia, è forse la più poetica di tutto il Nuovo Testamento ed è pure la pagina che ci offre una chiave per vivere una vita dove il sogno può diventare felice realtà. Ho letto, con ebbrezza interiore, le parole del Vangelo: “Non preoccupatevi della vostra vita, di quello che mangerete o berrete, né di quello che indosserete: la vita non vale più del cibo e il corpo più del vestito? Guardate gli uccelli del cielo che non seminano, non mietono, non raccolgono nei granai, eppure il Padre vostro li nutre. Non valete voi forse più di loro? E per il vestito perché vi preoccupate? Osservate i gigli del campo: non faticano e non filano, eppure nemmeno Salomone vestiva come loro. Non preoccupatevi, il Padre vostro infatti sa che ne avete bisogno. Cercate anzitutto il Regno di Dio e la sua giustizia e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta”.

Ricordo che due ragazzi che erano venuti da me per scegliere le letture per le loro nozze, scelsero proprio questa pagina del Vangelo. Siccome era la prima volta che mi accadeva, domandai loro: «Come mai una lettura così lontana dalle problematiche del matrimonio?» Mi risposero: «Sogniamo di vivere una vita libera, non condizionata dai miti correnti, vogliamo fidarci solamente di Dio, vogliamo che il nostro amore sia il fulcro e il primo obiettivo del nostro vivere».

Son passati tanti anni, non so se si sia realizzato il loro sogno, però ricordo con gioia e nostalgia i loro volti e la loro scelta. Sono convinto che avessero ragione: a fidarsi di Dio è sempre giusto. Caricarci sulle spalle tutte le difficoltà del vivere finisce per farci soccombere e comunque farci vivere una vita amara e piena di angoscia.

So che il Signore ha ragione, però ho paura – per non dire che ho la certezza – di essere ancora risucchiato da una mentalità sbagliata, ma che sono costretto a respirare da mane a sera. Quanto desidererei fare un salto e liberarmi di questo peso gravoso e per dipiù inutile!

Letta

Sono ben cosciente che sono ingenuo e sprovveduto soprattutto per certi argomenti, e uno di questi è certamente la politica. Qualche giorno fa ho manifestato non solamente la mia nostalgia, ma anche il mio deciso risentimento perché Bersani e la Bindi da un lato, e dall’altro pure alcuni maggiorenti del centrodestra, non sono felici che finalmente i loro parlamentari, sotto la spinta del Presidente della Repubblica, abbiano dato vita ad un governo di “salute pubblica” e di unità nazionale per salvare dal baratro il nostro Paese. A me pare che dovrebbe essere sempre così e che le divergenze e i pareri diversi dovrebbero trovare una seppur faticosa composizione, come d’altronde avviene in ogni famiglia. Sarebbe assurdo e catastrofico se tra genitori e figli non si trovasse un accordo, anche se ci sono comprensibili e inevitabili punti di vista diversi e talora opposti.

Ricordo d’aver letto un tempo che dopo qualsiasi guerra si trova un punto di accordo e allora è folle e dissennato trovare il punto di accordo dopo milioni di morti e non prima se ad un accordo comunque si deve arrivare.

Io sono favorevolissimo al governo Letta, ed auspico anzi sempre un governo del genere, vinca la destra o la sinistra, anche perché sono convinto che i contrasti non dipendono dalle idee, dagli orientamenti o dalle soluzioni diverse, ma purtroppo, e soltanto, dalle poltrone. I problemi che vessano il nostro Paese sono talmente gravi che soltanto il buon Dio li potrebbe risolvere con un tocco della sua bacchetta magica, mentre credo che oggi nessuno abbia tale potere, sia egli di sinistra o di destra; ora poi che sono rimasti solamente i problemi, perché le ideologie sono sempre state fumose e sempre dei comodi paraventi per nascondere le ambizioni più assurde e le cupidigie più vergognose.

Torno a Letta: è un politico che non conoscevo, avevo invece sentito dire che lo zio, anche lui Letta, era la vera eminenza grigia di Berlusconi.

Domenica scorsa, nel pomeriggio, ho conosciuto il presidente Letta a “Mezz’ora”, la rubrica della Annunziata, la giornalista con cui ho un rapporto – lo confesso ancora una volta – di amore-odio: come ammiro la sua preparazione e l’acutezza del suo pensiero, altrettanto rifiuto la faziosità che le sprizza da tutti i pori.

Letta mi è parso una persona estremamente intelligente, preparato soprattutto in economia, prudente, onesto e volitivo, capace di dire quello che vuole e non dire quello che non gli sembra opportuno. Se ha avuto il coraggio di prendersi questa gatta selvatica da pelare, qual’è l’Italia oggi, certo che di coraggio e di amore per il suo Paese ne deve proprio avere!

Confesso poi che venire a sapere che pur militando nel PD, che ha come avo Carlo Marx e come ascendenti prossimi Togliatti, Pajetta, Ingrao & company, me lo rende ancora più simpatico. Spero che questo “cristiano infiltrato”, che poi fortunatamente non è solo, renda un po’ più buoni anche gli altri.

Pietà importata

Qualche tempo fa una parente di un defunto del quale il giorno dopo avrei dovuto celebrare il “commiato cristiano” – che tutti chiamano col nome ambiguo di “funerale” – alla quale avevo telefonato per avere qualche minimo ragguaglio sul defunto che non conoscevo, mi chiese di poter scegliere le letture per la liturgia. Capii immediatamente che si trattava di una aderente al “cammino neocatecumenale”. Scelse in verità uno dei passi quanto mai noti dell’Apocalisse che presenta “il paradiso” un po’ come un “banchetto di succulente vivande”.

Il giorno dopo mi chiese pure che una “sorella” di questo movimento neocatecumenale cantasse all’inizio e al termine della messa. Si presentò una giovane con la chitarra sulla spalla, portata a mo’ di fucile. Era una giovane dal volto bello e pulito, cantò con una voce calda all’inizio e al termine della messa accompagnandosi con la chitarra, due canti di origine spagnola, fortemente ritmati, ma dal tono assai tragico, pur inneggiando alla vita e alla misericordia del Signore, come lo sono tutti i canti del repertorio neocatecumenale.

Tante volte sono intervenuto sul mio particolare rapporto con questo movimento ecclesiale che s’è diffuso in tutto il mondo ed annovera milioni di adepti così disciplinati che paiono fatti a stampo. I neocatecumenali sono buoni cristiani, aderiscono in massa alle iniziative proposte dalla Chiesa, sono poi tra i pochi movimenti che offrono al Popolo di Dio nuovi sacerdoti, dimostrando una pietà intensa, senza tentennamenti, e sono quanto mai obbedienti ai loro catechisti.

Io, pur non aderendo, ho una profonda ammirazione per la loro testimonianza cristiana, ma purtroppo li sento quasi come un corpo estraneo che non riesce ad amalgamarsi con la nostra comunità cristiana. Perfino nei canti ho l’impressione che siano estranei alla sensibilità e allo stile sereno del nostro Paese; sento nel loro modo di credere, quella tragicità tipicamente spagnola che mi rievoca Garcia Lorca con il suo “Alle cinque della sera”. Comunque sono certo che anche per quella strada si possa andar diritti in Paradiso.

Evoluzione positiva

A questo mondo ci sono stati i “Laudatores cantores temporis acti”, cioè chi loda, rimpiange il passato ed auspica che ritorni. Credo che anche i romani abbiano notato e certamente non approvato questo comportamento.

Il mondo religioso in specie, credo che sappia di questa sindrome del rimpianto della religiosità dei vecchi tempi. Ricordo un bellissimo passo di don Mazzolari che afferma che Dio non si incontra più neppure nelle bellissime cattedrali gotiche, nella religiosità di secoli passati in cui sembrava che tutto il popolo, nessuno escluso, fosse credente.

Ricordo di aver letto gli atti di una visita pastorale del cardinal Flangini nelle parrocchie veneziane; a parte che sembrava che al vescovo interessasse esclusivamente il numero di tovaglie e di che tessuto fossero, in ogni parrocchia i parroci riferivano che chi non faceva la Pasqua erano 10 o 14 cristiani. Comunque, tornando a Mazzolari, nel passo suddetto affermava che gli uomini possono incontrare Dio e suo figlio Gesù solamente nel futuro, nel mondo che si sta facendo.

Oggi i cristiani convinti, quelli solamente battezzati o comunque anche gli uomini di cultura cristiana, sono di certo sostanzialmente più religiosi di quelli dei secoli nei quali sembrava che il cristianesimo si imponesse in tutti gli ambiti.

RIcordo un episodio che la dice lunga al riguardo. Un uomo dice al suo nemico: «Bestemmia, altrimenti ti uccido». Una volta che costui cede alla violenza, lo uccide, pensando così di non avergli tolto soltanto la vita terrena, ma di averlo anche privato della vita eterna. Che cristianesimo è mai questo?

L’uomo di oggi, credente o meno, ha assimilato certi valori che sono essenzialmente cristiani, quali il senso della dignità, della libertà, della democrazia, della giustizia, della parità tra uomo e donna, della solidarietà e tanti altri valori che nel cosiddetto “popolo di Dio” descritto nella Bibbia sono assolutamente ignorati, ma anche nei tempi della cristianità erano meno presenti sia nei singoli che nella coscienza collettiva.

Certi preti, certi cristiani, cosiddetti “impegnati”, non hanno ancora capito che l’avvento del Regno non si realizza quando le messe sono più frequentate o più cittadini fanno la Pasqua, ma quando per motivi di fede, ma pure per qualsiasi altro motivo, altri – perfino gli indifferenti, gli agnostici o gli atei – aderiscono e praticano nella sostanza la proposta del Vangelo.

Per un prete è certamente confortevole vedere la chiesa piena, però se chi riempie la chiesa non è alla ricerca consapevole o inconscia del Regno, questo varrebbe veramente poco. Forse è tempo di cominciare a leggere in maniera più critica la risposta che l’uomo oggi deve dare a Dio.

La fede degli umili

Ho conosciuto un cappuccino, padre Fiorenzo Cuman da Marostica che si è impegnato per molto tempo a catalogare i capitelli di tutta la pedemontana, della Marca trevigiana e del veneziano. Questo padre ha avuto la gentilezza di regalarmi uno dei suoi 27 volumi scritti su questo argomento, volume nel quale ha pubblicato la foto, le dimensioni e un po’ di storia di ognuna di queste piccole strutture sacre costruite normalmente da qualche abitante del luogo e dedicate alla Vergine o alla devozione di qualche santo particolare.

La raccolta che mi è stata regalata porta il titolo “La fede degli umili” e riguarda i capitelli di Bassano e dei dintorni. Essa risulta estremamente varia per quanto riguarda la struttura che fa da cornice e da supporto all’immagine sacra..

Alcuni di questi tempietti o di queste edicole agresti sono estremamente elementari, altri invece sono più elaborati, tanto da meritare la denominazione di “piccolo tempio”. Qualcuno pare sia stata progettato da un geometra o da un architetto, altri invece sono tali da non portare i segni di qualcuno che avesse dimestichezza con l’architettura.

Sempre queste edicole sono segno di una pietà popolare che fino a pochi anni fa era estremamente diffusa non solamente tra i campi e nei paesetti della pedemontana, ma anche nelle calli della stessa Venezia. Queste edicole sacre non solamente sono il segno della fede umile dei nostri padri, ma credo che siano rimaste tuttora un piccolo santo segno che nei luoghi più disparati ci ricorda che la nostra vita dipende da Dio e che deve diventare una lode perenne ed un canto di riconoscenza.

Ho scorso il volume con attenzione e non c’è quasi immagine sacra inquadrata in queste piccole edicole che non abbia un vaso di fiori freschi.

Partendo da questa esperienza particolare una quindicina di anni fa posi all’imbocco delle strade della mia vecchia parrocchia una miniedicola di legno con una Madonnina in cotto, non solo perché vegliasse e proteggesse gli abitanti di quella strada, ma perché gli abitanti di ogni strada, entrando e uscendo di casa rivolgessero un saluto ed una invocazione alla Vergine: “Ave Maria”. Quando ho occasione di passare per queste strade, constato che molte sono ancora presenti e ben curate.

Il grande teologo Romano Guardini ha scritto un magnifico volumetto che dimostra che anche l’uomo di oggi ha ancora bisogno di questi piccoli “santi segni” per sentire che il buon Dio gli è vicino, l’accompagna e gli vuol bene.

I delitti sono sempre delitti

Dico sinceramente che quando Berlusconi ogni tanto tira fuori dal suo cilindro lo spauracchio del comunismo, provo una qualche irritazione. Quello del comunismo è stata una fase storica come la rivoluzione francese che proponeva dei valori grandi e positivi, ma chi si è appropriato di questa proposta è stato spessissimo spietato e crudele e sprezzante della libertà e della vita altrui. Punto e basta!

Ci sono dei criminali tout court e altri criminali che agiscono dietro il paravento di valori politico-sociali: per il comunismo è avvenuto così….. Il nostro tempo certamente fruisce dei benefici di questi fenomeni sociali.

Credo che la nostra democrazia non sarebbe qual è, se queste grandi utopie non avessero rotto, purtroppo violentemente, le società e i regimi anteriori, che senza questi enormi scossoni non si sarebbero mai sgretolati.

Posso ammettere che ci siano ancora dei velleitari e dei ritardatari della storia…, ma questo avviene per ogni fenomeno storico e certamente per loro la storia non devia il suo corso. Ora non esiste più il comunismo reale, ossia come movimento di massa strutturato ed operante, al massimo ci sono delle “rimanenze” che si ispirano a quelle utopie, ma sempre sono rimasugli storici di sognatori e di nostalgici, ma sono fuori tempo e perciò non possono sopravvivere.

Detto questo, a scanso di equivoci, dobbiamo anche affermare che il comunismo di Trotzki, Lenin e soprattutto Stalin è stato un fenomeno di inaudita ferocia, portato avanti da visionari pazzi e sanguinari.

Ho letto recentemente su “Avvenire” le atrocità assurde operate da Stalin, atrocità inconcepibili che fanno ancora rabbrividire per i milioni di persone che ne sono state vittime sacrificali. La storia è storia anche se certi partiti nostrani, spesso correi, hanno tentato di coprire con foglie di fico queste atrocità assurde.

Mi disturba chi coniuga al presente quello che invece è passato ma altrettanto mi disturba e mi fa ribrezzo chi tenta di giustificare i protagonisti di chi si è avvalso di queste aspirazioni popolari per sfogare i suoi istinti brutali.

Ringraziamo il buon Dio di averci pressochè risparmiato i crimini del comunismo, del nazismo, del fascismo, del franchismo e di tutte le altre dittature del nostro tempo.

La “serrata” delle chiese

Ormai da più di un anno a questa parte sulla stampa cattolica non sento che enfatizzare il problema degli ipermercati che, nonostante le proteste delle commesse, dei sindacati e dei preti, rimangono aperti anche alla domenica, giorno sacro al riposo e al Signore, mentre queste catene di ipermercati, sempre a caccia di clienti, insistono nel tener aperto anche alla domenica.

Non sono proprio io a difendere le posizioni degli ipermercati anche se, per onestà, debbo ammettere che tantissime altre categorie di dipendenti dall’epoca dell’industrializzazione lavorano con buona pace di tutti, giorno e notte e tutti i santi giorni dell’anno. Comunque onestamente credo che potremmo vivere e le botteghe potrebbero prosperare nonostante la chiusura domenicale: chi ha soldi per comperare lo farebbe comunque.

Quello che invece mi stupisce è che, mentre c’è questo zelo da parte delle industrie per accaparrarsi qualche cliente in più, nessuno protesta per la “serrata” quasi completa delle chiese della nostra città durante i giorni feriali e parziale in quelli festivi. Pare che i preti siano ben paghi di quel 10, 20 per cento di battezzati che vanno a messa la domenica.

A Venezia dicono che hanno il problema delle opere d’arte che rimarrebbero incustodite, però a Mestre questo problema non c’è perché non ci sono opere d’arte; ci sarà forse qualche cassetta dei lumini o delle candele, ma non ci sono “tesori” da rubare.

A parte gli scherzi, il fatto delle chiese chiuse mi preoccupa, ma ancora di più mi preoccupa che nessuno protesti perché si chiude dietro i catenacci quel Gesù che solo può confortare nei momenti di tristezza e di prova. Non vorrei essere accusato ancora una volta di autoreferenzialità affermando che a Carpenedo la chiesa, quando c’ero io, era aperta dalle sette del mattino alle sette di sera ed ora la stessa cosa vale per la mia “cattedrale tra i cipressi”, senza problemi di sorta.

Un “sacrilegio” senza reazioni di sorta

Qualche giorno fa ho letto su “Gente Veneta”, il settimanale del patriarcato di Venezia, un servizio intelligente, puntuale e, perché no?, tragico su quanto va buttato dagli ipermercati, dalle botteghe, dai ristoranti e dai centri cottura e distribuzione alimentare della nostra città.

Siccome sono particolarmente sensibile a questo problema che spesso è denunciato dalla stampa cattolica, ogni volta che vedo un titolo su questo argomento leggo con avidità l’articolo e provo rabbia. Questa volta la reazione è stata ancora più forte perché lo spreco denunciato non avviene in America, ma proprio a casa nostra.

Io credo d’aver fatto quanto era nelle mie possibilità per ottenere quello che avviene in tante altre città, però confesso di sentirmi sconfitto; tanto che mi sono ormai arreso senza condizioni.

Su questo argomento la storia è stata lunga e quanto mai tormentata. Sto mendicando un aiuto dall’assessore della sicurezza sociale del Comune di Venezia almeno da quindici, venti anni, da quando ho aperto la “bottega solidale” per la distribuzione dei generi alimentari per i poveri. Avendo letto poi quanto si è fatto a Bologna prima, ma poi a Milano, Verona, Vicenza, non c’è stato amministrazione comunale di Venezia che si sia succeduta in questo tempo a cui non abbia bussato la porta, perché il problema rimane sempre quello: le catene della distribuzione sono disponibili a concedere i viveri in scadenza solamente a patto che il Comune sia disponibile ad abbattere, almeno per un po’, la tassazione sui rifiuti.

Le società, per organizzare lo smaltimento dei generi in scadenza, devono sopportare un costo e, secondo la logica ferrea delle leggi di mercato, non sono disposte a sopportarlo se non lo recuperano con lo smaltimento dei rifiuti.

Con l’assessore Giuseppe Bortolussi pareva che questo processo si stesse avviando, senonché con l’assessore che gli è succeduto, il dottor Sandro Simionato, tutto s’è bloccato nonostante le mie suppliche. E si che costui è del PD, partito che a differenza del reazionario Berlusconi, afferma di essere aperto socialmente!

A questa insensibilità comunale si aggiunge quella della Caritas diocesana che dovrebbe essere l’organo che promuove la solidarietà nella Chiesa veneziana e che dovrebbe muoversi in questo settore come il rappresentante del Patriarca il quale, nella Chiesa, si dice sia il presidente della carità, ma che su questo fronte pare che essa sia assolutamente assente!

Al “don Vecchi” si aiutano quasi 3000 persone la settimana, però se ci fosse una qualche collaborazione da parte del Comune e della curia, potremmo fare cento volte di più.

Pierluigi mi ha deluso

Da sempre cerco di avere un rapporto umano con le persone che incontro, sia che le incontri personalmente, sia che “l’incontro” avvenga a mezzo stampa o televisione. Mi pare disumano e mortificante il formarsi di un “casellario” personale in cui collocare ogni individuo col quale si viene a conoscenza, inscrivendolo secondo il criterio della sua funzione sociale, dell’estrazione culturale o della scelta religiosa. Mi piace incontrare le persone nella loro calda umanità.

Faccio questa premessa facendo riferimento ad una mia “confidenza pubblica” di qualche tempo fa, quando scrissi che mi era spiaciuto che a Bersani fosse scoppiato in mano il sogno di diventare capo del governo – quando ne aveva avuto finalmente la tanto desiderata occasione – a causa del suo rifiuto radicale di accettare il “nemico” Berlusconi e mi era spiaciuto il suo umiliante tentativo di mendicare la collaborazione di Grillo, ricevendone invece un calcio in bocca.

Con Bersani non ho mai avuto motivi di amicizia, ma ultimamente mi era sembrato un brav’uomo e m’è spiaciuta la sua delusione e la sua sconfitta dopo che da una vita lottava per diventare presidente del consiglio. Però in questi giorni ho paura di dovermi ricredere per un motivo che non so quanti possano condividere, ma per uno come me che va al sodo e sogna il bene della nostra gente, è difficile proprio da capire e da accettare.

Vengo ai fatti: Letta, su spinta di Napolitano e soprattutto per il dramma tragico in cui vive l’Italia, è riuscito a mettere insieme centrodestra e centrosinistra. Pare che, tutto sommato, riesca a far convivere questi partiti che, alla fin fine, sono nati dalla stessa madre patria e sono della stessa famiglia. In Italia non so chi abbia inventato o che cosa abbia causato la formula nefasta che governo e opposizione debbano sempre litigare e scontrarsi, o meglio lo so bene: l’ambizione, l’egoismo, le poltrone, le carriere, il partito.

Ora non dovrebbe essere una situazione mal sopportata che finalmente dei “fratelli” della stessa famiglia facciano la pace e lavorino assieme. Dovrebbe essere sempre così. Signor no! Pierluigi intravede che potrebbe cacciare Berlusconi e i suoi col favorire una congiura di palazzo trescando con alcuni elementi di Grillo ed arrischia di creare una nuova crisi nella speranza di poter cavalcare questa nuova opportunità.

Caro Pierluigi, mi hai deluso! Ti avevo promesso un’Avemaria perché trovassi un po’ di pace, non ritiro la promessa, però sappi che per quella strada non si va da nessuna parte.

Contropelo

Nella Chiesa le proposte si susseguono con ritmi assai sostenuti. Specie quelli che sono gli “addetti ai lavori”, specialisti in teologia, in esegetica o semplicemente in pedagogia, elaborano piani, progetti ed iniziative di carattere pastorale a getto continuo. Io però ho spesso la sensazione che essi assomiglino ad un locomotore ultimo modello, elefante assai veloce che sfreccia sempre più rapido. Il guaio però è che mi sembra che i vagoni dei viaggiatori, come pure i carri merce – non so per quale motivo – si siano sganciati e rimangano fermi sulle rotaie, anzi rischino di retrocedere per forza d’inerzia.

Stiamo terminando “l’anno della fede”, ora non so quale altro aspetto del vivere cristiano sarà proposto al popolo di Dio, ma il grosso della Chiesa, nonostante le sottigliezze degli esperti e i loro artifici, rimane fermo, anzi talvolta ho l’impressione che retroceda constatando fatti concreti che sono sotto gli occhi di tutti: più della metà dei giovani non si sposano più in chiesa, i confessionali fanno le ragnatele, i bimbi non battezzati sono sempre più numerosi; per non parlare dei separati, dei divorziati, della morale per i fidanzati, gli sposati, che corre su un binario proprio, non certo quello proposto dalla catechesi. La partecipazione alla messa festiva non arriva al venti per cento dei battezzati ed altro ancora.

Nelle inchieste fatte fare dai giornali si viene a sapere che anche nel nostro Veneto, che è considerato la Vandea d’Italia, si fa sempre più strada una “religione fai da te”…., dove ognuno si costruisce dei principi, la morale che più gli aggrada. La religione ufficiale rimane ferma e immobile, mentre la religiosità del popolo sta orientandosi per conto proprio, accettando ancora, in maniera formale, i riti cristiani, vivendo come ad ognuno aggrada, orientandosi a vista, senza ribellioni e ammutinamenti di sorta, senza crisi interiori; comunque il divergere è sotto gli occhi di tutti. Non ci sono scismi o eresie, però si ha l’impressione che ormai siano sempre meno i fedeli che seguono “gli ufficiali”.

Già dissi in passato che secondo me bisognerebbe ripensare il tutto, proporre la sostanza con nuove modalità, anche perché il modo di vivere la fede oggi mi pare ben diverso da quello dei tempi delle prime comunità cristiane che avevano una religiosità ben più essenziale e meno sofisticata.

Io che non ho di certo le qualità del riformatore, per ora mi limito ad auspicare e pregare per chi potrebbe salvare l’essenziale e buttare a mare “la zavorra”.

“Come un cane in chiesa”

Ho terminato di leggere in questi giorni l’ultimo volume di don Andrea Gallo, il prete dei bassifondi di Genova morto solamente un paio di mesi fa.

A cominciare dal titolo “Come un cane in chiesa”, per continuare con la scelta di alcune pagine del Vangelo che don Gallo commenta ed attualizza, s’avverte immediatamente la volontà di questo prete di vivere l’autentica e genuina “rivoluzione” portata da Gesù e la libertà che questo sacerdote si ritaglia per dare credibilità al suo impegno di occuparsi degli ultimi: drogati, prostitute, transessuali, “rifiuti” della nostra società e della nostra Chiesa spesso perbenista.

Don Gallo, senza tante perifrasi e con poco garbo, afferma che i veri “poveri” del nostro mondo nelle nostre parrocchie hanno la stessa considerazione e lo stesso trattamento che noi usiamo verso i cani, quando per caso entrano in chiesa. A leggere poi tra le righe, ho avuto la sensazione che pure don Gallo si sia sentito riservare lo stesso trattamento, lui che aveva abbracciato senza riserve questi “rifiuti umani”.

Don Gallo sceglie lucidamente le pagine più innovative e più “rivoluzionarie” del Vangelo di Gesù e le commenta senza usare circonlocuzioni diplomatiche per dire quello che pensa, tanto che spesso, per i suoi commenti, usa parole pesanti come pietre, facendo si che il lettore senta mordere sulla carne viva il discorso e la proposta del Vangelo.

Il volume è uscito nel 2012, quindi può essere considerato il “testamento spirituale” di questo prete che oltre ad amare e servire i poveri, ha sempre tentato di ascoltare i margini di verità e di Vangelo che sono presenti anche negli intellettuali e negli uomini della fronda. Come vorrei poter fare anch’io un testamento del genere e come sognerei che tra le decine di migliaia di preti operanti nel nostro Paese ci fossero tanti don Gallo in più!

Si bella e perduta!

In quest’ultimo tempo sto seguendo con interesse crescente le vicende dell’erigendo Comune metropolitano. Il fatto che a Treviso e a Padova siano stati eletti due sindaci del PD, mi dà l’impressione che faciliti l’intesa con queste realtà tanto vicine ma tanto diverse. Ho l’impressione che le due città industriose, ben organizzate ed efficienti, si avviino verso un “matrimonio” con questa nobildonna della laguna tutta trine, merletti e profumi, tronfia della sua antica floridezza, ma ormai flaccida, pretenziosa e seduta su se stessa mentre si avvia verso una rapida e triste vecchiaia. Tanto che, pur essendo “cittadino veneziano” per diritto acquisito, mi vien da pensare “povera Padova! Povera Treviso! Non sapete proprio chi vi accingete a portarvi a casa! Venezia, nobile si, ma senza quattrini e senza senno!”.

Questi pensieri mi nascono leggendo ogni giorno qualche intervento sul Gazzettino su due realtà che potrebbero dare un po’ di ossigeno a questa città che ormai cade a pezzi da un punto di vista organizzativo, edilizio ed economico.

Nonostante i tanti proventi da quel mercimonio che è il casinò, Venezia ha un bilancio rattoppato che non so come la Corte dei Conti lasci passare. Il primo motivo di preoccupazione è che un giorno fa un passo avanti e il giorno dopo due indietro come i gamberi perché il comitato di nobildonne, il club dei perditempo, quello dei romantici e quell’altro dei dissennati si oppongono perché per loro Venezia deve vivere di paesaggi e di terre perse e non vogliono il grattacielo di Cardin, i suoi seimila posti di lavoro e quant’altro!

Il secondo è quello delle grandi navi. Pare che ai veneziani schifiltosi e pieni di sussiego non piacciano i dollari e i rubli o le pesetas che questi grattacieli del mare versano a cascata nei ristoranti, nelle botteghe e quant’altro di Venezia. Loro vogliono dormire in pace e che lo Stato e il contado li mantenga, perché loro rappresentano il patriziato e non vogliono che le navi intralcino le gondole in bacino San Marco.

L’amministrazione poi pare che abbia delegato quel fior fiore di giovani dei centri sociali a far capire che Venezia non gradisce il denaro dei capitalisti americani, cinesi, indiani o brasiliani e probabilmente finanzia sottobanco il loro arrembaggio.

Mestre purtroppo è legata a filo doppio a questo carrozzone, ma Padova e Treviso non so proprio perché si avviino a queste nozze che si preannunciano, ancor prima della celebrazione, così fallimentari. Sono disperato e col poeta non mi resta che dire: «Mia cara Venezia, si bella e perduta!».

“L’adescatrice”

Qualche domenica fa il ciclo triennale della liturgia prevedeva la presentazione della pagina di san Luca che descrive il perdono di Gesù a Maria di Magdala, avvenuto durante un pranzo nella casa di un certo fariseo di nome Simone.

La lettura di questo brano, che inquadra la conversione di quella splendida figura che è la Maddalena, del modo con cui “si confessa”, chiede perdono ed è “assolta” da Gesù, mi ha sempre coinvolto e profondamente impressionato. La conversione a vita nuova e migliore di una creatura, è sempre un fatto meraviglioso che conforta, apre il cuore alla speranza e sprona a fare altrettanto per recuperare quella pulizia interiore che rimane per tutti un sogno ed una speranza di redenzione.

La riflessione su questa pagina del Vangelo ha ridestato nel mio animo un ricordo particolare legato a questo episodio. Tra i tanti amici che contavo un tempo tra gli artisti, c’era pure un pittore di talento, il triestino Roberto Joos, che faceva il giornalista al Gazzettino, ma che amava la tavolozza ben più delle pagine del nostro quotidiano. Joos mi propose di dipingere un quadro per la chiesa; al mio assenso mi chiese che personaggio o che “mistero” del Vangelo desiderassi che dipingesse. Sapendo che un artista riesce meglio quando affronta un tema che “sente”, lasciai a lui la scelta. Roberto scelse “La Maddalena” e la dipinse nell’atto in cui lascia il suo vecchio mondo sporco e guasto e, con uno sforzo quasi disperato, si aggrappa alle ginocchia di Gesù, quasi ad uno scoglio di salvezza.

La Maddalena di Carpenedo ha ancora addosso gli abiti del suo “mestiere”. Il quadro di Joos è veramente un bel quadro intenso e ricco di messaggio. Però, dopo che l’appesi alla parete, venne da me un vecchio superpraticante che mi chiese: «Che cosa, parroco, ha appeso alla parete della chiesa?». Gli risposi, un po’ compiaciuto: «Santa Maria Maddalena!». «Macché santa, quella è un’adescatrice che può rovinare la gioventù che viene in chiesa!».

Approfittai di questo ricordo per affermare con convinzione nell’omelia che il perbenismo dei farisei, che praticano formalmente tutte le novene e le tredicine, ma non sanno che cosa sia compassione, fiducia e possibilità di redenzione, non è per nulla scomparso dopo due millenni di storia cristiana.

M’è parso, alla fine della predica, che una gran parte dei fedeli, pensando ai fatti della loro vita, abbiano tirato un sospiro di sollievo e spero che siano meno perentori nel pronunciare condanne inappellabili.

Sant’Antonio a Ca’ Solaro

Io finisco sempre per innamorarmi delle cose che faccio. L’ultimo “amore” è il borgo di Ca’ Solaro. Il fatto che una piccola comunità immersa nel verde della nostra campagna non si sia rassegnata a vivere senza prete e senza momenti religiosi comunitari, è qualcosa che mi tocca profondamente.

Io mi reco a Ca’ Solaro una volta al mese, il primo venerdì. Di questo piccolo borgo mi piace un po’ tutto: la chiesetta pulita e ordinata, il signor Papa che funge da “diacono” e da punto di riferimento per le funzioni religiose, i fiori colti nel campo che trovo freschi sull’altare per la messa, le tovaglie bianche e lavate da poco, le signore che leggono i passi della sacra scrittura e cantano come se tutto il mondo le stesse ad ascoltare, e la piccola comunità di una trentina di persone – donne, anziani e qualche giovane – che ogni mese si presenta puntualmente senza bisogno che suoni la campana, visto che ora è a riposo perché si è rotto il castelletto. E poi mi piace quel clima familiare e discreto che incontro ogni volta, che mi offre un senso di intimità e di famiglia.

Il giorno di Sant’Antonio poi c’è stato quasi un pontificale: ha celebrato il parroco, don Michele, ed io ho fatto da assistente. Il coro, formato da elementi di San Pietro Orseolo, di Favaro e di Ca’ Solaro, ha animato la messa, la chiesa si è riempita come non mai di parrocchiani di Ca’ Solaro e di oriundi.

Dopo la messa il rinfresco sul sagrato con dolci fatti dalle donne del paese e vini dei vigneti di questa campagna fertile e generosa. Ho ritrovato finalmente il clima dei tempi andati, quando il mio vecchio parroco mi portava come chierichetto nelle frazioni del mio paese natio per la celebrazione della santa messa.

Le parrocchie della città, almeno quelle che io conosco e frequento, sono belle, efficienti ed animate, ma a Ca’ Solaro trovo qualcosa di più caro; sembra proprio una comunità al naturale per la cordialità, il clima affettuoso e semplice, una religiosità elementare e genuina, senza fronzoli e sofisticazioni. Ringrazio ogni volta il buon Dio che mi riporta alle esperienze lontane che hanno maturato la mia fede e la mia vocazione.