Santanché e l’Annunziata

Tento di non perder mai la rubrica di Rai tre “Mezz’ora”, condotta dalla quanto mai nota giornalista televisiva Annunziata.

Questa donna, sobria nel vestire, lucida nel suo argomentare, preparata ed attenta alla vita sociale e politica del nostro Paese, intervista ogni settimana personalità di spicco, con un’arguzia e con grande capacità di far emergere il pensiero del suo interlocutore. Il suo difetto maggiore è la faziosità: è una donna decisamente di sinistra, anche se oggi la sinistra è costituita da un arcipelago di isolotti tanto difformi tra loro, per cui è ben difficile capire di quale sinistra possa essere una persona, anche se schierata pubblicamente.

Ho notato che quando il personaggio è di spessore e soprattutto è una persona integra, autorevole e competente, c’è in questa giornalista un atteggiamento rispettoso, mentre se l’intervistato non è molto consistente, allora lei lo straccia letteralmente.

Oggi ero particolarmente curioso perché l’intervistata era la Santanché, la passionaria del cavaliere dello schieramento decisamente opposto a quello della giornalista. M’aspettavo, con curiosità, una specie di “baruffe chiozzotte”.

Fin fa subito notai “la proletaria” col suo abito scuro e abbastanza dimesso, mentre l’altra aveva dei pendagli abbondanti alle orecchie, un volto appena uscito dall’estetista e dei capelli pettinati di fresco dalla parrucchiera. Il dialogo si accese immediatamente su Berlusconi, di cui la Santanché parlava come del suo leader carismatico e l’Annunziata come dell’inquisito. Notai però che ognuna s’era riproposta di non arrivare alla rissa; non sarebbe convenuto a nessuna delle due arrivare allo scontro aperto, sarebbe stato uno spettacolo deludente il vedere le due donne “prendersi per i capelli!”.

D’istinto avvertivo di parteggiare per l’Annunziata; l’altra la sentivo sofisticata e fanatica. Debbo però confessare che se anche i colpi di fioretto di ambedue tentavano sempre di arrivare al bersaglio grosso, la Santanché non solo si difendeva bene, ma più volte ha messo all’angolo la rivale con stoccate quanto mai efficaci.

Se fossi stato l’arbitro, avrei dato alla Santanché la vittoria ai punti. Poi conclusi che l’una e l’altra, se si impegnassero per cause più nobili, avrebbero tutto da guadagnare e il nostro Paese pure, perché l’Annunziata si batte in maniera nostalgica per un’utopia fallita, e l’altra per un donnaiolo fanfarone e pieno di sé.

31.06.2013

Un testimone della porta accanto

Sabato mattina mi hanno informato della morte improvvisa per infarto di Giorgio De Rossi, un fedele di Carpenedo che ho incontrato, fin dal mio primo arrivo in parrocchia nel ’71. Ieri sono stato da Giovanna, la moglie di Giorgio, e questa mattina ho concelebrato il commiato nella chiesa di San Pietro Orseolo, la sua parrocchia “geografica”.

Durante i 35 anni in cui sono stato parroco ai Santi Gervasio e Protasio, egli frequentava la nostra vecchia chiesa ed era totalmente impegnato nella nostra comunità. Questa mattina, nei vari interventi durante le esequie, ho capito che negli ultimi anni partecipava alla preghiera comunitaria nella sua parrocchia di San Pietro Orseolo, senza però aver abbandonato il suo impegno nella “chiesa nativa”.

Tante persone sono intervenute durante il funerale ed hanno messo a fuoco la sua personalità schiva, riservata ed estremamente coerente ed operativa. Giorgio ha onorato il Signore soprattutto col suo servizio di tecnico preparato, tenace ed operoso, e ha messo a disposizione della collettività e dei suoi singoli membri non solamente la sua professionalità, ma anche la sua disponibilità a compiere i lavori più umili.

Pensavo che la comunità dovrebbe “erigere un monumento” a quest’uomo che s’è sempre prodigato per le cause in cui s’imbatteva, spendendosi tutto e senza risparmio, ma poi ho concluso che c’è già più di un monumento che lo ricorderà agli uomini di oggi e di domani.

Giorgio ha progettato e portato a compimento la “Malga dei Faggi”, la vecchia e sgangherata casera di Gosaldo, facendone la più bella casa di montagna per le vacanze dei ragazzi che oggi esista in diocesi di Venezia. “La malga”, nata dal cuore di questo geometra, è un “rifugio alpino” che ha fatto sognare generazioni di ragazzi e di giovani.

Giorgio ha pure progettato il restauro del “Piavento”, la villetta per anziane che è stato “il seme” che ha fatto germogliare poi i Centri don Vecchi. Nessuno mai saprà con quale passione abbiamo difeso con i denti questa piccola Fondazione che un prete di Carpenedo ha donato alla parrocchia fin dal 1400 e che lo Stato voleva inglobare.

Giorgio poi, a livello civile, s’è impegnato per un’intera vita a favore della Società dei 300 campi, un’istituzione di solidarietà giunta a noi dall’anno mille. Il tempo stende un velo di oblio su ogni cosa, comunque queste realtà per le quali questo fratello s’è speso, faranno si che egli potrà continuare a far del bene ai membri della nostra comunità anche dopo la sua morte fisica. Questo non è proprio poco agli occhi del Padre e dei fratelli.

25.06.2013

La rivoluzione di Papa Francesco

Non conosco cristiano impegnato o vescovo che prima o poi non abbia parlato di una Chiesa povera per i poveri: concetto che quella bell’anima di don Tonino Bello, il compianto vescovo di Molfetta, ha tradotto in quella bellissima immagine: “La Chiesa in grembiule”.

Le prediche sono facili però, al di fuori di alcuni testimoni, che da vivi sono stati giudicati un po’ folli – vedi don Benzi o semplicemente don Gallo – non mi è mai parso che la “Chiesa reale”, nel suo complesso, abbia preso seriamente questa direzione. I preti hanno canoniche che, rispetto ai luoghi ove esse sono collocate, sono confortevoli, corrono in automobili spesso costose e i vescovi dimorano nei loro palazzi e celebrano sontuosi pontificali nelle loro cattedrali.

Ci sono pure, per fortuna, anche dei missionari alla Alex Zanotelli che condividono la sorte dei cenciaioli che vivono rovistando nelle discariche delle metropoli del mondo dei consumi, ma sono veramente delle mosche bianche. La Chiesa, dall’alto al basso, purtroppo non è così, tanto che perfino io, per un pizzico di coerenza, ho scelto di condividere la sorte degli anziani poveri, col mio più che confortevole minialloggio al “don Vecchi”. Non ho preteso dalla Curia un congruo appartamento, come tanti altri miei colleghi , comunque la mia dimora è più che accogliente. Però, nonostante questa buona sistemazione, talvolta mi sorprendo a pensare di essere un prete credibile e coerente per tanto poco!

La Divina Provvidenza, fortunatamente, ci ha mandato un Papa scovato “alla fine del mondo”, un Papa che da vescovo frequentava assiduamente le bidonville, un Papa che ci sta mettendo tutti in crisi, dal primo all’ultimo, con la sua croce di ferro, con le sue scarpe da discount, la sua semplice tonaca bianca, il suo alloggio nella periferia del Vaticano, col suo linguaggio povero e le sue immagini da Vangelo. Un Papa che ha messo il naso nella banca vaticana e che vuol far subito pulizia.

Ora il Papa fra qualche giorno andrà a Lampedusa, l’isola estrema d’Italia dove stanno arrivando su barconi di fortuna i più disperati dei disperati del mondo. Questa scelta di certo non è occasionale ma, una volta ancora, vuol dire a noi cristiani che il Cristo vero va cercato, amato e servito nei più poveri.

26.06.2013

Un posto nella storia patria

Facendo per moltissimi anni l’assistente degli scout, ho assimilato una massima del fondatore dello scoutismo il quale insegna ai suoi ragazzi: “Vivete la vita come un bel gioco!”. Il lord inglese aveva ragione: pigliando la vita da questo verso, essa diventa davvero divertente.

Vengo al motivo di questa premessa. Un paio di settimane fa ho ricevuto una lettera intestata “Ministero per i beni e le attività culturali – Biblioteca Nazionale Marciana” – con sopra lo “stellone” d’Italia – con cui la dottoressa Maria Michieli mi chiedeva di inviare “L’Incontro” alla Biblioteca Marciana perché potesse essere inserito nella sezione “Periodici”. La dottoressa continuava affermando che la biblioteca è frequentata da tantissimi studiosi di cose patrie.

Stando a quello che io reputavo pressoché un gioco o uno scherzo di qualche birbone che si divertisse a prendermi in giro, inviai “L’Incontro” a quell’indirizzo, accompagnando la copia con una lettera in cui affermavo che ero ben conscio dell’umiltà del nostro periodico, una piccola rivista che, sì, va a ruba in città, ma che non ha alcuna pretesa a nessun livello. Senonché questa mattina, tornando dalla messa in cimitero, ho trovato una seconda lettera, manoscritta, proveniente dalla Marciana, di questo tenore, lettera che trascrivo letteralmente:

Gentile don Trevisiol,
La ringrazio della Sua sollecita risposta e dell’invio del giornale.
Sarà cosa molto gradita poter ricevere la raccolta rilegata de “L’Incontro”: lo scopo principale di questa biblioteca è, oltre ad aiutare gli studiosi nelle loro ricerche, raccogliere e conservare testimonianze per i posteri. Ed è spesso nelle cose modeste e umili che gli storici trovano notizie ricche e significative per i loro studi.
Mi farà molto piacere, quando Le sarà possibile, venire a conoscerLa di persona e visitare il Centro don Vecchi.
La ringrazio ancora e saluto cordialmente.
Maria Michieli

La cosa sta divertendomi alquanto, da un lato perché mi è venuto da pensare: “Vuoi vedere che mi capita di venir ad occupare un posticino nella cultura del nostro Paese?”, e dall’altro lato perché il “ragazzino” che è rimasto in fondo ai miei 84 anni mi spingerà di certo a pubblicare, prima o poi – ma forse prima che poi – un talloncino di questo tenore: “Avvertiamo i lettori che desiderano leggere qualche numero pregresso de “L’Incontro” di rivolgersi alla Biblioteca Marciana ove, nella sezione `periodici’, si può trovare tutta la raccolta de “L’Incontro”, in volumi annuali rilegati in tela verde, a partire dal 2005 fino ad oggi”.

Non ho fatto tanta carriera ecclesiastica, comunque mi sono conquistato un posto nella storia!

26.06.2013

Un dono inestimabile

Qualche giorno fa don Gianni, il giovane presidente della Fondazione Carpinetum, ha invitato i membri del consiglio di amministrazione e me – nominato, per affetto, direttore generale – ad una cena di lavoro presso la canonica in parrocchia di Carpenedo. Avevamo sul tappeto mille cose da decidere e, tutti, poco tempo da mettere a disposizione per queste cose seppur importanti, e don Gianni, solo in questa grande ed articolata parrocchia, meno di tutti.

La convocazione era fissata per le 18.00, ma il giovane parroco presidente è arrivato con mezz’ora di ritardo avendo avuto un contrattempo i pullman che avevano portato i ragazzi del grest a Caorle. Giunse nella sala della riunione come una maschera di fatica: sudato, col volto arrossato, negli occhi la stanchezza di un’intera giornata passata al lido di Caorle con i 150 ragazzi della parrocchia che quest’anno partecipano alle attività del grest.

D’istinto gli avrei detto: «Va a letto!». Don Gianni, fortunatamente, è giovane, e dopo una rinfrescatina sotto il rubinetto d’acqua fredda e un riassetto al vestito, pur stanco, s’è buttato a capofitto sui problemi del “don Vecchi 5”, del villaggio di accoglienza degli Arzeroni, sul progetto di una sistemazione conveniente e definitiva del polo di attività solidali delle associazioni di volontariato al “don Vecchi”.

La riunione è stata quanto mai intensa perché don Gianni ci comunicò che sarebbe rimasto assente dalla parrocchia nei mesi di luglio e agosto e l’indomani sarebbe partito con 58 ragazzi e 15 animatori per la Malga dei Faggi, la bellissima casa di montagna della parrocchia, ove ogni 15 giorni si susseguiranno gruppi di ragazzi e di giovani per le vacanze estive e, contemporaneamente, avrebbe diviso il suo tempo con i campi estivi dei 200 scout della parrocchia.

Spesso si dice male dei preti, però ve ne sono anche di veramente eroici che si spremono fino all’osso. Quello che tanti dei nostri preti fanno durante l’estate a favore del mondo dei ragazzi e dei giovani è veramente meraviglioso. Questi ragazzi legheranno per tutta la vita l’avventura, la scoperta del mondo, del vivere assieme, ai valori più importanti che il sacerdote, che divide tempo, gioco e riflessione con loro, passa alle loro coscienze ancora aperte al messaggio cristiano.

Domani quei ragazzi, diventati adulti, quando ritorneranno ai giorni e alle esperienze piene di fascino della loro bella età, troveranno indissolubilmente legati a quei ricordi, la figura di un prete e le proposte ideali che egli ha donato loro durante queste avventure estive vissute tra i boschi, i prati delle nostre montagne.

Qualche tempo fa scrissi della mia meraviglia nello scoprire che tra le persone importanti del nostro Paese, persone che hanno in mano le sorti dell `economia, della politica, della sanità e quant’altro, ci sono i ragazzini che un tempo hanno dormito sotto la tenda, hanno scalato i nostri monti, guidati da un prete che li ha amati come i loro figli. I preti, quando sono bravi e generosi, rappresentano un’autentica risorsa per la nostra società e per il nostro domani. Credo che veramente meritino il grazie delle nostre famiglie e del nostro Paese.

(scritto il 30.06.2013)

Deriva inesorabile

So che non è cristiano e perciò tento di soffocare questo risentimento, ma questa mattina avrei soffocato il sindaco e l’intero consiglio comunale di Venezia.

In prima pagina del Gazzettino mi è balzata subito all’occhio una notizia che purtroppo paventavo da tempo: Cardin, stanco del tiramolla e dell’indecisione del Comune di Venezia, ha rinunciato ad offrire alla città ciò che mezzo mondo sarebbe venuto a vedere e che avrebbe dato lavoro ad un numero consistente di persone.

Provo rabbia, tristezza e disprezzo per una città, ma soprattutto per la sua amministrazione che sta letteralmente affondando nella laguna e che, altrettanti letteralmente, sta cadendo a pezzi. Ora che finalmente i veneziani non avranno la torre di Cardin in concorrenza al campanile di San Marco, potranno godersi le alghe che imputridiscono, che fanno morire molluschi e pesci e continuare a crogiolarsi nella gloria del passato e decaduto vivere, mendicando sussidi dal governo e lucrando dal gioco d’azzardo della bisca del Casinò.

Vivo a Venezia dal ’42 e in questo tempo ho visto come l’amministrazione comunale ha permesso che quel polo industriale d’eccellenza che il conte Volpi ha costruito, andasse in rovina perché i veneziani avevano a nausea i fumi di Marghera e per eliminarli han preferito che questo polo diventasse un ammasso di ruderi.

In questi ultimi anni, nonostante che ad ogni pié sospinto la città andasse sott’acqua, solo un miracolo ha permesso che la si salvasse col Mose, con i soldi del governo; ma quanta ostilità, quanta poca collaborazione!

C’era l’opportunità delle nuove carceri, ma esse turbavano i residenti di Campalto e così si è lasciato perdere. Ora s’è perso il “Lumiere”, e si sta perdendo l’opportunità delle grandi navi che portano oro in città. I russi offrivano lo stadio, ma il Comune ci deve ancora pensare; si offriva il quadrante a Tessera: abitazioni, lavoro, traffico, vita! Signor no! Pare che non se ne faccia nulla. Tanto Venezia è stata operosa, intraprendente ai tempi della Serenissima, tanto oggi è pigra, indolente, boriosa e con la testa montata.

Forse questa è una nemesi storica, però ognuno può scegliersi la fine che vuole, ma perlomeno non si opponga a che Mestre, Marghera, Chirignago, Favaro, possano scegliersi il loro domani e non siano costretti a condividere la sorte di una città che non ha fiducia nel futuro e fra pochi decenni sarà meno viva di Ostia o di Pompei!

Questo declino viene da lontano, ma nell’ultimo mezzo secolo ha subìto un’accelerazione che è stata davvero sorprendente. Fra poco Venezia diventerà una specie di acquario da pesci rossi in cui si muovono poche gondole. Nessuna delle amministrazioni comunali dell’ultimo secolo è stata in verità tanto lungimirante e saggia, ma le ultime, che poi sono state e sono di sinistra, ci stanno portando alla catastrofe!

(scritto il 27.06.2013)

Ha dato tutto di sé

Da novembre a maggio celebro la messa feriale nella mia “cattedrale tra i cipressi” alle ore 15, per l’orario invernale. Confesso che quando celebro il venerdì il “memoriale” della passione, morte e resurrezione di Cristo, provo quasi un brivido avvertendo la coincidenza del giorno e dell’ora in cui avvenne la morte di Gesù e il suo relativo invito: «Fate questo in memoria di me».

Il sacerdote, a motivo della ripetitività della formula e del gesto, corre sempre il pericolo di lasciarsi andare ad una celebrazione formale senza una particolare partecipazione a livello razionale ed emotivo ma, ripeto, in questa occasione la coincidenza mi tien ben desto, non sono perfettamente conscio di attuare l’invito di Gesù. Dovrebbe essere sempre così, onestamente tento che avvenga, ma purtroppo spesso “mi perdo” e il ritmo addormenta il mio spirito. Il venerdì però ciò raramente mi accade.

Ricordo di aver letto, tantissimi anni fa, un romanzo di Coccioli, un autore di cui non ricordo più il nome, la cui trama parlava di un fuggiasco inseguito dai fascisti, che per salvarsi si nasconde tra i fedeli che partecipano alla celebrazione del Sacrificio. Il narratore riesce a descrivere il coinvolgimento emotivo di questo fuggiasco, il quale assieme all’assemblea dei fedeli vive realmente pure a livello emotivo i sacri misteri.

Quella lettura mi pone sempre questo obiettivo e mi stimola ad una celebrazione più vera possibile. Anche durante l’estate, quando celebro di venerdì mattina, avverto, anche se un po’ lievemente, l’emozione che provo durante la celebrazione che coincide esattamente, sia per il giorno che per l’ora, con il dono che Cristo fa di sé ai discepoli.

Questa mattina, ricordando in maniera più lucida del solito la parola di Gesù “Prendete, mangiate il mio corpo, bevete il mio sangue”, chissà per quale associazione di idee, mi venne in mente un canto che la corale Carpinetum della mia vecchia parrocchia eseguiva ogni Venerdì santo. Il canto modulava con note struggenti questo motivo: “Ha dato tutto di sé”. Era un canto che mi entrava nel midollo delle ossa e mi faceva sentire in modo veramente reale il dono di Gesù.

Questa mattina una illuminazione interiore mi fece “vedere” il nostro Papa che si dona tutto senza risparmio, che si lascia letteralmente “mangiare” dalle folle di uomini provenienti dal mondo intero, quelle folle che cercano in lui verità, speranza, solidarietà e pace interiore.

Poi, come di rimbalzo, questa luce interiore mi chiese in maniera perentoria: “e tu, che cosa dai di te alle persone che vengono nella tua chiesa così numerose ed attente per chiederti silenziosamente, ma in maniera vera, la stessa certezza?”

Cosa posso dare io di nuovo? Poco, quasi niente, ma se dono Gesù, come ho scelto di fare, faccio il più gran dono che un uomo possa fare al suo prossimo.

(scritto il 24.06.2013)

Il riformatore

A Roma, una quindicina di anni fa, c’è stato un presidente della Repubblica che s’è dato da fare per sburocratizzare e risanare lo Stato italiano, occupato ed appesantito in una morsa mortale da una mentalità e da una burocrazia che lo rendevano ingessato e pressoché impotente.

Francesco Cossiga, che fu definito “il picconatore”, cercò di realizzare questa immane impresa, ma fu sconfitto. Alcuni dissero che aveva perso il senno, altri lo osteggiarono in maniera tale che dovette andarsene anzitempo, eppure era una persona intelligente e il suo intento era certamente nobile.

Nella stessa città non il Parlamento, ma la Provvidenza, ci ha donato un altro uomo, ma questa volta è un uomo di Dio che pare miri allo stesso scopo per quanto riguarda l’apparato, la mentalità e lo stile di vita della Chiesa che ha, a Roma, il suo centro.

Papa Francesco sembra però aver scelto un modo di procedere diverso, pur intelligente e determinato quanto quello di Francesco Cossiga. Papa Francesco, da vero riformatore, ha cominciato a cambiare la Chiesa facendolo prima sulla sua pelle, cominciando col scegliersi un nome che, non solo in Italia ma nel mondo, rappresenta l’interpretazione più alta e fedele del messaggio di Gesù, chiedendo poi la benedizione del popolo di Dio prima di darla egli stesso, rifiutando i paludamenti della Chiesa del passato e preferendo ad essi la sua semplice tonaca bianca che lascia intravedere i pantaloni e le scarpe per nulla eleganti. Continuando a rifiutare i fasti della dimora reale del Papa re, preferendo un appartamento più umile a Santa Marta, adoperando un linguaggio popolare piuttosto che i discorsi elucubrati della teologia, Papa Francesco, fin subito dalla sua elezione, ha ribadito che “le pecore” si devono cercare dove sono e tale deve essere l’amore per esse da impregnarsi quasi del loro odore. Ha chiesto di pregare perché lo si aiuti a scegliere vescovi innamorati delle anime, ha preso posizione nei riguardi dello IOR, la banca vaticana, e ha affermato di non aver tempo per le vacanze ed userà Castelgandolfo solamente per accogliere i pellegrini… e via di seguito su questa linea, parlando e operando sempre in maniera coerente ad essa.

Papa Francesco non “piccona” ma, pur con dolcezza, dimostra una determinazione assoluta nel perseguire l’obiettivo di una Chiesa povera impegnata per i poveri.

Spero proprio che a qualcuno venga voglia di raccogliere in un’antologia le prese di posizione e le scelte operative di Papa Francesco per portare la Chiesa alla freschezza e alla genuinità delle origini. Sarà un compito duro, ma fortunatamente il nostro Papa ha la determinazione e la costanza per poterlo fare.

(scritto il 22.06.2013)

I nuovi luoghi di aggregazione

Ho letto non so dove che un grosso imprenditore, proprietario di una catena di ipermercati, ha costruito, all’interno di un grandissimo centro commerciale, una chiesa sempre aperta, dove in giorni determinati e ad ore fissate, un sacerdote celebra e fa la sua catechesi.

M’è ritornata alla memoria questa notizia parlando con un mio amico dell’eterno problema di riuscire a recuperare i generi alimentari in scadenza o comunque non commerciabili. Questo mio carissimo amico, attento alla vita e all’evolversi della nostra società, stamattina mi riferiva che aveva visitato il nuovo ipermercato della DESPAR nell’area circostante l’ospedale dell’Angelo. Era rimasto strabiliato da questo colosso del commercio: negozi lussuosi, tavole calde, ristorante e bar, climatizzazione perfetta, caldo d’inverno e frescura d’estate e soprattutto un afflusso di gente che non solamente è interessata agli acquisti, ma che trova nell’ipermercato quella che nell’antica Grecia si chiamava l’agorà e che dal medioevo in poi è diventata “la piazza”: il luogo dell’incontro, del dialogo e della socializzazione.

Oggi l’ipermercato offre quanto di meglio uno possa desiderare, dal parcheggio comodo alla possibilità di rifornirsi di qualsiasi articolo di cui uno possa aver bisogno, di prendere un caffè o un aperitivo al bar con gli amici, di incontrare gente, di passeggiare, di collocare i propri bambini nella baby house con giochi, di stare al caldo o al fresco in qualsiasi stagione senza spender soldi, di mangiare una pizza o ristorarsi alla tavola calda o semplicemente di passare un pomeriggio o una serata senza annoiarsi.

Il mio amico concludeva con un po’ di amarezza: «Le nostre piazze sono fatalmente destinate a svuotarsi, i luoghi di cultura a rimanere deserti, il centro si sta spostando inesorabilmente nei nuovi centri commerciali della periferia».

Mentre parlava io, che mi interesso di anime, di fede e di Chiesa, sentivo tristezza al pensiero che le nostre chiese continuano ad affacciarsi su piazze diventate deserte e che sono destinate a non essere più frequentate dalla gente normale. Mi chiedo: “Le nostre diocesi si sono accorte, riescono a leggere queste nuove situazioni? come pensano di essere presenti nella nostra società?”.

La nuova evangelizzazione, della quale si parla tanto, per essere attuata ha bisogno di spazi, di uomini, di linguaggio, di stile, mentre fino a poco tempo fa il prete della Chiesa veneziana, incaricato di questo compito così affascinante, ma così difficile, aveva trovato la soluzione per il nuovo annuncio scrivendo su “Gente Veneta”, il settimanale della Chiesa veneziana: “Gocce di liturgia!”.

Ho paura che il “gap” tra la Chiesa e il mondo moderno stia purtroppo allargandosi ulteriormente.

(scritto il 20.06.2013)

I miracoli di suor Elvira

Molto tempo fa confidai ai miei amici che avevo “conosciuto” una suora eccezionale. La mia conoscenza di suor Elvira è avvenuta tramite la rivista “Resurrezione”, pubblicata dal movimento “Il Cenacolo” che questa suora ha fondato, rivista che qualche amico, rimasto sconosciuto, mi ha fatto pervenire.

La storia di questa suora è molto simile a quella di Madre Teresa di Calcutta. Questa donna, di grandi risorse, viveva in uno di quegli istituti religiosi che “mummificano” queste care donne di Dio che scelgono di servire il Signore nei suoi figli, ma finiscono poi per intristire all’interno di una vita anonima e senza respiro.

Suor Elvira ottiene dalla Santa sede il permesso di uscire dal suo ordine per dedicarsi ai giovani sbandati e distrutti dalla droga. Restaura a Saluzzo un vecchio stabile disabitato da tanto tempo, diroccato e più simile ad una rovina che ad una casa d’abitazione. Poi questa donna di fede, intelligente, volitiva, intraprendente e dotata certamente di un carisma e di un fascino straordinario, riesce a coinvolgere i primi giovani che approdano al suo cuore, restaura il relitto ed inizia con loro una magnifica avventura. Parte senza essersi rifatta a nessun metodo praticato dalle comunità per il recupero dei tossici, ma si fida del suo istinto materno, li ama, dona loro fiducia e li avvia alla preghiera per avere un rapporto salvifico con Dio.

La cosa funziona, e come funziona! In vent’anni apre più di sessanta strutture di accoglienza in Italia, in Europa e oltre oceano, fonda una nuova congregazione religiosa di ragazze e si fa aiutare da quelli, che lei chiama “angeli custodi”, giovani già usciti dalla droga ai quali affida i nuovi arrivati affinché questi giovani “risorti” avviino alla redenzione anche i nuovi arrivati.

Raccontare queste cose sembra un qualcosa di positivo, ma per niente miracoloso, però vedere i volti di migliaia di giovani, le strutture in cui abitano, le cose che fanno, le testimonianze che offrono, veramente incanta e commuove.

Leggendo “Resurrezione”, la rivista di suor Elvira, mi par di aver capito che nulla è impossibile a chi ama e si fida del buon Dio; è Lui che ti prende per mano e ti conduce, situazione per situazione, a “compiere questi miracoli”, altrimenti inspiegabili.

(scritto il 18.06.2013)

Vacanze a casa assieme a Papa Francesco

Ho sempre avuto paura che le mie prese di posizione fossero azzardate e, peggio ancora, non in linea col messaggio di Gesù. Anche quando il mio intervento su qualche problema è netto e quasi tagliente, sotto sotto c’è sempre stata questa mia preoccupazione.

Ho sempre detto che io accettavo come mia “padrona di casa” solamente la mia coscienza, però non mi ha mai abbandonato il dubbio di essere presuntuoso o perlomeno che il mio pensiero potesse fare del male, cosa che ho sempre paventato e rifiutato. Quindi quando mi capita un avallo autorevole alle posizioni di pensiero, trovo non solamente soddisfazione “perché l’avevo detto io!”, ma anche mi tolgo il dubbio e trovo pace.

Faccio questa premessa per affermare la mia soddisfazione e la mia felicità per una “confidenza” fatta da Papa Francesco ai giornalisti, e vi dico perché. Forse qualcuno ricorderà che a suo tempo, avendo appreso dal Gazzettino che le due settimane di vacanza del Papa a Lorenzago o in Val d’Aosta venivano a costare svariati milioni, in modo un po’ scanzonato e senza pensarci più di tanto, avevo scritto sul mio diario: “Caro Papa, così non va, perché molti dei tuoi figli soffrono la fame”, e consigliavo il Papa di fare le sue vacanze – se proprio non poteva farne a meno – a Castelgandolfo.

Mai avrei immaginato che cosa ne sarebbe venuto fuori: un vero putiferio! La stampa locale, a cui fece seguito quella nazionale, amplificò la notizia di questo prete assolutamente sconosciuto che criticava il Papa, tanto che perfino “Le monde” pubblicò la notizia. Piovvero a cateratte dissensi e consensi. Venni poi a sapere che anche la Segreteria di Stato telefonò in Curia a Venezia e a Treviso per inquadrare il problema. Il Patriarca Scola non mi disse una parola, ma per un paio d’anni mi trattò gelidamente.

Ora che mi capita di sentire che Papa Francesco ha detto che ha ben altro da fare che andare in vacanza e che a Castelgandolfo ci andrà al massimo per un “Angelus”, mi vien da concludere che non dissi poi “un’eresia” e che neppure meritavo il rogo. So di certo che non è dipeso da me che Papa Francesco non abbia tempo di far vacanza, però sono felice di poter condividere la sua scelta.

(scritto il 15.06.2013)

Cristianesimo dal volto umano

Se ripenso alle mie prese di posizione contro un cristianesimo intellettualoide, di una Chiesa sofisticata, di uno spiritualismo disumanizzante, dovrei essere contento pensando che il Signore mi ha accontentato.

Quante e quante volte non ho tentato di dire che mentre tantissimi colleghi e tantissime “anime sante” sembravano tutte impegnate a spiritualizzare l’uomo, io, viceversa, ero e sono tutto teso ad umanizzare lo spirituale.

Con la rivolta della Cecoslovacchia è nata l’espressione: “Socialismo o comunismo dal volto umano”, espressione che esprimeva lo sforzo di sdogmatizzare una dottrina assurda che aveva provocato catastrofi enormi d’ordine umano, sociale ed economico. Forse è nato da questo fatto il mio desiderio di avere una Chiesa dal volto umano.

La mia sognata rivoluzione è durata più decenni, ma penso che finalmente sia arrivata; e la cosa più strana pare che sia arrivata non dal basso, come sarebbe naturale, ma dall’alto con Papa Francesco. Il nuovo Papa in un paio di mesi ha “sbaraccato” un modo di parlare delle cose di Dio che rimanevano incomprensibili ai più. Chi non ricorda quei “Sermoni-mattone” interminabili ed astrali? Quella sacralità che comprendeva perfino le scarpe del Pontefice, quella ieraticità per cui sembrava che tutto uscisse da un altro mondo.

Certo modo di pensare e di parlare sono rimasti nei sacri testi del breviario, ma essi si possono leggere come penitenza ed accettare perché ci arrivano dai secoli dei secoli.

Ora il nostro Papa sta calando nel quotidiano e nel comune sentire il messaggio di Gesù, senza subire l’intermediazione degli asceti, dei mistici e soprattutto dei teologi. Pare che finalmente la Chiesa sia decisa a vestire in blue-jeans e a parlare come si parla al bar, in famiglia o tra amici.

Purtroppo c’è qualcuno che teme che la Chiesa perda seguaci uscendo da quel clima di mistero ch’era più vicino al magico che allo spirituale.

Un mio amico, quando la Chiesa ha preferito l’italiano al latino, da anima pia qual’era, mi disse che la gente si sarebbe allontanata perché finalmente avrebbe “capito” quello che il prete diceva a Dio a nome del popolo durante la messa! Non è successo nulla! Anzi!

Quello di religioso che non è coniugabile con la vita, e con la vita di oggi, a mio modesto parere lo si può tranquillamente buttare, perché non ha nulla a che fare con il messaggio cristiano. Sono pure convinto che vi sono tante altre cose che la Chiesa e i cristiani è bene che mettano in soffitta, comunque mi pare che Papa Francesco sia determinato a continuare a far pulizia delle cose vecchie e di quelle fuori tempo.

Gerarchia e comunità

Qualche anno fa la meta di uno dei mini pellegrinaggi che facciamo con gli anziani del “don Vecchi” e con molti altri che si aggregano, è stata il Santuario della Madonna dell’Olmo.

Il nostro Veneto offre molti di questi luoghi sacri che si rifanno a visioni o miracoli particolari, santuari che godono la devozione soprattutto dei paesi della zona. Normalmente si tratta di belle ed antiche costruzioni, collocate in luoghi particolarmente suggestivi ed officiati quasi sempre da ordini religiosi. I frati ci sanno fare in queste cose!

Ricordo in quell’occasione d’aver incontrato un frate laico, uno di quelli che questua, e d’aver parlato di un giovane di Carpenedo che assieme ad un piccolo gruppo di giovani, si stava preparando a diventare frate cappuccino. Parlando del più e del meno, ho capito che era la comunità a decidere sull’accettazione o sui compiti da affidare ad ogni singolo religioso e il voto o il parere del frate da questua aveva lo stesso valore dei quello del padre guardiano, ossia del superiore.

Per molti anni ho sognato che qualcosa del genere avvenisse anche per la Chiesa locale e soprattutto per quello che concerneva i preti. Ho sognato che si preferisse alla Chiesa piramidale e gerarchica quella comunitaria in cui si adottasse lo stile di famiglia e tutto fosse fatto assieme.

E’ vero che più l’organismo diventa grande ed organizzato, più tutto questo diventa difficile, comunque ho sempre desiderato che in tutti i rapporti valesse di più il principio di relazioni informali, in un clima domestico e paritario, di quello verticistico.

E’ vero che i nostri vescovi e le nostre “autorità” oggi sono più alla mano di un tempo. Ricordo a questo proposito un vecchio prete che ogni volta che parlava del suo vescovo sottolineava, con spirito di rifiuto, le convocazioni che gli erano state fatte con l’espressione: “Vieni a palazzo!”. Ora non è più così, comunque è rimasto un po’ nell’aria qualcosa dell’organizzazione gerarchica, che spero si dissolva ulteriormente.

Mi sono ritornati in mente questi pensieri avendo letto ieri sul Gazzettino che il Patriarca, dopo quindici mesi dal suo ingresso in diocesi, ha nominato i membri del suo “governo”. Leggendo i nomi ho pensato che io devo essere contento apprendendo che un mio vecchio cappellano, monsignor Dino Pistollato, è stato nominato al vertice della gerarchia ecclesiastica della diocesi. La cosa però mi riguarda molto relativamente, avendo presente quello che il Patriarca mi ha fatto ben notare col suo “Sei vecchio!”.

Fantasticando, com’è mia abitudine, mi sono chiesto se sono riuscito a passare a questo nuovo superiore un po’ del mio spirito “anarchico e libertario”. Probabilmente no, perché è rimasto con me solamente un paio d’anni, tempo insufficiente per prendere il “bacillo”. Il fatto però che il Seminario sia diventato da “collegio” a “comunità” mi fa ben sperare perché esso formerà preti in questa direzione.

La preghiera

Sto facendo gli esercizi spirituali “assieme” a Papa Benedetto e i cardinali della curia romana.

Qualcuno si chiederà come mai sono stato chiamato a tale onore. La cosa è più semplice di quanto si possa immaginare. Circa un paio di mesi fa una delle tante persone care che mi onorano della loro amicizia e che dimostrano affetto a questo vecchio prete, mi ha regalato un bel volume del cardinal Ravasi, il prete milanese chiamato in Vaticano da Papa Benedetto a fungere da “ministro della cultura”. Il volume contiene le meditazioni che il cardinale ha tenuto al Papa e alla curia vaticana in occasione degli esercizi spirituali di febbraio di quest’anno.

Evidentemente l’illustre prelato non predicava a braccio, ma ha letto un testo scritto che poi ha usato per il volume che la Casa editrice Mondadori ha ritenuto opportuno stampare. Le meditazioni sono dense, erudite, ricche di  citazioni non solamente bibliche, ma spaziano sulla cultura dei secoli passati e riportano pure con abbondanza il pensiero corrente sia del mondo religioso che di quello laico.

Il testo è talmente denso di pensiero che procedo con estrema lentezza e con l’amarezza, da un lato, di constatare i miei limiti, e dall’altro lato l’estrema difficoltà di ritenere tante “perle preziose” che questo prelato, estremamente intelligente e colto, semina a piene mani.

Il Papa e la Curia romana hanno ascoltato Ravasi per una settimana, ossia per quanto dura un corso di esercizi spirituali, mentre io sarei contento se ci mettesse tre, quattro mesi per ascoltare un sacerdote così dotto nelle cose dell’uomo e di Dio.

Mentre procedo nella lettura di queste meditazioni che riguardano principalmente la preghiera, sono portato a confrontarle con le mie povere nozioni ed esperienze su questo argomento così fondamentale nei rapporti con Dio, concludendo che, pur ammirando la visione profonda e vasta di questo uomo di cultura, dovrò fatalmente rifarmi ai concetti tanto semplici che mi sono familiari ed usare ancora le vecchie formule che mi hanno accompagnato per tutta la mia lunga vita.

Una anziana signora dell’Azione Cattolica di San Lorenzo era solita ripetere: “Ogni spirito loda il Signore”, per affermare che ognuno si rivolge e colloquia col Padre celeste in relazione alle sue risorse, alla sua sensibilità e alla sua cultura.

Io per tanti anni a questo proposito mi son rifatto alla confidenza di uno dei miei scout il quale affermava: «Per me pregare è chiacchierare con Dio». Quante volte, seduto in un banco della mia vecchia chiesa in momenti di solitudine non ho raccontato le mie cose al grande Cristo del `300 che incombe sul presbiterio. Sempre ho trovato ristoro e pace e sempre m’è parso che Egli mi offrisse risposte rasserenanti, anche se il mio colloquio “volava molto più basso” di quello del cardinal Ravasi.

Metastasi

Quando scrivo queste note è fine giugno e suppongo che esse “vedano la luce” all’inizio di settembre. Il motivo è sempre lo stesso: il mio è un esercito di volontari, ed essi le ferie le decidono da soli e non quando “il capo” ritiene opportuno dargliele. Quindi basta che uno degli anelli della filiera si interrompa perché tutta la catena vada in tilt.

Faccio questa premessa perché in settembre l’evento su cui voglio riflettere sarà “morto e sepolto”, però credo che la sostanza del discorso sia valida sempre.

Oggi i giornali parlano della condanna inflitta dai giudici di Milano a Silvio Berlusconi. Vorrei, pur da ultimo, dire la mia. Dicono che le condanne non si discutono, io non l’ho mai capito. Può darsi che i giudici siano ritenuti, da qualche interessato, dei superuomini e non comuni mortali soggetti alle tentazioni dell’orgoglio, della vendetta e della faziosità: io non la penso così.

Premetto, a scanso di equivoci, che l’Italia ne ha avuto fin troppo di Berlusconi, ritengo che lo si debba mettere da parte per sempre perché, per colpa o per malattia, non si è dimostrato degno di rappresentare una nazione. Quindi ritengo giusto che i magistrati, non per un singolo reato, ma per una valutazione globale sulla condotta di questo signore, suggeriscano al popolo italiano di metterlo definitivamente da parte col loro voto.

Detto questo però, metterei definitivamente da parte anche i giudici milanesi. Ci hanno messo non un paio, ma cinquanta udienze e due anni di tempo per condannarlo per un reato per il quale dovremmo condannare mezza Italia. Infatti tutte le strade sono piene di povere ragazze di tutti i popoli e di tutte le età, che si vendono ad un numero infinito di altri “Berlusconi”. Mi piacerebbe sapere poi quanto quei giudici hanno fatto pagare al popolo italiano quella loro condanna e quanto ci costerà ancora l’imputazione di falso ai trenta testimoni a favore di Berlusconi.

In questo momento di crisi economica questo sperpero di tempo, di denaro e di credibilità di un apparato importante dello Stato è pure un grave delitto degno di galera!

Ritengo che il processo di Milano ci abbia condannato un po’ tutti, ma soprattutto i poveri cittadini inermi che devono subire l’immoralità, le prepotenze, gli intrighi e le faziosità di qualcuno che ha molti soldi o che è comunque ben pagato. Povera Italia! Il contagio ormai s’è diffuso, siamo alla metastasi! Se non avviene un miracolo e se la Provvidenza non ci manda un San Francesco o un Savonarola, ho paura che ci sia poco da sperare!