Zelo scomposto

La crisi delle vocazioni religiose è generalizzata, non investe solamente il mondo dei sacerdoti, ma anche quello dei frati e delle suore. Molte congregazioni di suore sono ridotte al lumicino ed altre che contavano migliaia di religiose hanno subito una seria contrazione, tanto che ad ogni fine d’anno, fino a qualche tempo fa, esse si ritiravano dagli ospedali, dagli asili parrocchiali e da altre strutture per concentrarsi in opere di loro proprietà e nell’assistenza delle loro anziane.

Questo fenomeno ha determinato uno smarrimento generale e una seria preoccupazione per la loro sopravvivenza. Inizialmente anch’io sono stato fortemente preoccupato per questo fenomeno, dopo però ho capito che nulla è eterno e che soprattutto il buon Dio ha una fantasia infinita e già prima che si spenga una soluzione che proclamava il suo Regno, aveva già preparato soluzioni alternative più adeguate ai tempi nuovi e più in linea con la nuova società. Basta solamente aver fiducia nei tempi nuovi.

Però non tutte le superiore la pensano così. Molti ordini religiosi hanno emigrato nel terzo e nel quarto mondo ove pensavano che ci fosse un terreno più fertile; alcune, ma poche, hanno tentato di sviluppare il loro carisma inculturandosi in ambienti tanto diversi dai nostri, tentando di tradurre ciò che c’era di essenziale nelle loro scelte con la cultura di quei luoghi, però recependo mentalità, ritmi di vita e sensibilità tanto diverse. Mentre alcune altre, assurdamente, stanno tentando di ripetere esattamente, in mondi diversi, le soluzioni della vecchia Europa.

Altre congregazioni poi, peggio ancora, hanno adottato la “tratta” che, in tempi più lontani, gente senza scrupoli e senza princìpi, ha fatto presso le popolazioni indigene dell’Africa nera. Credo che sia doveroso denunciare questo fenomeno per nulla cristiano. Talvolta m’è capitato di sentire di ragazze nate nelle capanne di tribù africane, abituate a vivere una vita libera nella foresta o nella savana, pregare danzando e cantando al suono del tamburo durante le splendide Eucarestie guidate da missionari intelligenti ed aperti, portate in Europa, chiuse in conventi, o peggio clausure, vestite con tonaconi strani e di tempi andati, costrette ad una vita impossibile ed assurda per la civiltà della nigritudine. La crisi delle vocazioni non può giustificare comportamenti del genere, perché rappresentano quanto di più opposto allo spirito autenticamente religioso.

Il cardinal Martini ha saggiamente affermato che per alcuni aspetti la Chiesa è in ritardo di un paio di secoli, ma comportamenti del genere rappresentano ritardi di millenni.

14.07.2013

Bibbia e cultura attuale

Ho terminato proprio in questi giorni “gli esercizi spirituali” predicati dal cardinal Ravasi per Papa Benedetto e i cardinali, vescovi e monsignori della curia romana. Neanche a farlo apposta “ho ascoltato” l’ultima meditazione il giorno che la Chiesa festeggia sant’Ignazio di Loyola, il santo gesuita che ha “inventato” questa pratica di pietà.

Il cardinal Ravasi ha fatto le sue 17 “prediche” dal 17 al 24 febbraio di quest’anno. Tanto sono durati “gli esercizi” del Papa, mentre io ci ho messo ben tre mesi, faticando non poco per seguire i passaggi veramente impegnativi di questo cardinale “ministro della cultura” della nostra Chiesa.

Mi ha colpito l’intelligenza, ma soprattutto la preparazione ascetica, teologica e biblica di quest’uomo di Chiesa, ma quello che soprattutto mi ha convinto è stata la capacità di innestare il messaggio e il cantico di lode che emerge dai Salmi nel pensiero dei filosofi e poeti del nostro tempo che Ravasi dimostra di conoscere perfettamente coniugando i loro scritti con la parola di Dio espressa dalla Bibbia.

Tutto questo mi fa pensare che la ricerca del cristiano debba assolutamente muoversi e procedere su due rotaie: la Bibbia e il pensiero contemporaneo. Se la parola di Dio non si innesta e non “si incarna” nella cultura attuale, essa rimane appesa alle nubi e non diventerà mai parte integrante della sensibilità e della religiosità del cristiano contemporaneo.

Molti anni fa, il responsabile del volontariato cattolico, in una conferenza a cui ho partecipato, ha affermato che “il cristiano di oggi dovrebbe avere in una mano la Sacra Scrittura e nell’altra il “quotidiano” per poter coniugare l’una con l’altro.

Dopo aver fatto questi esercizi spirituali assieme al Papa emerito e ai suoi cardinali, mi vien da ribadire invece quello che già pensavo da tempo, ossia assieme al quotidiano il cristiano d’oggi faccia lo sforzo che, a parer mio, è assolutamente necessario, di tenere nella mano sinistra anche ciò che i poeti, i narratori, i cantautori e i filosofi del nostro tempo vanno scrivendo o cantando nelle loro opere e che gli uomini assimilano anche senza avvedersene. Il pensiero e l’amore di Dio è qualcosa di etereo ed influente se non si veste dei panni d’oggi, se non usa il linguaggio e il pensiero dei ricercatori della verità del nostro tempo.

Sento di essere quasi banale e ripetitivo, però avverto l’assoluto dovere di affermare che perché un cristiano stia decentemente in piedi e possa farsi accettare, deve innestare il messaggio evangelico nella “carne viva” dell’uomo di oggi e non nelle mummie del passato, ma tutto questo è impossibile se non si frequenta e non si conosce il pensiero contemporaneo.

03.08.2013

“Fa questo e vivrai”

Questa sera dovrò commentare il famoso brano del Vangelo che inizia con la domanda di un dottore della legge”, ossia di un laureato in diritto canonico: «Maestro, che cosa devo fare per guadagnare la vita eterna?». Gesù gli risponde con un’altra domanda: «Che cosa dice la Bibbia in proposito?», una domanda semplice. E questo risponde pronto: «Ama Dio ed ama il prossimo!» E aggiunge: «Ma chi è il mio prossimo?» Troppo complicato impegnarsi, darsi da fare per tutti, anche per gli extracomunitari, per chi s’è mangiato tutto, per chi gioca alle macchinette, per i barbanera, gli accattoni, per chi va a donne, per chi è vissuto come una cicala, ecc. ecc.

Per gli ebrei d’allora, ma anche per quelli di oggi, non appartenevano certo al “prossimo” i palestinesi, i “gentili” e – diciamolo pure – tutti quelli che sarebbe stato faticoso e impegnativo aiutare; allora come oggi ci si può dar da fare anche con qualche sacrificio, per un figlio, una persona cara e amica, ma non certamente per “chi non merita” e, per moltissimi, non merita niente e mai nessuno!

Gesù allora raccontò la parabola dell’uomo che scendeva da Gerusalemme a Gerico e s’imbatté in uno sconosciuto mezzo morto per strada… (Credo che i miei vecchi, ma non solo, ci hanno fatto l’orecchio a questo racconto e molti l’abbiano messo nella raccolta delle favole insieme a Pinocchio e Cappuccetto Rosso). Perciò ho reso attuale il racconto con personaggi veri e con episodi reali che tutti possono conoscere, basta che vadano al “don Vecchi” di Campalto; a volte poi forse questa è la storia di ognuno dei residenti ai Centri don Vecchi.

L’anno scorso una signora dei Frari, che ho incontrato nuovamente due giorni fa ai magazzini “San Martino”, venne da me e mi disse: «don Armando, due persone di una certa età da otto mesi dormono sotto il cavalcavia di Mestre; lui è in cassa integrazione, hanno perso la casa e si sono ridotti in questa situazione. Cosa possiamo fare per loro?». Prima lei e poi io avremmo voluto dire: “Che cosa c’entro io?”, come nella parabola hanno detto il sacerdote e il levita. Così di certo se lo sono detto decine e decine di persone che di certo sono venuti a conoscere questo fatto.

Questa signora sicuramente non sarebbe stata capace di fare da sola “il miracolo” perché solo un miracolo poteva risolvere una situazione del genere. Io rimasi turbato, non sapendo che pesci pigliare e lei allora aggiunse: «Sono andata a vederli, dormono per terra, con una coperta sotto e due sopra». Andai da Candiani, il direttore del Centro; la signora telefonò al frate parroco dei Frari, il quale stanziò duecento euro al mese; i volontari del magazzino dei mobili arredarono l’alloggio; quelli dei vestiti procurarono il resto. Così, in pieno inverno, questi due malcapitati trovarono caldo e ristoro. Ora il marito ha ripreso a lavorare e quindi vivono serenamente in maniera più che dignitosa. Nessuno della filiera di chi si è interessato avrebbe potuto risolvere da solo il problema, ma facendo ognuno quello che poteva fare, abbiamo ridato vita a queste due creature.

Concluderò la predica dicendo: «Nessuno di noi tenti mai di giustificare il suo egoismo dicendo `che cosa ci posso fare?’, se non altro perché, se tanti altri concittadini si fossero comportati così, neppure noi abiteremmo in questo Centro».

14.07.2013

“Sanazione”

Qualche giorno fa due coniugi sono venuti al “don Vecchi” dicendomi che, essendo morto il padre della signora, avrebbero avuto piacere di donarci, per la nuova struttura che sta sorgendo agli Arzeroni, la mobilia, i tappeti, i due lampadari di Murano ed alcuni quadri di un certo pregio.

Conversando con questi signori risultò che la signora è architetto e si occupa di arredamento, mentre lui è impegnato nella realizzazione di un brevetto. La conversazione divenne ben presto familiare – evidentemente questo vecchio prete invitava alla confidenza – tanto che buttai loro, quasi per caso, la domanda: «Avete dei figli?». Mi risposero di no, ma aggiunsero che convivevano da 25 anni e lui soggiunse: «Potremmo anche sposarci!», guardando affettuosamente la compagna.

Si avvertiva dal loro comportamento che erano alquanto affiatati e che, tutto sommato, il loro patrimonio ideale di fondo era quello che si rifà al pensiero cristiano. Io allora aggiunsi una battuta leggera con cui li incoraggiavo a fare quel passo.

Neanche una settimana dopo riincontrai ad un funerale un signore, che fu l’editore del mio primo volume “Diario di un parroco di periferia” (a quel tempo non ero ancora giunto ad essere “un vecchio prete!”). Stessa situazione e stessa conversazione.

Questi due episodi mi riportarono a due vecchie esperienze che riguardavano questo argomento. La prima: un fidanzato abbastanza agnostico ed insofferente al percorso di preparazione al matrimonio; da studioso di storia mi disse che fino al Concilio di Trento non c’era tutto quell’armamentario rituale per le nozze, bastava solamente una benedizione a due cristiani che intendevano vivere assieme. La seconda: una ragazza del ’68 s’era sposata solamente con rito civile ed ora, facendo la catechista, avrebbe desiderato anche il rito religioso, ma il “marito” non accettava di sottoporsi a tutto il rituale preteso dal “Sacramento nuziale”.

In questa seconda occasione mi ricordai che nei miei lontanissimi studi di diritto canonico era previsto, per queste situazioni, una soluzione denominata “sanazione in radice”, soluzione che dava la possibilità di recuperare la sostanziale volontà di vivere in comunione secondo il pensiero della Chiesa dando la qualifica di sposi cristiani, senza fare il rito all’altare.

Volli sperimentare questa norma: ci riuscii, però facendo un “percorso di guerra” abbastanza complesso e burocratico, un tortuoso itinerario che nessun convivente, per quanto desideroso di essere totalmente in pace con la propria coscienza, una volta abituato a vivere assieme al partner, ha voglia di fare.

Scrissi al Patriarca Scola dicendogli che, semplificando enormemente la cosa, con questa “sanazione” potremmo mettere a posto tanti coniugi che non si sono sposati in chiesa, ma che ora sarebbero propensi a farlo. Neppure mi rispose. Probabilmente la mia idea gli parve veramente peregrina, mentre io rimango dell’avviso che è opportuno cercare di umanizzare desacralizzando notevolmente la nostra ritualità sacramentale.

13.07.2013

Appaltare anche il sindaco e il governo

Mio padre era un artigiano che gestiva una bottega da falegname e noi, suoi figli, siamo nati a cavallo della seconda guerra mondiale – chi un po’ prima, chi durante e chi un po’ dopo. Tempi difficili! Si può facilmente immaginare quale sia stata l’economia familiare: sobrietà, risparmio, riutilizzo di ogni cosa.

Mia madre era una “amministratrice” molto saggia ed inflessibile. Solamente con un regime del genere è stato possibile vivere e prendere, ognuno di noi, la propria strada.

Quando mi viene sott’occhio il modo di amministrare del Comune, della Regione e dello Stato, sono portato a confrontare tale amministrazione con il criterio e il sistema economico a cui si rifaceva soprattutto mia madre, che in famiglia fungeva da “ministro delle finanze e dell’economia”.

Qualche giorno fa mi è capitato, mentre impaginavo “L’Incontro”, di seguire il dibattito in Parlamento, che aveva come ordine del giorno l’acquisto di un certo numero di velivoli da combattimento del costo di quindici miliardi di euro. I parlamentari più decisamente contrari sono stati i grillini e l’estrema sinistra.

Sono rimasto allibito! Sdegnato! Che la maggioranza, nonostante la crisi sempre più grave che attanaglia il nostro Paese, e lo “Stato” che non ha neppure i soldi per pagare i debiti contratti con le aziende, si permetta di scialare tanto denaro per macchine così costose, inutili e soprattutto destinate solamente a far del male!

Non sono riuscito nemmeno a immaginare quanto consumano simili aggeggi, quanto ci costano i piloti e gli stati maggiori; il tutto solamente perché questi apparecchi vadano a spasso inutilmente per il cielo! Non riesco a capire che i nostri governanti, Napolitano compreso, che già ci costano terribilmente cari, spendacchino tanto denaro per qualcosa di così inutile, improduttivo e pericoloso!

Grillo non mi è simpatico e neppure i suoi “soldatini di piombo”, però in questa questione sono completamente con loro e mi meraviglio enormemente che si sottragga alla decisione del Parlamento una questione del genere, per delegarla ad un gruppo di ufficiali superpagati ed inutili per il bene del Paese.

Il nostro Comune però non è da meno. In questi giorni, non so da quale balordo sia partita l’idea di fare una nuova strada in mezzo al parco antistante il “don Vecchi”, rovinando il verde, senza il quale in passato parve che i cittadini di viale Don Sturzo non potessero vivere. Il Comune, che non sa come tappare i buchi del suo bilancio, sta sperperando soldi per una strada inutile ed assurda. Sempre più spesso mi viene da chiedermi se non sia opportuno dare in appalto ad una azienda seria ed efficiente: il Comune, il Parlamento e lo stesso Presidente della Repubblica.

09.07.2013

L’utopia

Qualche tempo fa mi ha telefonato una signora che, almeno dalla voce, sembrava molto giovane, la quale mi diceva che da tempo stava cullando un progetto a favore dei ragazzi e degli adolescenti in genere e che desiderava confrontarsi con me. Le risposi subito che, per l’età che ho e per il “mestiere” che faccio, io conosco meglio il problema dei vecchi che non quello dei giovani.

Non riuscii però a dirle di no e quindi ci incontrammo il giorno dopo qui al Centro. In realtà mi parve che fosse davvero “una ragazzina”, anche perché vestiva un abito vezzoso alla zingara che le arrivava fino alle caviglie.

Si presentò dicendomi che era sposata, con due figli, che era impegnata nella sua parrocchia e che da vent’anni insegnava religione nella scuola pubblica. Capii subito che era una donna intelligente, spigliata e cristiana convinta ed appassionata del mondo giovanile.

Questa “catechista” aveva constatato che nel pomeriggio i ragazzi delle elementari e gli adolescenti delle superiori rimanevano tanto tempo soli in casa perché i genitori lavoravano, passando così molte ore davanti al televisore, ma soprattutto davanti al computer che, a parer suo, è ancora più pericoloso. A questi ragazzi manca il dialogo, non hanno manualità non facendo la minima esperienza a livello di “apprendistato professionale”.

Partendo da questa premessa, sognava che qualche parrocchia o la curia potesse mettere a disposizione delle sale ove questi ragazzi, guidati da anziani, artigiani o esperti in qualcosa, potessero fare i compiti ed apprendere quelle nozioni pratiche e quelle esperienze di aggiustaggio e manutenzione di cui ogni persona ha bisogno, soprattutto per avere un rapporto non istituzionale con gli adulti. Ella aggiunse che nella sua parrocchia, quella di Santa Maria Goretti, la cosa non è possibile per carenza di spazi.

Io, pur sembrandomi un bel progetto, le dissi che le attuali parrocchie sono troppo piccole ed assolutamente incapaci di realizzare progetti del genere. Bisognerebbe che “il Governo” – e mi riferivo alla curia o agli organi ecclesiali preposti alla gioventù – si impegnassero per promuovere dei centri interparrocchiali o cittadini.

A questo proposito ci dovrebbero essere i vicariati ad affrontare problematiche del genere, ma essi temo che appartengano a quegli “enti inutili” che sopravvivono stentatamente, ma che sono assolutamente improduttivi. Il mio pensiero è andato quindi all’esperienza del “Comune dei giovani” di Bassano, che a livello cittadino dà risposte alle più svariate attese del mondo giovanile. Ma da noi questa è un’utopia che l’esasperato individualismo veneziano relega nel mondo dei futuribili!

Dissi alla signora che sarebbe stato giusto rivolgersi al responsabile della pastorale giovanile, però mi è parso che fosse piuttosto scettica sull’efficienza di simile organismo, ed io più di lei, per le mie esperienze del passato da parroco.

08.07.2013

E’ solamente questione di convinzione e di attitudine

Domenica scorsa la Chiesa mi ha chiesto, come a tutti i preti del mondo, di commentare il brano del Vangelo che racconta il mandato che Gesù dà ai 72 discepoli: “Predicare il Regno”.

Oggi la carenza di vocazioni, e quindi di preti, è conosciuta anche da chi pratica poco la nostra Chiesa. A leggere questa pagina del Vangelo non sembra però che questo sia un problema solamente del nostro tempo, ma una carenza cronica per le comunità cristiane, se già Gesù l’aveva notato. Lui però, a differenza della gerarchia attuale, l’ha risolto con una soluzione semplice e svelta, incaricando la gente che gli dimostrava fiducia di andare a testimoniare il suo messaggio, dando degli obiettivi precisi: essere accanto a chi soffre ed ha bisogno, portare pace ed annunciare che “Il Regno” è vicino, ossia che è possibile per tutti vivere il progetto che Egli era venuto a portare.

Sabato scorso ho celebrato la messa prefestiva agli anziani del “don Vecchi”, domenica una messa in parrocchia a Carpenedo alle 8,30 e una alle 10,00 nella chiesa del cimitero. Ognuno può facilmente immaginare il tipo di persone alle quali mi sono rivolto, persone buone e devote, però prive di specializzazioni dogmatiche, bibliche, patristiche, ecc. e d’altronde mi è parso che dovessi far loro capire che essi erano “i discepoli” che Gesù mandava dando loro obiettivi semplici e concreti, quindi alla portata di tutti e prescrivendo uno stile di vita sobrio, naturale, sereno, senza preoccupazione di portare risultati eclatanti, perché il loro compito si fermava all’annuncio; circa la risposta, la responsabilità rimaneva su chi riceveva la proposta. Quindi tutto il mio discorso s’è basato sul fatto che parlavo per chi mi ascoltava, non per ipotetiche persone sconosciute.

Mi sono adoperato perché ognuno uscisse di chiesa convinto che doveva far qualcosa per chi non crede o non crede molto. Ho quindi insistito sul fatto che ognuno è all’altezza di questo compito, pur non essendo stato in seminario per 14 anni, pur non avendo fatto noviziato di sorta, pur non avendo alle spalle studi particolari.

Un tempo un dirigente di una grandissima azienda m’ha detto che egli assumeva non chi avesse titoli cartacei da presentare, ma chi aveva attitudine a vendere, perché solamente questi erano produttivi. Credo anch’io che si debba tirar giù dall’empireo della cultura ecclesiastica, spesso sofisticata, macchinosa e difficile, gli operai del Regno, per reclutare invece i semplici e gli umili di cuore.

Per poi calcare l’idea che oggi è tempo dell’impegno dei laici, ho raccontato che molti anni fa suonarono alla porta della mia canonica due giovani che, una volta fatti accomodare, mi dissero: «Signor parroco, vorremmo dirle delle cose che lei sa già, ma che noi riteniamo importante ribadire: “Dio ci vuole bene, è disposto a perdonarci e ci aspetta in fondo alla strada della vita”.

Vi confesso che questa “predica”, ascoltata almeno venti anni fa, è stata quella che ricordo meglio e che mi ha fatto più bene. Ora spero che quelle quattro, cinquecento persone alle quali domenica ho detto queste cose, siano già all’opera!

07.07.2013

“Venda la Mercedes”

Spero che i miei amici mi perdonino il fatto che ancora una volta io sottolinei la “rivoluzione” di Papa Bergoglio. Confesso che questa “rivoluzione” mi libera dai sensi di colpa che mi porto dietro da una vita intera.

Non confido niente di nuovo se ritorno su vecchi eventi ormai coperti dall’abbondante coltre di polvere depositata da decenni; ora però i discorsi “da vecchio e buon parroco di campagna” di Papa Bergoglio rispolverano questi eventi e fanno emergere certe mie “prodezze” pagate con l’emarginazione per tutta la vita.

Ho parlato altre volte di queste cose, ma gli anziani sono noti per queste ripetizioni. C’è perfino una bellissima “beatitudine” attribuita ad un anziano che afferma: “Beato chi non mi ripete ad ogni passo: questo l’hai già detto altre mille volte, beato chi mi ascolta senza mortificarmi per queste ripetizioni”.

Ebbene, quella volta doveva entrare in diocesi il vescovo di Vittorio Veneto Albino Luciani. Non ricordo, ma penso che fossimo vicini al ’68. Già mi aspettavo l’auto di rappresentanza scortata dai motociclisti della stradale, poi la gondola da parata in Canal Grande e poi ancora il presentatarm di una rappresentanza dell’esercito e della marina in piazza San Marco. Tutte cose che mi parevano stonate per un discepolo di Gesù. Scrissi allora sulla “Borromea”, il settimanale del Duomo, una lettera aperta al nuovo Patriarca chiedendo che facesse l’ingresso, non ricordo più se con la vecchia “Cinquecento” o con la “Seicento”. Mi giunse subito una lettera dalla curia che bollava la mia intemperanza.

Qualche tempo fa ho letto un volume di Marco Roncalli che riporta, a proposito del clima tempestoso al tempo di Papa Luciani, la mia presa di posizione.

In tempi andati poi, era vicario generale il vescovo, mons. Giuseppe Olivotti. Questi fu un ottimo prete, buono e generoso, che fondò l’Opera Santa Maria della Carità, opera che i posteri resero malconcia. Lui era ricco di famiglia, viaggiava in Mercedes. A quei tempi che un prelato avesse la Mercedes era come se oggi avesse una Ferrari fiammante, cavallino rosso.

Pure a lui scrissi – ora capisco “l’impertinenza”: “Non è lecito ad un discepolo di Gesù andare in Mercedes!” Mi scrisse una lettera di rimprovero però, essendo un buono e santo prete, neanche un mese dopo la vendette.

Ora spero che l’intervento ben più autorevole, di Papa Francesco, metta in crisi parecchi colleghi che viaggiano in BMV e che ogni paio d’anni cambiano macchina! C’è voluto tanto tempo, comunque sono già contento di non aver sbagliato proprio tutto e spero di non sbagliare anche su tante altre cose su cui Papa Bergoglio non ha avuto ancora tempo per intervenire.

07.07.2013

“Zitelle e zitelli”

Appena morto papa Giovanni c’è stato il solito furbetto interessato che ha pubblicato un volumetto dal titolo quanto mai stuzzicante: “I fioretti di papa Giovanni”. Qualcuno mi ha regalato il volume che in verità non rappresentava un granché, ma che sollecitava la curiosità. Si trattava di una antologia di fatterelli e di affermazioni singolari attribuiti al “Papa buono”. Di certo credo che nessuno potesse giurare sulla veridicità delle cose scritte, comunque erano in linea con il tipo di personalità di questo Papa della collina bergamasca.

Credo che su Papa Francesco ci sia già materiale per un volumetto del genere anche se sono pochi mesi da che s’è fatto conoscere al grande pubblico. Io ho auspicato che qualcuno dalla penna facile e brillante si dia da fare per raccogliere fin da subito “detti e fatti” di Papa Bergoglio, io comunque ne vado annotando quasi uno al giorno di questi interventi espressi con battute semplici e sempre felici.

Sabato è stata la volta dell’invito ai seminaristi e alle novizie suore a non diventare “zitelle e zitelli”.

A qualche buontempone o a qualche criticone la battuta potrà sembrare quasi ingenua e fuori tempo, ma a me pare estremamente onesta e pertinente. Nella mia lunga vita, specie quando c’erano ancora in abbondanza giovani preti e frati, ma soprattutto giovani suore, quante storpiature, quanta dissennatezza da parte di certe superiore o di maestre delle nostre novizie, che in nome delle “sante regole”, del carisma del santo fondatore, di un misticismo malinteso e di una spiritualità grezza, furono irrispettose di quella originalità della persona, che è una delle “meraviglie di Dio”, il quale spande il suo splendore dando ad ogni persona un raggio particolare ed unico della sua luce!

Personalità forti, belle, intelligenti, furono soffocate e storpiate sotto il rullo compressore di una formazione gretta e per nulla cristiana, che pretendeva di ridurre a stampo le anime generose che facevano la scelta di dedicarsi totalmente al servizio del messaggio di Gesù e delle attese dell’uomo.

Ho ancora nell’animo certi abatini col collo torto, certe suore alle quali si toglieva, con dei goffi, informi tonaconi, libertà e bellezza. Papa Francesco, con la sua trovata sorridente ed accattivante, ha fatto saltare almeno lo speco, la muraglia cinese.

Mi auguro che il nostro Papa continui ad umanizzare chi, volendo seguire i consigli evangelici, non sia costretto a vestire da spaventapasseri, sperando poi che si proceda valorizzando l’infinita ricchezza della persona, di ogni persona.

06.07.2013

Enti statali, parastatali e a partecipazione pubblica

Le mie filippiche contro la burocrazia statale, parastatale e quella degli enti a partecipazione pubblica, credo che cesseranno solamente con la mia morte.

La mia rabbia contro queste realtà lente, dispendiose, superburocraticizzate ove s’annidano i politici di serie B, quelli riciclati dopo bocciature elettorali o quelli che si sono meritati le cariche o per aver organizzato le campagne elettorali, o per aver fatto per lungo tempo i portaborse, cresce di giorno in giorno.

Vi racconto una delle ultime. Il signor De Faveri, un brillante imprenditore che spesso viene a visitare le tombe dei suoi morti sepolti nel nostro cimitero, da buon cristiano mise il naso dentro alla vecchia cappella ottocentesca, scoprendo così l’estremo degrado in cui si trovava. Questo signore, mosso da un sentimento di pietà per i suoi defunti, s’è offerto di restaurare la chiesetta della quale, quest’anno, ricorre il secondo centenario essendo sorta, appunto duecento anni or sono, con la costruzione del cimitero.

Non riferisco l’iter burocratico per ottenere i permessi dalla Veritas e quindi dalla Sovrintendenza, avendo avuto i tecnici della prima la malaugurata idea di chiedere il permesso alla seconda! Non sono bastati sei mesi di lettere e controlettere, quasi che questo concittadino volesse restaurare la basilica di San Marco.

Il restauro è risultato quanto mai oneroso, dato che la consulente artistica nominata dalla Sovrintendenza non la finiva più di pretendere pignolerie di ogni genere. Comunque: cosa fatta capo ha!

Il benefattore si è dichiarato disposto a far ripulire la facciata e almeno un pezzo del tetto del porticato che s’appoggia alla parete nord della chiesa. Avendo ottenuto un rifiuto, perché era in programma della Veritas il restauro dell’intero porticato, ora transennato per caduta di calcinacci, ci siamo messi il cuore in pace. Senonché i canali delle tegole e i pluviali intasati dalla caduta di fogliame e dagli aghi dei cipressi antistanti la chiesa, hanno prodotto delle infiltrazioni, con conseguenti macchie di umidità e di muffa sulla parete appena ridipinta.

M’è stato consigliato di segnalare la cosa al tecnico responsabile del Comune e a quello della Veritas. Cosa che ho fatto, ma il “morto” non ha battuto un colpo. Ora poi, che il mancato introito dei 120 milioni di euro che dovevano arrivare dalla Torre di Cardin, ha procurato un buco relativo nel bilancio comunale, credo che le mie lettere siano perfettamente inutili.

Il comico e il tragico della vicenda è che se mi permettessero di intervenire, io con una dittarella in regola con le carte, me la caverei al massimo con due o trecento euro. Signor no! Le sacre regole della burocrazia non lo permettono!

15.06.2013

Cesarino, una vita da protagonista

Oggi il figlio mi ha annunciato che Cesarino è morto.

Dapprima non compresi bene il nome, poi mi è parso impossibile, perché Cesarino fu parte della mia vita e della mia comunità per più di 40 anni.

Ricordo che quando giunsi in parrocchia – tempo quanto mai tribolato – il mio appiglio più sicuro nella bufera del ’68, fu il gruppo degli uomini di Azione Cattolica, che poi corrispondeva quasi esattamente al gruppo della San Vincenzo. Essi fecero quadrato e mi protessero da quel vento infido e impetuoso della contestazione che filtrava da ogni fessura della vita della parrocchia. Cesarino è stato decisamente un protagonista, per la sua battuta facile e arguta, per la sua intelligenza immediata e per la sua calda umanità.

Ricordo che per una delle prime riunioni della San Vincenzo, ci ospitò in Villa Grimani, ove abitava; di villa, allora, quella dimora portava solamente il nome, perché ormai come casa era una nobildonna decaduta, però nei vasti androni si muoveva con vivacità la sua numerosa nidiata di figli, sotto l’occhio affettuoso di Nada, la moglie, serena, imperturbabile e saggia.

Seppi dei trascorsi di Cesarino in politica: allora aveva appena smesso di fare il segretario della DC e farlo non era la cosa più facile, perché a quel tempo a Carpenedo imperava la cellula agguerrita e maggioritaria della sezione del PCI, radicale quanto Stalin.

Poi iniziò l’epopea, prima dell’AVIS e poi di quella in cui Cesarino, assieme al professor Rama, fu decisamente protagonista: l’AIDO. Rama fu la mente, ma Cesarino, oltre la mente, fu il braccio operativo.

Credo che sia difficile enumerare tutte le “trovate” per passare la cultura della donazione delle cornee. Dico, senza enfasi, che non solo Mestre, il Veneto, ma l’Italia, deve a questa accoppiata non solo la legge, ma soprattutto la cultura della donazione.

Ricordo ancora Cesarino come il cantore della “naia” e della sfortunata guerra d’Africa, ricordo come riuscì a riunire i vecchi commilitoni. Fu quindi il cantore della storia patria del nostro borgo ai margini della città, fu un operatore instancabile a livello del paese e della parrocchia. E ricordo ancora Cesarino come quel bell’uomo che sapeva parlare ai ragazzi come alle assemblee dell’AVIS; e ricordo più ancora i suoi articoli brillanti ed arguti.

Se ci sarà qualcuno che avrà voglia di fare la storia di Carpenedo della seconda metà del secolo scorso, non ha che da aprire l’archivio della parrocchia che conserva un’infinità di interventi ed almeno due o tre suoi libri.

Poi iniziò il tempo della prova e del tramonto di questa vita brillante e da protagonista, con la morte della sua amata Nada, il saggio e affettuoso contrappeso alla sua esuberanza. Quello di Cesarino è stato un decadimento lento, amaro, lungo e inesorabile, che ha tarpato le ali alla sua intelligenza e alla sua esuberanza umana. Finalmente la liberazione per sentirsi dire: “Ero senza pane, senza luce per i miei occhi, senza amicizie, senza ideali e tu mi hai aiutato, entra nel gaudio del tuo Signore!”

O5.07.2013

Gli artisti del “don Vecchi”

Nel pomeriggio sono andato al “don Vecchi” di Marghera perché c’era la “vernice” di un pittore di casa nostra: Vittorio Massignani, residente al “don Vecchi” di Campalto.

Nei Centri don Vecchi vivono almeno due pittori: uno, celebre, Odino Guarnieri, collega di Emilio Vedova, artista da tutta la vita, pittore astratto del quale Orler, il gallerista, presenta ogni settimana alla televisione le opere (inavvicinabili per noi poveri mortali per il loro costo).

Il nostro “maestro” è una carissima persona, con la sua barba bianca e il suo bastone che porta alla Charlie Chaplin, amico affettuoso ma che, nonostante i miei ammiccamenti, non se l’è mai sentita di esporre alla “San Valentino”, la galleria dei principianti! Comunque il nostro rapporto è quanto mai cordiale, tanto che ogni tanto mi regala qualche suo “pezzo”, pur non perdonandomi la mia “bestemmia” artistica d’aver definito, per celia, “scarabissi” i quadri astratti.

Solamente un paio di settimane fa sono venuto a sapere che a Campalto abbiamo un altro pittore. La sua storia è ben diversa. Pur essendo stato portato, fin dall’infanzia al disegno, dovette abbandonare il suo sogno per fare, molto più prosaicamente e per tutta la vita l’imbianchino assieme a suo padre.

La Mariolina, pure lei ospite del “don Vecchi”, che da sempre ha la vocazione di valorizzare gli operai e che si sente difensore degli “sfruttati”, m’ha informato che questo suo coinquilino dipingeva nel chiuso del suo appartamentino e i suoi quadri non erano mica male.

In quattro e quattr’otto abbiamo organizzato una “personale” al pittore appena scoperto. La dottoressa Cinzia Antonello, direttrice artistica della galleria, gli ha preparato una critica con i fiocchi, i nostri tipografi le locandine e i dépliant di sala, le signore il rinfresco, la figlia ne ha fatto la biografia. Tant’è che ne è venuta fuori una “vernice” di tutto rispetto, tanto che il nostro artista, ora confuso e commosso così da non riuscire a biascicare neppure una parola, però era nel contempo al settimo cielo.

Vollero che anch’io prendessi la parola. Mi rifeci per istinto ad un bellissimo film di Frank Capra, “La vita è meravigliosa”, ove il protagonista riesce a riunire in una casa personaggi di ogni genere, e dove ognuno può occuparsi del proprio hobby.

Quanto sarebbe bella la vita e il mondo se ogni uomo potesse avere uno spazio ed un tempo per fare quello che più gli piace fare. Non credo che riuscirò a dar vita ad una struttura del genere, ma oggi, almeno per il nostro artista pittore, è stato così e il suo “San Marco” che ci ha regalato, anche se copiato da una cartolina, farà al “don Vecchi 5” la sua bella figura, assieme ad un altro centinaio di opere già raccolte.

30.05.2013

L’ultima intervista della Hack

Metto subito le mani avanti: quella che tantissimi italiani, soprattutto di sinistra – ma non solo – hanno definito una donna di scienza, una grande astrofisica, una donna appassionata alle cause civili, non mi è mai stata simpatica.

Quanto mi è piaciuta Rita Levi Montalcini, la scienziata ebrea di grande spessore, di molto più grande spessore della oriunda fiorentina, domiciliata a Trieste, pure lei sempre dichiaratasi atea, altrettanto ho provato un sentimento di rifiuto nei riguardi dell’astronoma che oggi è morta e che, in linea con le sue infinite affermazioni, ha voluto essere seppellita senza un discorso né una prece.

Questo pomeriggio ho seguito a Radio radicale la commemorazione che se n’è fatta in parlamento. Si sono susseguiti una serie abbastanza consistente di senatori, di tutti gli schieramenti politici, dicendo pressappoco tutti le stesse cose. Ho appreso una cosa che non sapevo: che era stata eletta nelle liste comuniste ed era presidente di un gruppo radicale di atei militanti e s’era messa in mostra per i suoi interventi, spesso pieni di sarcasmo e di sufficienza.

Io, benché prete, non ho nulla contro gli atei. Durante la mia vita ne ho conosciuto più di uno, ma quelli intelligenti e colti che motivavano la loro scelta, li ho sempre sentiti umili, discreti, rispettosi della fede altrui, quasi preoccupati di far conoscere i propri convincimenti in fatto di fede. La Hack invece non lasciava passare occasione per fare una professione solenne di ateismo, guardare dall’alto in basso i credenti, pensandoli come “uomini minori”, degni solamente di commiserazione.

Voglio inoltre motivare, una volta tanto, il mio rifiuto nei riguardi dei cosiddetti atei militanti, dei quali la Hack è stata un campione.

Primo: questa gente non s’è mai chiesta, prima di fare certe affermazioni categoriche e definitive: “Come mai la stragrande maggioranza degli uomini del nostro tempo, che si dichiarano credenti, e tra di essi vi sono menti sublimi, gli atei possono affermare che essa è composta solamente da tutti ignoranti, oscurantisti che non sanno ragionare e solo al manipoletto di atei militanti è riservata la verità certa, assoluta, totale e inconfutabile?”.

Secondo: questi “illuminati”, che dovrebbero essere i campioni in umanità, perché con le loro affermazioni hanno il sadismo di privare i poveri della speranza, che è spesso l’unica loro ricchezza per sentirsi amati ed attesi dal Padre misericordioso? Perché tanta cattiveria nel recidere la speranza degli umili?

Terzo: ma questa gente, che di certo è cosciente che ogni oggetto ha per forza un costruttore – sia esso un povero artigiano o uno scienziato – come mai può pensare che l’universo così complesso, regolato da leggi così precise, così ricco di varietà e di splendore sia l’unica realtà che non ha un autore?

Nonostante tutto ho detto un requiem anche per la Hack, sperando che incontrando il Padreterno abbia finalmente ammesso: «Povera me, ho sbagliato tutto!»

30.06.2013

Ragione e fede

Il mio “aiutante in campo” m’ha ricordato che oggi la Chiesa celebra la festa di San Tommaso d’Aquino, il celebre filosofo e teologo medioevale fondatore della cosiddetta filosofia scolastica.

Credo che la stragrande maggioranza della gente comune non sappia neppure che cosa sia la scolastica. Questa filosofia è stata per tanti secoli lo strumento che la Chiesa ha privilegiato per una ricerca fruttuosa della conoscenza e dell’esistenza di Dio. Anche più di mezzo secolo fa, quando io sedevo nei banchi della scuola durante i tre anni di liceo classico, c’erano un paio d’ore dedicate alla storia della filosofia in genere, ma più ore per lo studio analitico di questa materia che ha, come massimo esponente, Tommaso d’Aquino, il santo appartenente all’ordine dei domenicani, i frati predicatori per eccellenza.

Di questa materia ricordo le cento tesi, consistenti in assiomi in cui si offre la risposta alle domande fondamentali della speculazione umana. Ricordo però, in maniera più lucida, le cinque prove elaborate dalla scolastica per dimostrare l’esistenza di Dio, prove che hanno, come verità fondamentale, la constatazione che ogni effetto presuppone una causa e quindi, partendo dalla realtà verificabile – perché sotto i nostri occhi – si può arrivare all’esistenza di Dio, prima causa di tutto.

Confesso che queste prove sono ancora il supporto razionale della mia fede. Ma a San Tommaso debbo ancora profonda riconoscenza per un dono, per me assolutamente importante, che mi ha aiutato per tutta la vita nella ricerca del soprannaturale, ossia quella regola che il santo filosofo condensa in questa formula: “Intelligo ut credam et credo ut intelligam”, ossia cerco con la ragione per avere una fede motivata e forte e credo per essere facilitato nella mia ricerca razionale.

Io sono rimasto un povero diavolo, poco colto e con una fede elementare, ma posso dire che sono sempre stato avido di cercare e di conoscere perché la mia fede non si riducesse ad un sentimento effimero ed immotivato e sempre ho cercato in maniera positiva facendomi aiutare dalle ali della fede e della ragione.

Questa mattina ho pregato con più fede perché San Tommaso mi ottenga dal buon Dio di mantenermi salde queste due ali, perché anche se ne venisse meno una sola, finirei per rimanere appiccicato alla terra grigia come una talpa!

01.07.2013