Basta poco!

Mio padre, già anziano, mi fece una confidenza che spesso mi si rende presente, vivendo io in un ambiente popolato, quasi esclusivamente, da persone anziane. «Sai Armando – mi disse – a noi anziani basta poco per sentirsi sereni e basta pure poco per sentirsi soli e trascurati». Mio padre aveva ragione.

Al “don Vecchi” s’è creata una piccola équipe che organizza, pressappoco ogni mese, in tutti tre i Centri, un incontro culturale; normalmente si tratta di un concerto di musica varia e di una minigita-pellegrinaggio. Di solito ambedue le soluzioni riscuotono un notevole successo sia da un punto di vista numerico che da quello di gradimento.

Un paio di settimane fa la proposta turistico-religiosa ci ha portato a Padova, prima per una liturgia nella chiesa di Padre Leopoldo e poi per una visita al Santo. L’articolazione dell’uscita è stata abbastanza semplice. Partenza in moderni autobus dai tre Centri, chiacchierata a volontà durante il tragitto e celebrazione particolarmente curata della Santa messa nella chiesa ove l’umile frate cappuccino ha amministrato il sacramento del perdono per una vita intera.

Siamo partiti alle 14.00 in centodieci “pellegrini”; per la messa, dopo la presentazione che ha motivato il pellegrinaggio, l’omelia è stata incentrata sulla necessità di controllare costantemente la nostra coscienza in modo da offrire l’immagine migliore di noi stessi. Poi canti e l’intervento di un frate che ci ha parlato del confratello santo. Il tutto in un clima molto devoto e fraterno, con accensione di lumini e comunione generale.

L’aspetto profano non è stato meno felice: abbondante merenda casereccia con tre panini al salame, formaggio e mortadella, supplemento di dolce, vino e bibite: il tutto consumato con entusiasmo ed appetito (forse l’aria di Padova ha reso più appetitosi i panini imbottiti).

Per l’aspetto turistico: passeggiata al Pra della Valle e visita al Santo. Costo dell’uscita – dieci euro, tutto compreso – ha reso più facile l’adesione perché anche gli anziani con una pensione di soli 500 euro al mese han potuto permettersi il lusso di questa “gita-pellegrinaggio”.

Al ritorno tutti non han fatto che ringraziarmi per il bellissimo pomeriggio. Allora mi sono ricordato della confidenza di mio padre e nello stesso tempo mi è venuto da pensare che con dieci euro forse ho reso migliori e più felici 110 anziani, risultato che non moltissimi preti riescono ad ottenere così a buon mercato.

Due piccioni con una fava

Io, tutto sommato, sono nato come prete dopo il Concilio Vaticano Secondo. L’ordinazione sacerdotale è avvenuta nel 1954, un po’ antecedente il Concilio, ma i primi anni del mio sacerdozio li ho vissuti in “luna di miele”, sognando ad occhi aperti e pensando che sorti del Regno di Dio si sarebbero realizzate nel futuro dei miei “aspiranti” dell’Azione cattolica e del reparto scout della mia parrocchia. Poi, pian piano, ho preso coscienza delle problematiche pastorali.

Il tempo del dopo Concilio l’ho vissuto con la stessa sensibilità con la quale ho vissuto la ricostruzione post-bellica. Prima da italiano e quindi da cristiano, ho sognato che il “mondo nuovo” fosse a portata di mano. Per quanto ha riguardato la religione credevo che il Regno di Dio stesse ormai per calarsi sul nostro tempo e sulla nostra gente, tanto che un giorno chiesi al Patriarca d’allora: «Quando avverrà questa “epoca dell’oro?”». Egli saggiamente mi rispose con una frase del Vangelo: «”Il Regno di Dio è dentro di voi!”, esso si affermerà nella misura in cui noi lo faremo vivere nella nostra vita».

Il tempo è passato e la spinta del sognato rinnovamento pian piano ha perso colore e vigore, è sembrato che le cose andassero sempre per lo stesso verso dopo le prime innovazioni: i preti si sono vestiti in borghese, han detto messa rivolti verso il pubblico, han celebrato in italiano. S’è continuato a parlare di riforme, ma non parve che, oltre i discorsi, la fede crescesse e scaldasse il cuore delle folle. Alcuni anni fa è sorta, quasi per incanto, la “moda” della rievangelizzazione, ma mi pare che non stia avendo risultati granché più significativi.

Qualche giorno fa mi è capitato di leggere questa riflessione che ben definisce l’arco delle mie esperienze in campo della pastorale nei riguardi di quelle che sono immaginate come soluzioni quasi “magiche”, o più correttamente possono essere definite le utopie del cristiano.

“Quando ero giovane e libero e la mia fantasia non aveva limiti, sognavo di cambiare il mondo.
Diventando più vecchio e più saggio, scoprii che il mondo non sarebbe cambiato, per cui limitai un po’ lo sguardo e decisi di cambiare soltanto il mio Paese. Ma anche questo sembrava irremovibile.
Arrivando al crepuscolo della mia vita, in un ultimo disperato tentativo, mi proposi di cambiare soltanto la mia famiglia, le persone più vicine a me ma, ahimé, non vollero saperne.
E ora, mentre giaccio sul letto di morte, all’improvviso ho capito: se solo avessi cambiato prima me stesso, con l’esempio poi avrei cambiato la mia famiglia. Con la loro ispirazione e incoraggiamento, sarei stato in grado di migliorare il mio Paese e, chissà, avrei potuto cambiare il mondo.”

(sulla tomba di un vescovo anglicano nella cripta dell’Abbazia di Westminster)

I partiti e il “don Vecchi”

Uno dei miei meravigliosi “ragazzi”, ora manager affermato ed “in servizio” presso la Fondazione, mi ha riferito com’è andata la seduta della municipalità che aveva il compito di dare il suo parere in merito alla concessione edilizia per il “don Vecchi 5”. La struttura, che come ormai tutti sanno, sarà destinata agli anziani in perdita di autonomia, sarà un’esperienza pilota che farà risparmiare un sacco di soldi alla amministrazione pubblica, ma che, soprattutto, garantirà dignità umana anche all’anziano in condizioni di notevole fragilità. Il mio amico ne era rimasto semplicemente esterefatto. I passaggi, il tempo, le documentazioni richieste e gli ostacoli affrontati per far del bene alla collettività creando una nuova struttura di carattere sociale, sono stati assolutamente inimmaginabili. Se tutta la gente conoscesse il percorso di guerra che stiamo affrontando ormai da quasi tre anni per offrire ad una sessantina di anziani più poveri un domani sereno, dignitoso, è possibile, credo, che assalterebbe gli uffici della pubblica amministrazione e metterebbe alla gogna un apparato in cui spesso si rifugiano i peggiori perditempo.

Sono innumerevoli i Comuni e gli enti pubblici e privati che sono venuti in questi anni a documentarsi su questa nostra iniziativa che ha avuto tanto successo. Proprio l’altro ieri mi ha telefonato da Torino un manager del privato sociale che, scoperto il “don Vecchi” in internet, ci ha chiesto una consulenza volendo trasformare un intero borgo in una colossale struttura impostata sulla falsariga del nostro Centro.

In questi giorni ho avuto modo di leggere il verbale di questa seduta della municipalità di Mestre-Carpenedo, nella quale s’è trattato dell’erigendo “don Vecchi” degli Arzeroni, verbale da cui ho appreso che dei 25 consiglieri presenti, 6 si sono astenuti, 12 sono stati favorevoli e 7 contrari (Cossaro, Zennaro, Brunello, Pasqualetto, Penzo, Peretti, Buiatti). Mi piacerebbe sapere il partito e l’indirizzo di suddetti signori per segnalare alla città il loro operato, la loro sensibilità sociale e la capacità di rispondere ai drammi dei nostri vecchi, per chiedere loro i motivi della loro astensione e soprattutto della loro opposizione ed infine per dire cosa penso di loro!

Quando si è trattato della seduta del Consiglio comunale in cui si è deliberato per il “don Vecchi” di Campalto, l’ho fatto, ottenendo le scuse della Lega e il silenzio del rappresentante di Rifondazione comunista. Comunque ritengo opportuno che la gente sappia come agiscono coloro che hanno eletto. Ringrazio infine chi ha dimostrato di avere a cuore nostri vecchi, che sono i cittadini più fragili ma ai quali dobbiamo molto.

Don Gallo

Alla sera ascolto il telegiornale mentre ceno con la televisione accesa, così mi pare di essere in compagnia, perché cenare da solo mi porta sempre un po’ di tristezza. Nella mia infanzia a tavola eravamo sempre una brigata: papà, mamma, sette fratelli, ed un tempo c’era pure il nonno.

Le notizie del telegiornale non sono purtroppo mai belle, eppure sono la vita della nostra società ed ascoltandole mi pare d’esserne immerso. Penso che un prete, se vuol essere “lievito”, debba sempre e comunque immergersi, almeno idealmente, nelle vicende del mondo in cui vive.

Mentre mangiavo la ricotta fresca mandatami dalla signora Luciana, quella che tiene la rubrica “Giorno per giorno” de “L’incontro”, fui attratto dalla voce del giornalista che pronunciò un paio di volte il nome di don Gallo. Alzai gli occhi dal piatto e riuscii a vedere la rapida carrellata di immagini con cui la televisione ha inquadrato la vita e soprattutto la testimonianza di questo prete sempre in prima linea, anzi fuori dalla trincea quale fu il prete dei bassifondi umani del porto di Genova.

Don Gallo è un mio coetaneo e con lui ho “fatto amicizia” attraverso la lettura dei suoi scritti un paio di anni fa. Per molto tempo avevo pensato a lui come ad un prete sovversivo facente parte della fronda ecclesiastica; poi, conosciutolo un po’ di più, ho capito che era “un prete da Vangelo”: onesto, schietto, libero, anticonformista ed innamorato degli uomini, specie di quelli che il mondo ecclesiastico considera fuori dalle righe e che qualche anno fa le gerarchie avrebbero “sospeso a divinis” e qualche secolo fa mandato al rogo.

Fino a ieri i cristiani allineati, tra i quali ci sono stato per molti anni anch’io, l’hanno guardato con sospetto, ma ora sono certo che in meno di un paio d’anni lo presenteranno come una delle bandiere al vento di cui si fregerà anche la Chiesa ufficiale.

Per Pasqua la mia “Beatrice” m’ha regalato l’ultimo volume di don Andrea Gallo, dal titolo in linea col personaggio: “Come un cane in chiesa”. Credo che non avrebbe potuto descriversi in un modo migliore. La signora Laura mi ha allegato al volume il biglietto che trascrivo perché offre una giusta pennellata per definire la mia recente “amicizia” con questo prete di frontiera.

Caro don Armando, immagino che lei non sappia più dove mettere i libri che le vengono regalati e non so dove trovi il tempo per leggerli. Penso che stia ancora gustando i testi sul cardinal Martini, perciò non si affanni a leggere questo. Ma quando un giorno avrà dato una scorsa – e non solo un’occhiata alle figure di Vauro, che sono simpatiche ma “strampalate” come l’autore – mi sappia dire che cosa ne pensa.
Il libro è recente, parla addirittura del governo Monti e don Gallo ha anche lui la sua bella età, 84 anni. E’ un prete particolare e su alcuni temi ha delle idee discutibili, incomplete, certamente controcorrente e più o meno “ingenue”, però credo che sia veramente un uomo di fede e un innamorato dell’uomo, un tipo che, come lei, non ama le sacrestie e che lavora, giorno e notte, fuori dalle trincee.
A me è piaciuto, fino all’ultima pagina. Con affetto e buona lettura!

Confesso che la notizia di questa morte non prevista del collega – non mi piace definirlo confratello perché è un termine che odora di sacrestia – mi addolora alquanto, mi sento più solo, sento di aver perduto un punto di riferimento quanto mai apprezzato.

Sono convinto che per la Chiesa italiana questa morte sia una grave perdita. Confesso pure che provo un senso di invidia per questo prete che ha avuto il coraggio di portare fino in fondo il suo cristianesimo da Vangelo e non da manuale, mentre io sono sempre rimasto a mezza strada.

Mi ripropongo di leggere il volume appena iniziato perché sono certo che la parola libera e schietta di questo “prete amico” mi farà molto bene.

Una “fiammella” per ciascuno

San Luca, negli atti degli apostoli, ha dovuto ricorrere alla fantasia per descrivere un evento squisitamente spirituale e quindi impercettibile attraverso i nostri sensi, quale fu la Pentecoste, e lo fa in maniera veramente magistrale. Immagina che un vento impetuoso, una specie di tornado, scuota le mura della casa ove sono riuniti gli apostoli e che appaia agli occhi degli ospiti, sgomenti di fronte a questo fenomeno, un globo di fuoco che si suddivide in tante fiammelle, le quali vanno a posarsi sopra la testa di ognuno dei discepoli che si trovavano nel cenacolo in attesa dell’evento promesso più volte da Gesù, ma che per loro era inimmaginabile come si sarebbe avverato.

Credo che in realtà si sia trattato di una illuminazione interiore che abbia fatto capire loro che non potevano rimanere ulteriormente chiusi in se stessi, ma che era doveroso ed urgente donare anche ai loro concittadini la bella notizia della Paternità di Dio, della dignità di ogni persona e soprattutto la conferma che lo struggente bisogno dell’uomo di avere felicità, verità, amore e vita, ha una risposta positiva.

San Luca non trova di meglio che descrivere questo evento quanto mai importante attraverso una sceneggiatura che coinvolge e fa intuire anche a noi che impatto e che effetti produce nelle coscienze lo Spirito di Dio.

Anche per la Pentecoste di quest’anno ho partecipato a questo evento grandioso che ha coinvolto anche la nostra piccola comunità la quale ha atteso e ricevuto con me lo Spirito Santo nella povera chiesa del cimitero. Mentre abbiamo vissuto questo evento durante l’Eucaristia, ho avuto la sensazione che il “globo di luce” si sia suddiviso in duecento, trecento fiammelle – quanti eravamo riuniti in chiesa – e che si siano posate sopra ogni testa dei presenti: Dio che entra nel cuore sotto l’aspetto di una luce, ossia della verità e dell’amore. Questa immagine mi ha accompagnato per tutti i giorni seguenti.

La Pentecoste di quest’anno mi ha fatto prendere maggiore coscienza che ogni creatura che incontro sulla mia strada possiede una particella di Dio, nessuno escluso, e così nessuno è tanto misero da non avere dentro di sé una “porzione di Dio”. Ogni incontro può offrirmi questo splendido dono e i termini “lontani, atei, miscredenti, senza Dio” e quant’altro, sono solamente una invenzione di chi non crede in Gesù. Ogni creatura quindi ha una porzione di quella verità e di quell’amore che mi manca e di cui ho bisogno.

Caffè da dodici euro

Ogni tanto, pur non domandandomelo direttamente, avverto che qualcuno, leggendo i miei scritti, si chiede se sono di destra o di sinistra. A questa domanda purtroppo non riesco a rispondere nemmeno io. Bisogna quindi che faccia io la domanda a chi interessano i miei orientamenti politici: “Che cosa significa destra e sinistra?”.

Quando io ero bambino e le cose in politica erano molto più semplici di oggi, si diceva che i liberali erano di destra, quindi a favore dei ricchi, e i comunisti di sinistra, a favore dei poveri. Rimaneva in mezzo la Democrazia Cristiana che i primi dicevano che fosse di sinistra, mentre i secondi dicevano essere di destra. Io non sono mai riuscito a risolvere questo problema, tanto che ero arrivato a votare per la sinistra della Democrazia Cristiana perché, a quel tempo, c’erano le preferenze.

Adesso la confusione è somma; per ora scelgo di impegnarmi con tutti i mezzi che ho a disposizione per i più poveri, per gli ultimi. Vorrei tanto che qualcuno mi dicesse come si fa, “a livello politico”, ad aiutare chi ha più bisogno. Se fosse vero quello che si diceva un tempo, dovrei votare per D’Alema che, fin dalla prima infanzia, è comunista, ma mi dicono che lui, come i più sinistri della sinistra, prendono tranquillamente da sempre circa 20.000 euro al mese, quindi 660 euro al giorno, mentre al “don Vecchi” più di una trentina di anziani ha una pensione di 512 euro al mese e quindi 17 euro al giorno.

Qualche tempo fa ho incontrato “un giovane” che ho sposato tanti anni fa e che fa il cameriere al Quadri a Venezia. Gli chiesi, per curiosità, quanto costa un caffè al Quadri e lui mi ha risposto che, seduti al tavolo, mentre suona la musica, un caffè costa 12 euro – quasi il reddito giornaliero di uno dei miei anziani. Il mio amico ha poi soggiunto che “lavorano sempre bene”, ossia il locale, e il relativo plateatico, sono sempre affollati.

Io quindi vorrei votare per chi non costringe gli anziani a sopravvivere con un caffè e mezzo al giorno, ma non conosco sigle di partito che mi garantisca questo.

Alla luce di questi dati, se qualcuno ne conosce uno che aiuta davvero i più poveri, me lo dica, che mi iscriverò subito a quel partito. Per ora rimango un libero battitore solitario.

Per i ricchi non c’è problema

Potrà sembrare un’affermazione assurda, ma invece è vero che il problema dei vecchi è ancora tanto “giovane”, ossia un problema ancora poco esplorato, in rapidissima evoluzione ed ancora poco risolto.

Fino ad una sessantina di anni fa gli anziani continuavano a vivere nella vecchia casa assieme all’ultimo figlio che quasi sempre li doveva accompagnare fino alla fine. Poi sono nate le case di riposo, perché l’evoluzione della società non rendeva più possibile la permanenza in casa.

Quando io ero giovane prete a San Lorenzo, in casa di riposo di via Spalti più di una metà dei “ricoverati” era del tutto autosufficiente, tanto che con i miei ragazzi, soprattutto con la San Vincenzo, tentavamo di ravvivare la loro vita e spesso li portavamo in gita. Poi le case di riposo si ridussero ad accogliere solamente anziani assolutamente non autosufficienti, mentre chi era ancora autonomo rimaneva relegato in solitudine nei grandi condomini, dovendo affrontare difficoltà di ordine finanziario e soprattutto di ordine esistenziale.

Vent’anni fa la soluzione del “don Vecchi” ha fatto fare un passo avanti alla soluzione del problema della domiciliarità per una massa di membri della terza età sempre più numerosa. Lo ha fatto con i suoi alloggi protetti, offrendo autonomia e, nello stesso tempo, inserimento in strutture articolate dove, tutto sommato, l’anziano si sente come in un piccolo borgo. Qui è più facile il rapporto umano con gli altri e, nello stesso tempo, l’anziano può fruire di servizi si a portata di mano, ma soprattutto alla portata delle sue possibilità economiche.

Ora però è diventata urgente una soluzione ulteriormente avanzata per tutti gli anziani ancora vivi a livello intellettuale, ma con una salute assai precaria. Ci si augura che il tentativo del “don vecchi 5” per anziani in perdita di autonomia possa dare una risposta adeguata a questo problema. Nella filiera s’avverte però già l’esigenza di aggiungere l’ultimo stadio, sempre nello spirito che l’anziano rimanga il più possibile e il più a lungo autonomo, ossia nella possibilità di decidere il suo stile di vita.

Il mondo imprenditoriale si è buttato a capofitto in questo “mercato”. Qualche giorno fa, infatti, ho avuto modo di leggere l’elenco delle centinaia e centinaia di strutture che appartengono agli “Anni azzurri”, i cui imprenditori hanno però sempre come scopo principale il profitto. Le strutture per anziani stanno diventando sempre più aggiornate e sempre più confortevoli, ma anche sempre più costose. Per gli anziani ricchi non c’è problema alcuno, ma degli anziani poveri, che sono la stragrande maggioranza, solamente i Comuni e la Chiesa possono e devono farsi carico. Noi della Fondazione a Mestre siamo decisi a fare la nostra parte, ma il Comune?

Olmi: delusione

A nessuno “tutte le ciambelle riescono col buco”. Stavolta è capitato ad Ermanno Olmi, il grande regista cinematografico, e di riflesso anche a me che ne sono sempre stato un grande ed appassionato ammiratore.

Credo che ci sia da togliersi tanto di cappello di fronte all’arte e alla poesia di alcune opere cinematografiche del cantore del mondo contadino dal quale quasi tutti noi, direttamente o meno, proveniamo e che rimane, in fondo al nostro spirito, un mondo un po’ appannato, ma sempre avvolto dall’incanto di ciò che abbiamo sperimentato nei tempi lontani della nostra fanciullezza.

Questa dolce nostalgia, alimentata dai ricordi ormai vaghi, vale soprattutto per la gente della mia generazione, alla quale appartiene anche Olmi, per il mondo rurale che non era ancora meccanizzato e perciò si muoveva con i ritmi lenti delle stagioni, con la sobrietà dei costumi e con la guida forte della tradizione.

Chi ha un minimo di cultura cinematografica non può non ricordare con sconfinata ammirazione “L’albero degli zoccoli”, “La leggenda del santo bevitore” e, più recentemente, “Il villaggio di cartone”. Soprattutto in quest’ultima opera Olmi ha affrontato, sempre in chiave poetica, il problema della fede e della Chiesa. La critica seguita a questo film ha messo in luce particolarmente la sua presa di posizione nei riguardi di una Chiesa ingessata, eccessivamente attenta ai riti, poco aperta alla sensibilità e alle attese della società. A me è parso di condividere questa lettura, critica ma stimolante.

Quando mi fu regalato il volume “Lettera ad una Chiesa che ha dimenticato Gesù”, di Ermanno Olmi, mi sono buttato a capofitto nella lettura, tanto da sentire il bisogno di riprodurre integralmente nel mio diario la “spalla” della copertina, che pretende di condensare il pensiero di questo uomo di cultura.

La lettura dei primi capitoletti mi pare che confermasse l’attesa; proseguendo però, mi sono imbattuto in uno zibaldone di argomenti assai irrequieti e sconclusionati, attraverso i quali Olmi rivendica il primato della coscienza ed esprime una critica poco argomentata e disordinata sulla Chiesa attuale e nulla più.

Il volume non fa certamente onore all’autore e non offre una chiave di seria lettura del messaggio cristiano e della Chiesa di oggi. Sento quindi il dovere di fare questa precisazione per evitare ai miei amici una lettura pesante, per nulla documentata sulle problematiche della Chiesa. Spero che Olmi torni a fare il mestiere che sa fare e non annoi il prossimo con un volume raffazzonato e con discorsi poco consistenti.

Recupero dell’angelo custode

Nel periodo liturgico che precede l’Ascensione e la Pentecoste, la Chiesa offre alla riflessione dei fedeli, durante le messe, testi dell’evangelista san Giovanni che parlano delle raccomandazioni e delle promesse che Gesù fa ai suoi discepoli prima di “ritornare al Padre”.

Alcuni giorni prima della festa dello Spirito Santo mi ha positivamente impressionato una accorata preghiera che Gesù rivolge al Padre perché assista i suoi apostoli: «Padre santo, custodisci nel Tuo nome coloro che mi hai dato». Gesù si sentiva responsabile personalmente dei suoi amici e quindi rivolge a Dio la sua preghiera perché non abbiano a perdersi.

Commentando il testo sacro alla quarantina di fedeli che partecipano alla santa messa feriale, dissi che capita spesso anche a noi di non avere la capacità di aiutare persone alle quali vogliamo bene, ma ci sentiamo impotenti di porgere aiuto. Sviluppando questo pensiero, dissi che quando avvertiamo questa impotenza, possiamo in ogni caso rivolgere una preghiera a Dio perché Egli “che conosce i reni e il cuore” dei suoi figli, intervenga e faccia quello che noi vorremmo fare, ma non ci riusciamo.

Per associazione di idee, mi venne in mente una confidenza fatta a noi chierici dal patriarca Roncalli, poi diventato Giovanni XXIII. Il cardinale Roncalli, appena finita la guerra, da nunzio apostolico in Bulgaria fu trasferito a Parigi, sede ben più importante. In qualità di rappresentante di tutto il corpo diplomatico, toccò a lui il compito non facile di tenere il discorso di fronte al generale De Grulle, che di grandeur ne aveva fin troppa.

In quel tempo tra il generale e la Santa Sede c’era una questione bollente perché il presidente pretendeva che una sessantina di vescovi – che secondo lui si erano compromessi con il governo del generale Pétain, filotedesco, fossero allontanati dalle loro diocesi. Il cardinale, che in questo clima di estrema tensione doveva prendere la parola, ci raccontò che, assai preoccupato, pregò con fervore il suo angelo custode perché “prendesse contatti” con quello di De Gaulle perché – soggiunse il cardinale – così sarebbe stato più facile la comprensione tra i loro “assistiti”.

Noi chierici, curiosi, domandammo al Patriarca: «E com’è andata?». «Bene!!» ci rispose, come se la cosa fosse assolutamente scontata.

Oggi, fresco di questo ricordo, sono ricorso anch’io al mio angelo custode per un’operazione del genere. Non mi è andata però bene, comunque ritenterò, perché sono convinto che la preghiera con “destinazione definita” sia comunque efficace.

Preconcetti

Quando queste note vedranno la luce, di certo fra non meno di un mese, un mese e mezzo – tanto è lenta ed aggrovigliata la catena di montaggio de “L’incontro” – sono assolutamente certo che il discorso che sto per fare sarà assolutamente superato, comunque purtroppo la sostanza temo che continuerà molto nel tempo.

Sul “don Vecchi 5”, ossia la struttura per anziani in perdita di autonomia, stiamo pensando e lavorando da almeno tre anni. Non vi dico le peripezie perché dovrei scrivere quello che san Luca dice nel suo Vangelo circa i fatti e i detti di Gesù: che quanto ha scritto è una piccola parte, ma per contenerli tutti ci vorrebbe un’intera biblioteca.

Comunque, tra tentativi, speranze, delusioni, insistenze e minacce, il 10 agosto dello scorso anno è stato presentato in Comune il progetto con le relative documentazioni. Da quel giorno sono passati ben nove mesi e c’è stato perfino qualche burocrate che s’è meravigliato della mia impazienza.

Quando quasi vent’anni fa abbiamo costruito il “don Vecchi 1”, era sindaco l’avvocato Ugo Bergamo ed assessore all’edilizia un certo Armando Favaretto della Democrazia Cristiana. Bergamo m’ha portato a tale esasperazione che un giorno gli scrissi che se entro quindici giorni non m’avesse dato la concessione edilizia, avrei suonato ogni giorno le campane a morto fino all’ottenimento del tanto sospirato consenso. Quanto all’assessore Favaretto, nuovo d’incarico ed ancora ignaro ed innocente circa la lentezza della burocrazia comunale, mi assicurò che da allora in poi le richieste per le costruzioni edilizie non avrebbero superato i 15 giorni di attesa. Di certo questo giovane democristiano era un’anima candida, mentre di anime nere o rosse ce ne sono, e come! Mi sono state riferite certe obbiezioni, insinuazioni, sospetti e critiche dei componenti di una delle infinite commissioni, cose dell’altro mondo!

C’è stato perfino chi s’è meravigliato e ha trovato di che dire sul fatto che i cittadini di Campalto in vent’anni non sono riusciti ad ottenere la messa in sicurezza della fermata dell’autobus dell’ACTV di via Orlanda, mentre il “don Vecchi” in un paio d’anni c’è riuscito.

A parte il fatto che la Fondazione si è impegnata per un anno e mezzo e s’è dovuta accollare tutte le spese, ma il senso civico, l’impegno per il bene verso i propri concittadini e la solidarietà, pare che questa gente non sappia proprio dove stiano di casa, nonostante il loro Marx, il loro Togliatti e Bersani. In Italia c’è, purtroppo, uno spirito anticlericale parolaio e fazioso che neanche i peggiori preti meritano.

“Il castello di carta”

Tra noi preti si dice abbastanza di frequente che chi rimane troppo a lungo in una parrocchia, arrischia di distruggere quanto ha costruito nei primi tempi.

Partendo da questa affermazione ed aggiungendo ad essa che sempre, nella mia vita, ho avuto la sensazione di non essere all’altezza dei compiti affidatimi, quando giunsi alla data che la Chiesa ha fissato per la pensione, con un ossequio, che in verità non ho mai avuto, per il codice di diritto canonico o le norme sinodali, ho presentato, come di dovere, le mie dimissioni. Non furono accettate, un po’ per consuetudine, un po’ come gesto di fiducia e soprattutto perché, con la carenza endemica di sacerdoti, credo che sia un dramma per il nostro patriarcato provvedere ai ricambi. Passati due anni dalla data fissata dalla norma, insistetti, e fui accontentato. La stessa cosa è avvenuta per la presidenza della Fondazione Carpinetum.

Nella mia vita credo, per grazia di Dio, di aver potuto annoverare più successi che insuccessi e, tutto sommato, non ho mai dovuto registrare sconfitte di un certo rilievo. In verità ce l’ho messa tutta, mi sono speso senza riserve, ho perseguito con onestà gli obiettivi e ho tentato di essere coerente. Se dovessi descrivere le mie imprese pastorali, credo che, ove ho operato, mi è sempre andata dritta, compreso il mio compito attuale.

Mi piacerebbe chiudere in bellezza, comunque voglio lucidamente accettare la fine, quale essa dovesse essere.

Non so se la sensazione di inadeguatezza che mi ha sempre accompagnato in ogni impresa mi sia stata più di aiuto che di danno, comunque so per certo che ho pagato con un prezzo salato questa sensazione e questi risultati.

Ricordo che tanti anni fa un mio collaboratore, in un momento di non condivisione – in realtà io sono sempre stato determinato nel perseguire i miei obiettivi – o per stizza, mi disse: «Il suo è un castello di carte, alla prima “ventata” crollerà miseramente». Questa frase mi fece molto male, perché acuì ulteriormente il mio stato d’animo, tanto che essendo passato più di un quarto di secolo, quando ho modo di verificare la tenuta della mia vecchia parrocchia e dei Centri don Vecchi, tiro un sospiro di sollievo e ringrazio il buon Dio! Sarà pure il mio un “castello di carta”, però, per grazia di Dio, regge e spero che così sia per il futuro.

Il quotidiano da scoprire

Questa mattina, iniziando la santa messa, come sempre ho invitato i fedeli a fare l’esame di coscienza per chiedere perdono a Dio e ai fratelli prima di presentarci all’incontro col Signore. Gesù infatti, nella parabola “dell’invito a nozze”, insegna che è vero che “il re” disse ai suoi servi di invitare tutti, poveri ed infelici, però, quando questa folla di miserabili si presentò per le nozze, pretese che avessero “l’abito nuziale”, ossia un atteggiamento decoroso e conveniente. Il Signore accetta tutti: storpi, sciancati e peccatori, però pretende che “ci laviamo mani e cuore” prima di far festa con Lui.

Normalmente, per non lasciarmi irretire dalla solita formula che l’abitudine svilisce, tento di rifarmi a qualche immagine o pensiero che desti dall’istintivo torpore. Questa mattina, improvvisando, dissi: «Prima di iniziare questo giorno assolutamente nuovo – perché nessuno di noi l’ha mai vissuto prima d’ora – purifichiamo col pentimento la nostra coscienza prima di aprirci a questo dialogo che Gesù ci offre l’opportunità di avere».

Mentre pronunciavo queste parole, fui “folgorato” da questa strana sensazione: “Oggi non vivo uno dei tanti giorni della mia lunga vita, giorni pressoché tutti uguali, monotoni e facenti parte del “terribile quotidiano”, ma avrò la splendida opportunità di esplorare e scoprire una realtà sconosciuta, di cui finora non ho mai fatto esperienza”.

Una volta finita la messa sono quasi stato costretto a pensare alla nuova avventura, alla scoperta di un giorno tutto nuovo, fatto di sensazioni, parole, incontri, volti, immagini e atmosfere finora mai incontrate nella loro concatenazione mai uguale.

Avevo in programma di andare a Chirignago da mio fratello, don Roberto, per parlargli di una cosa che mi stava tanto a cuore. Ho visto con estrema curiosità la sua casa, i suoi collaboratori, i suoi quadri, l’atmosfera della sua parrocchia, i fiori e le piante del suo giardino. Finito fin troppo presto l’incontro, con esito non troppo soddisfacente, ho fatto un salto al “don Vecchi” di Campalto e ho visto il riordino dell’ingresso, la crescita della chiesa copta, tutta cupole e pinnacoli, le donne sedute sul muretto dell’aiuola a chiacchierare.

Confesso che per tutto il giorno non ho fatto altro che scoprire cose interessantissime: parole, colori, volti, odori, sensazioni meritevoli di attenzione, anzi di stupore e meraviglia.

C’è della gente che sente il bisogno di andare alle Maldive o a Capo Nord per vedere cose nuove, mentre ha sotto gli occhi, a chilometro zero, un mondo interessantissimo e sempre nuovo da scoprire.

La scommessa di Pascal

Quest’anno ho impostato l’omelia del giorno dell’Ascensione sulla “scommessa di Pascal”, pur sullo sfondo della descrizione che François Mauriac ha fatto di questo evento nella sua “vita di Gesù”.

La descrizione che il Vangelo e “Gli atti degli apostoli” fanno del mistero che inquadra il ritorno di Gesù al Padre, è carica di incanto, ma il narratore francese, pur partendo dai dati storici forniti dal Nuovo Testamento, inquadra in un clima di struggente dolcezza questo mistero cristiano.

Mauriac immagina che in una luminosa mattinata di primavera Gesù convochi in una radura verde vicino a Betania, circondata da nodosi ulivi, sua madre e i suoi amici più cari, gli apostoli; e dopo averli abbracciati ad uno ad uno salga dolcemente al Cielo, confondendosi pian piano con l’azzurro e con la luce del dolce sole di primavera.

Il racconto dell’ascensione fatta da Mauriac diventa ancora più limpido e fresco grazie alla traduzione del testo fatta da Angelo Silvio Novaro, il poeta della “Pioggerellina di marzo”. Concesso spazio alla tradizione e al sentimento, ho sentito però il bisogno di ancorare questo racconto della conclusione della vita di Gesù su questa terra con un supporto razionale più consistente, rifacendomi alla “scommessa di Pascal”.

“La vita di ogni uomo, scrive Pascal, incontra fatalmente questo bivio: scegliere un cammino verso la luce nuova del Cielo, come dice sant’Agostino “E’ inappagato il nostro cuore finché non riposerà in Te, Signore!”. Oppure l’altro percorso alternativo: la vita come cammino ineluttabile verso il buio di una notte senza aurora.

Molti uomini del nostro tempo o sono insipienti o, peggio, non hanno il coraggio di fare questa scelta lucida e razionale. Pascal afferma che è assolutamente più conveniente e razionale optare comunque per l’eternità. Se essa c’è, hai fatto centro, se anche non ci fosse, hai tutto da guadagnare perché, sorretto dalla speranza di una risposta adeguata alle tue attese, il cammino è più facile e meno pesante.

Ai miei fedeli, che han seguito attenti ed interessati le mie parole, dissi: «Io scelgo la vita indicata da Gesù, anche perché diversamente la vita si ridurrebbe ad un inganno, una illusione ed una beffa se alla conclusione di tanta fatica, di tanto impegno e di tanta ricerca, quella realtà che chiamo “morte” venisse a distruggere d’un colpo solo “il castello” costruito con tanta fatica.

M’è parso che i fedeli convenissero con me e non con quel pensatore inglese che ha affermato che bisognerebbe denunciare le maggiori religioni perché ingannano gli uomini, promettendo loro la vita eterna, distogliendoli così dall’impegnarsi per l’emancipazione ed il progresso.

Ribadisco: «Io rimango decisamente con Cristo e con Pascal!».

Amarcord

So, perché i miei amici me l’hanno detto, che gradirebbero da me un po’ più di romanticismo, di poesia, di avventura.

Le mie riflessioni sulla fede, la mia inquietudine religiosa, le mie considerazioni di carattere sociale e politico, pongono problemi e suscitano in loro reazioni che non sempre li rendono entusiasti per i miei scritti. Il guaio è che, pur godendo del Creato, dai fiori alle stelle, dal mare alle montagne rocciose, le problematiche che mi interessano maggiormente sono quelle della fede, della vita sociale, della libertà, della solidarietà, della democrazia e della coscienza.

Comunque vorrei dire ai miei amici che io non rinnego affatto il sentimento, il sogno, l’arte e la poesia; le ritengo infatti componenti essenziali della vita e in fondo al mio animo non c’è solamente rabbia nei riguardi della burocrazia, disprezzo per i fannulloni, gli arruffapopoli e i politicanti, i furbi e gli ipocriti, ma anche gioia del vivere, del sognare ed incanto per le cose e le creature belle.

In questi giorni ho messo un po’ d’ordine nel grande armadio in cui ho raccolto tutti i volumi dei miei scritti, i periodici in cui mi sono impegnato nella mia lunga vita. Ogni tanto mi capita il desiderio struggente di sfogliare, di rivedere vecchi volti, di rileggere quello che ho scritto dieci, venti, cinquant’anni fa. M’è capitato tra le mani una foto di mia madre anziana: un volto nobile, profondo, intriso di un pizzico di malinconia, un volto scavato dalla fatica, dal lavoro e dal sacrificio. Questa immagine di mia madre è bellissima, piuttosto di una foto sembra un dipinto di un grande pittore del passato. Quanta dignità, quanta tenerezza, quanta volontà e capacità di sacrificio e di donazione!

Mi sono lasciato andare ai ricordi: quando la mamma cantava riordinando le camere, quando faceva quaranta, cinquanta chilometri, tra andata e ritorno, in bicicletta per portarmi pan biscotto in seminario durante la guerra perché il poco cibo era quanto mai scarso per un adolescente. Ho ricordato quando mio padre era in Germania e lei si portava dietro una decina di ragazzini come me nelle terre bonificate dal fascio dove andavamo a coltivare grano, fagioli, olio di ricino, al quarto, ossia tre quarti del raccolto andava al padrone e solo un quarto a noi che coltivavamo quel po’ di terra che riusciva a farci assegnare.

Ricordai di quando andavamo a spigolare, ossia a raccogliere le poche spighe di frumento che rimanevano sul campo dopo la mietitura, spesso cacciati dai padroni. Povera mamma! Mi domando ancora come faceva a tenere unita e a far lavorare quella brigata irrequieta e irresponsabile di ragazzini. Ricordo che ci prometteva: «Quando saremo arrivati alla fine del campo – sempre infinito – mangeremo». Il pranzo consisteva in polenta fredda, tegoline o un po’ di marmellata, seduti per terra.

Guardando quella foto dolce e ricca di una sana umanità, mi sono ripetuto l’altro ieri: “Mia madre merita non un monumento, ma un mausoleo!”, e nel mio animo questo momento è quanto di più bello si possa immaginare. A lei e a mio padre debbo tutto!

Lontani ricordi pressoché dimenticati

Qualche anno fa uno dei miei ragazzi che fa il giornalista al “Corriere della sera” è venuto al “don Vecchi” per farmi una proposta davvero incredibile: «Don Armando, vorrei scrivere la sua vita».

Pur gradendo quanto mai questo gesto di estremo affetto, rifiutai nella maniera più decisa. Non credo che la mia vita, pur essendo stata bella, intensa e soprattutto libera, meriti un volume, ma soprattutto non credo che abbia qualcosa di particolare che possa interessare la gente.

Mi sono ricordato di questo episodio pochi giorni fa quando, avendo raccontato qualche particolare della mia fanciullezza, una signora che ha familiarità con la penna mi confidò che avrebbe desiderato fare un articolo sulla mia fanciullezza. Forse le venne questa idea perché chiacchierando del più e del meno, le avevo raccontato che quando facevo le medie, ad ottobre, per Natale e per Pasqua, raggiungevo in bicicletta il seminario. A quel tempo non andavano le corriere e perciò partivo da Eraclea, mio paese natio, con la mia biciclettina da bambino, con la valigia su un portabagagli artigianale costruitomi da mio padre, facevo tutta la via Fausta fino a Treporti misurando il cammino percorso, leggendo sulle case coloniche che si affacciano ancora ad intervalli regolari, case costruite dal duce che portavano in facciata le frasi epiche “L’aratro traccia il solco, ma è la spada che lo difende”, “Credere, obbedire, combattere”, “Vincere e vinceremo!”. Povero duce!

Ricordo che un giorno, mentre percorrevo quella strada che mi pareva non terminasse mai, per mettere nella canonica di Treporti la bicicletta, per poi prendere il vaporetto che portava a Venezia, incrociai un drappello di tedeschi a cavallo, elmetto in testa e fucile a tracolla; soltanto a ripensarci provo ancora i brividi di paura e risento ancora il passo cadenzato di quel drappello di cavalli. Finiti i mesi di scuola rifacevo il cammino a ritroso, riprendevo la bicicletta per tornare a casa, trafelato ed affaticato per quella ventina di chilometri di strada sterrata tutta buche e con tanta ghiaia.

Pensandoci ora, sono convinto che fatica, paura e sacrifici mi hanno temprato, così che oggi ogni più piccola comodità mi mette a disagio e spesso arrossisco e quasi mi vergogno di percorrere nella mia Punto bianca i due chilometri che conducono ogni giorno al mio “posto di lavoro”.

Mi pare che sia san Paolo che dica che anche l’oro si purifica col fuoco.

Le mie esperienze passate sono tali per cui oggi pretendo da me quello che, normalmente, chi non ha fatto esperienze del genere, non osa fare. Se posso dare un consiglio a genitori ed educatori, dico loro con grande convinzione: «Se volete bene ai vostri ragazzi, pretendete molto, pretendete sempre, solo così costruirete degli uomini liberi e positivi.