So, perché i miei amici me l’hanno detto, che gradirebbero da me un po’ più di romanticismo, di poesia, di avventura.
Le mie riflessioni sulla fede, la mia inquietudine religiosa, le mie considerazioni di carattere sociale e politico, pongono problemi e suscitano in loro reazioni che non sempre li rendono entusiasti per i miei scritti. Il guaio è che, pur godendo del Creato, dai fiori alle stelle, dal mare alle montagne rocciose, le problematiche che mi interessano maggiormente sono quelle della fede, della vita sociale, della libertà, della solidarietà, della democrazia e della coscienza.
Comunque vorrei dire ai miei amici che io non rinnego affatto il sentimento, il sogno, l’arte e la poesia; le ritengo infatti componenti essenziali della vita e in fondo al mio animo non c’è solamente rabbia nei riguardi della burocrazia, disprezzo per i fannulloni, gli arruffapopoli e i politicanti, i furbi e gli ipocriti, ma anche gioia del vivere, del sognare ed incanto per le cose e le creature belle.
In questi giorni ho messo un po’ d’ordine nel grande armadio in cui ho raccolto tutti i volumi dei miei scritti, i periodici in cui mi sono impegnato nella mia lunga vita. Ogni tanto mi capita il desiderio struggente di sfogliare, di rivedere vecchi volti, di rileggere quello che ho scritto dieci, venti, cinquant’anni fa. M’è capitato tra le mani una foto di mia madre anziana: un volto nobile, profondo, intriso di un pizzico di malinconia, un volto scavato dalla fatica, dal lavoro e dal sacrificio. Questa immagine di mia madre è bellissima, piuttosto di una foto sembra un dipinto di un grande pittore del passato. Quanta dignità, quanta tenerezza, quanta volontà e capacità di sacrificio e di donazione!
Mi sono lasciato andare ai ricordi: quando la mamma cantava riordinando le camere, quando faceva quaranta, cinquanta chilometri, tra andata e ritorno, in bicicletta per portarmi pan biscotto in seminario durante la guerra perché il poco cibo era quanto mai scarso per un adolescente. Ho ricordato quando mio padre era in Germania e lei si portava dietro una decina di ragazzini come me nelle terre bonificate dal fascio dove andavamo a coltivare grano, fagioli, olio di ricino, al quarto, ossia tre quarti del raccolto andava al padrone e solo un quarto a noi che coltivavamo quel po’ di terra che riusciva a farci assegnare.
Ricordai di quando andavamo a spigolare, ossia a raccogliere le poche spighe di frumento che rimanevano sul campo dopo la mietitura, spesso cacciati dai padroni. Povera mamma! Mi domando ancora come faceva a tenere unita e a far lavorare quella brigata irrequieta e irresponsabile di ragazzini. Ricordo che ci prometteva: «Quando saremo arrivati alla fine del campo – sempre infinito – mangeremo». Il pranzo consisteva in polenta fredda, tegoline o un po’ di marmellata, seduti per terra.
Guardando quella foto dolce e ricca di una sana umanità, mi sono ripetuto l’altro ieri: “Mia madre merita non un monumento, ma un mausoleo!”, e nel mio animo questo momento è quanto di più bello si possa immaginare. A lei e a mio padre debbo tutto!