“Lettera alla mia Chiesa che ha dimenticato Gesù”

“Lettera alla mia Chiesa che ha dimenticato Gesù”

La mia “amicizia” ideale con Ermanno Olmi, il famosissimo regista italiano, dura da moltissimi anni, almeno fin dal tempo dell'”Albero degli zoccoli”. Recentemente si è ancora rinvigorita col suo “Villaggio di cartone” e per alcune interviste ai giornali, sempre su temi di fede.

La mia simpatia è determinata da una “sintonia religiosa” veramente forte, tanto che le sue dichiarazioni fatte a mezzo della stampa e, in maniera ancora più esplicita, attraverso i suoi film, mi sono state sempre di tanto conforto ed incoraggiamento. Avere “dalla mia parte” un intellettuale ed un credente del genere, mi ha sostenuto, liberandomi, in qualche modo, da una solitudine ideale che spesso mi preoccupa e mi addolora.

Qualche giorno fa un volontario mi ha regalato un volumetto di Olmi che, fin dal titolo, mi ha incuriosito in maniera quasi morbosa: “Lettera ad una Chiesa che ha dimenticato Gesù”. Sto leggendo il volume, però sento il bisogno di riportare integralmente, fin da subito, la sua presentazione scritta sulla spalla della copertina, perché posso ritenerla come “manifesto” del mio credere oggi. Quando avrò finito il volume, ci ritornerò, perché le argomentazioni di Olmi e le sue analisi sulle “piaghe” della Chiesa odierna, mi paiono valide almeno quanto quelle più che note di Rosmini.

“Attinge alle emozioni più profonde questa lettera appassionata, e il suo autore, fra i più grandi cineasti viventi, non nasconde che forse disturberà gerarchie e devoti benpensanti, ma nella sincera convinzione che il nostro Occidente e la nostra Italia – sempre più piccola e incapace di grandi slanci – abbiano bisogno di un supplemento d’anima.

La Chiesa dell’ufficialità è sempre più lontana dagli uomini di questo tempo, il suo apparato ha esaltato la “liturgia del rito” dimenticando la “liturgia della vita”, ha aperto sportelli bancari anziché combattere l’idolatria del superfluo, ha fatto di se stessa un dogma svilendo la sacra libertà della coscienza. Questa progressiva lontananza dall’umanità è coincisa con un allontanamento da quel falegname e rabbi di Nazareth che con la sua vita ha suggerito l’unica strada della gioia: spendere senza sconti il bene prezioso della propria esistenza.

Nel rivolgersi alla Chiesa, Olmi chiama in causa anche altre “chiese”, che con la loro supponenza si sono allontanate dalla realtà: le “chiese” dei potenti, delle lobbies, degli pseudo-intellettuali e di tutti coloro che vorrebbero condannarci a consumare in perpetuo per sostenere sistemi ed economie che hanno divorato il patrimonio di nostra madre Terra nell’illusione che le sue risorse fossero illimitate.

Da sempre attento ai temi della religiosità, Olmi non disdegna di dire che la sua è frutto più del sentimento che della dottrina, perché «i sentimenti sono misteriosi, e hanno dentro più verità di qualsiasi ragionamento»”.

Cambiar passo

Tanti anni fa lessi una frase che mi ha messo in guardia da un grosso pericolo che non conoscevo. Il testo diceva che noi abbiamo accanto un pericolo mortale sempre in agguato: l’abitudine.

L’abitudine toglie slancio, colore alle cose che ci circondano, mortifica la ricerca di novità e standardizza, appiattisce la nostra vita. Questo è vero a livello esistenziale e più vero ancora per tutto quello che riguarda la vita religiosa. Spesso gesti, formule, riti, esperienze, diventano pian piano incolori ed insapori, cosicché non incidono quasi per niente sulla nostra vita spirituale e non sono affatto stimolanti. Noi abbiamo bisogno, ogni tanto, di voltar pagina, di ricominciare e di dare un ritmo nuovo al nostro spirito. Questo pericolo vale per tutti, in maniera particolare per i cristiani praticanti, perché l’abitudine svuota di contenuti, fa evaporare il profumo, la verità e il mistero della sostanza, lasciandoci in mano un guscio vuoto ed insignificante.

Per dare nuovo impulso alla nostra anima, credo che non servano gesti plateali o conversioni radicali, talora basta un po’ di silenzio, una verifica onesta, la lettura di una rivista o di un testo ricco di sostanza, una conversazione con un uomo di fede. “Cambiare passo” non solo è opportuno, ma necessario.

A questo proposito ritengo utile trascrivere una confidenza – che può sembrare ingenua – ma che invece io ritengo assai saggia.

“Quando nostro figlio era piccolo, a volte si fermava mentre tornavamo a casa a piedi, dicendo: “Papà, sono troppo stanco per camminare.” Io gli rispondevo: “Allora corri un poco.” Era una di quelle risposte illogiche che un bambino a volte riceve da un adulto. Lo dicevo per distrarlo, ed ero sorpreso nel vedere come il cambiare passo ravvivasse le sue energie e non si sentisse più stanco. Tutti abbiamo i nostri cali di energia, a volte solo perché procediamo sempre allo stesso passo. Viviamo nelle nostre abitudini, non siamo disposti a cambiare. Il motivo per cui ammiro il paralitico del vangelo di Marco è proprio perché quando Gesù gli dice di alzarsi e camminare, lui ha il coraggio di farlo. Gesù gli chiede di fare quello che non é abituato a fare. Perseverare nella fede richiede disponibilità ad ascoltare la voce di Dio che ci chiama alla conversione, a cambiare passo e a fare quello che non abbiamo fatto prima. Ci vuole coraggio per un tale cambiamento, ma “Fedele è colui che vi chiama” e Lui ci darà la forza di cui abbiamo bisogno per farlo.

La rivelazione è in un continuo divenire

Tanta gente – e pure io per la gran parte della mia vita – pensa che con l’Apocalisse di san Giovanni evangelista la Rivelazione sia completamente conclusa, quasi che il Signore avesse terminato il suo discorso con gli uomini e non avesse più nulla da dir loro. Credo che la stragrande maggioranza dei cristiani abbia una visione statica della fede, quasi che la verità sia giunta all’estremo confine assolutamente invalicabile.

Per molti quello che si può fare attualmente è soltanto conoscere meglio quello che Dio ha detto attraverso i profeti, gli uomini di Dio e soprattutto suo Figlio Gesù. Mentre mi pare che sia certamente più vero che Dio continua il suo dialogo, il suo farsi conoscere dalle sue creature, motivo per cui la nostra conoscenza della verità continua a crescere col tempo e mai si sarà esaurita perché Dio è infinito, inesauribile nel suo manifestarsi agli uomini.

Qualche giorno prima dell’Ascensione, sono rimasto felicemente colpito da una frase di Gesù pronunciata poco prima del ritorno al Padre: «Ho tante altre cose da dirvi, ma voi ora non ne siete capaci, però vi manderò il Paraclito che vi farà comprendere quello che vi ho detto e vi parlerà del Padre».

Per me diventa quanto mai importante apprendere che noi uomini del nostro tempo – ma così avverrà anche per il futuro – possiamo avere una conoscenza di Dio più profonda e vera di chi ci ha preceduto e la qualità della nostra religiosità e della nostra fede è certamente migliore e più avanzata di quella che era nel passato. Quando molti nostalgici rimpiangono il passato per quanto riguarda lo spirito religioso, credo che sbaglino di grosso. L’uomo di oggi, credente o no, praticante o no, è di certo molto più religioso di quanto non sia stato nel passato.

Partendo da questa considerazione sono portato ad essere tanto più ottimista sulla religiosità attuale ed aggiungo che l’uomo che oggi vuol essere in dialogo con Dio, deve essere sempre in una posizione dinamica di ricerca e di crescita, mentre chi si ancora in maniera statica al passato, ha un rapporto con il Signore povero, grezzo e carente.

La consolazione offertami da san Paolo

Pur sapendo di sbagliare sarei tentato di addebitarmi gli insuccessi di ordine pastorale causati dai miei limiti di intelligenza e di capacità nel porgere adeguatamente ai fedeli quello splendido messaggio di Gesù in cui credo e che sono convinto che sarebbe veramente un dono ed una grazia per tutti.

Impiego sempre più tempo e pago con sempre più sofferenza la mia preparazione all’omelia domenicale. Talvolta ho paura di banalizzare la parola di Dio ed anche quando mi pare di averne scoperto degli aspetti di grande attualità e validità anche per gli uomini d’oggi, ho la sensazione di impoverirli con un dire povero e deludente.

Tante volte ho fatto il proposito di accettare questa croce, però ad ogni predica debbo pagare un duro prezzo alla delusione e alla mortificazione per la mia pochezza.

Qualche giorno fa, nella liturgia feriale, mi è capitato di leggere negli atti degli apostoli un vero flop di san Paolo, che pure era un uomo intelligente e veramente santo. Si è trattato di quel brano in cui si racconta l’avventura apostolica di san Paolo nei riguardi degli ateniesi che, come la gente del nostro tempo, era piena di sé e convinta di saper tutto.

San Paolo ebbe un’intuizione veramente felice e, avendo scoperto in Atene un altare dedicato al dio ignoto, raccontò che era andato in quella città appunto per parlare di questo dio sconosciuto. Lo spunto felice attirò l’attenzione di quella gente perfino troppo abituata a discettare su tutto, però quando lui disse che voleva parlar loro di quel Dio che Gesù risorto era venuto ad annunciare, qualcuno se ne andò subito e qualche altro, con un atteggiamento di irrisione, gli disse: «Su questo argomento ti sentiremo un’altra volta»!

Io sono d’accordo con Mauriac quando afferma che “tutto è grazia”, tanto che “il Signore sa scrivere dritto anche su righe storte” e perciò spero sempre che il Signore faccia il miracolo di “accendere la fede” anche quando “l’accendino” è assai difettoso, con poco gas, e la pietra focaia logorata, oppure che i miei fedeli siano così buoni come quel cristiano che di fronte alle critiche di fedeli difficili col loro prete, disse: «Io ho sempre ricavato qualcosa di buono da ogni predica che ho ascoltato durante la mia lunga vita».

Per ora, pur con difficoltà e paura, mi reggo su questi due appigli.

La mia stima per Andreotti

Una volta ancora mi trovo in disaccordo col mondo intero! In occasione della morte di Giulio Andreotti, come era prevedibile, si sono versati fiumi di inchiostro per inquadrare la sua persona e la sua opera. Ne han parlato tutti e ne han parlato molto: gli sono stati riconosciuti dei meriti, però, in quasi tutti gli interventi, m’è parso di cogliere sempre un’ombra di riserva, una critica talora aperta da parte dei suoi avversari politici, e talora sommessa da parte di quel mondo con cui egli ha pur collaborato a livello politico.

Io non sono certamente uno studioso, né godo di una documentazione tale da poter dare giudizi, eppure ho sempre avuto una grande simpatia ed una grande stima per questo politico rimasto al vertice dello Stato dall’inizio della storia repubblicana ad oggi. Per me Andreotti è stato una persona intelligente, capace, arguta e coerente. Dobbiamo anche ad Andreotti la rinascita del Paese e soprattutto l’averci risparmiato la tragica esperienza di un regime comunista, e questo è un merito pressoché insuperabile. Come ogni uomo anche Andreotti ha avuto i suoi limiti ed avrà fatto i suoi sbagli, ma mai quanti i suoi detrattori.

Come ho avuto stima per Andreotti, altrettanto ho avuto disistima per i suoi detrattori, soprattutto per il magistrato Caselli che ha fatto spendere al Paese una cifra enorme per un processo fazioso durato dieci anni, con spreco di tempo, oltre che di denaro, con sofferenza e soprattutto con perdita di stima della magistratura presso l’opinione pubblica.

Andreotti è sempre andato diritto per la sua strada, ha detto con franchezza ad ognuno quello che pensava di lui, ha testimoniato a viso aperto la sua fede e credo che abbia fatto il bene del Paese in tempi tristissimi.

Più volte ho scritto della mia stima per i cristiani che non si vergognano di essere tali e che non hanno complessi di inferiorità nei riguardi della gente faziosa, prepotente o sempre schierata con le idee alla moda.

Tanti anni fa ho ricevuto dalle mani di Andreotti il titolo di “Mestrino dell’anno”, titolo di cui vado fiero; conservo con piacere la foto di questo evento e ritengo doveroso dargli questa testimonianza di stima per controbilanciare quel mondo anticlericale e di sinistra che non riesce mai a riconoscere il merito dei cattolici coerenti e tenta sempre di infangarne la testimonianza con supposizioni e malignità di ogni genere.

i timori di un vecchio prete

Tante volte mi capita di invidiare chi parla o scrive bene. Più volte ho fatto l’esame di coscienza chiedendomi se questa invidia sia solamente invidia per orgoglio o vanagloria o sia, piuttosto, come io spero, “santa invidia” per non essere capace di offrire il messaggio cristiano in maniera bella e convincente.

Per quanto riguarda lo scrivere, mi giunge una serie di giornali e riviste, spesso ben fatte e con una prosa limpida, scorrevole e convincente. Proprio venerdì scorso ho pensato a tutto questo tenendo tra le mani “Gente Veneta”, di cui è direttore mio nipote, don Sandro Vigani. Il giornale è pieno di notizie su molti argomenti affrontati in maniera brillante, l’impostazione grafica è piacevole, moderna, tanto che se confronto il giornale della diocesi con il mio “Incontro”, il primo è pari a quello di un gigante in confronto a quello di un piccolo nano. Mentre “Gente Veneta” è un vero giornale vario, serio, intelligente, con belle e convincenti argomentazioni, “L’Incontro” è talmente povero da arrossire di metterlo accanto, pur costandomi tanta fatica e tanto denaro.

Talvolta mi è capitato di pensare a Giuliano Ferrara e al suo “Foglio”, in cui lui fa da mattatore, però nel “Foglio” c’è cultura, intelligenza, argomentazioni brillanti, mentre ne “L’incontro” tutto è povero e disadorno.

Ogni giorno di più mi chiedo se valga la pena impegnare tanta fatica e tanto denaro per risultati così modesti. Ho sempre avuto coscienza dei miei limiti, però essendo convinto che il messaggio non lo possiamo lasciar morire di inedia nelle nostre canoniche o nelle nostre sagrestie, ho osato, e forse mi sono messo in un’impresa più grande di me.

Un tempo c’era l’entusiasmo e qualche guizzo felice, mentre ora mi appare tutto tanto piatto e scontato. Talvolta mi voglio illudere che sia una crisi passeggera, però essa dura ormai da troppo tempo e d’altronde non vedo attorno qualcuno che possa sostituirmi. Spero quindi che si affacci all’orizzonte qualche bella intelligenza che con una penna felice faccia rifiorire questo sogno pastorale. Io sarei ben contento di tenere, come Mosè, le mani alzate in preghiera per chi volesse continuare questa “santa battaglia”.

L’ultimo raggiro

Credevo di essere ormai un esperto, ma ci sono cascato ancora una volta.

Me ne stavo tranquillo a riordinare i lumini nella mia vecchia chiesa del cimitero, quando entrò, dalla porta aperta, un signore. Sono tali e tante le persone che incontro ogni giorno, per cui ormai non mi sorprendo quando qualcuno che non riconosco mi tratta come un vecchio amico,

Questo signore, dai modi abbastanza distinti, cominciò col chiedermi come stavo. La cosa non mi sorprese, perché son solito dire ai quattro venti le ultime vicende della mia salute. Poi, quasi sorpreso, mi chiese: «Ma don Armando, non mi riconosce?». «No», gli risposi. «Ma non si ricorda proprio di me?«. «No», ripetei «Non si ricorda che mi ha dato i soldi per andare a trovare mia madre a Trieste dopo che la Caritas me li aveva negati?». «Veramente no!». E giù a ripetermi che gli avevo pagato il biglietto per andare a trovare sua madre ammalata. Sinceramente non ricordavo. In realtà non mi ricordo neanche cose più importanti, per cui non ero per niente preoccupato di non ricordare quel particolare.

Il signore continuò col dirmi che sua madre era morta, finalmente aveva potuto ereditare la casa che aveva già venduta e che l’indomani avrebbe dovuto incassare centoquarantamila euro.

Aggiunse quindi con aria buonista: «Penso di devolvere una parte ai poveri, perché anch’io sono stato aiutato, anzi – mi disse – questi soldi che intendo dare in carità preferisco darli a lei che conosco bene e che mi ha dato una mano. Vuole che le faccia un assegno a suo nome?». Io, da vecchio tonto, gli dissi che desse alla Fondazione questo denaro e gli diedi quindi gli estremi della ragione sociale della Fondazione.

Finalmente, contento, mi parve che volesse andarsene. Invece, prima di mettere il piede sul gradino della porta, mi disse, con apparente imbarazzo: «La banca mi salderà fra due giorni, non avrebbe qualcosa per le piccole spese di questi due giorni?». “Ci siamo!”, pensai. Ma di fronte ai ventimila euro promessi, pur con un tarlo nel cuore, gli diedi dieci euro. «Non potrebbe darmene altri dieci?» (aveva visto che nel portafoglio ne avevo altri dieci).

Mi salutò dicendomi che mi avrebbe portato l’assegno entro due giorni. Capii allora, chiaramente, che mi aveva imbrogliato, comunque decisi di lasciarlo andare senza rimbrotti, tanto ormai non c’era niente da fare!

Io certamente sopravviverò anche senza quei venti euro, mi spiace solamente che alla prossima richiesta – lo voglia o no – correrò il rischio di dir di no anche alla persona più onesta e bisognosa di questo mondo.

“Qui si fa l’Italia”

Qualcuno, e non ricordo chi, ha affermato, in maniera un po’ epica: «Qui si fa l’Italia o si muore!».

Per quanto riguarda le nostre vicende, le nostre battaglie e le nostre guerre per i Centri don Vecchi, non servono frasi del genere da passare alla storia, però sento che è doveroso affermare che le nostre scelte hanno aperto ed apriranno ulteriormente orizzonti nuovi per quanto concerne la domiciliarità degli anziani ed esse rimarranno una pietra miliare. La costruzione del “don Vecchi 5” non la si può di certo iscrivere nel registro delle case di riposo; questa struttura infatti non si somma alle altre case di riposo destinate agli anziani. Il “don Vecchi 5” è un’esperienza assolutamente innovativa e di certo apporterà un tassello veramente nuovo nella filiera di strutture destinate alla terza e alla quarta età.

Per motivi di spazio tento di elencare in maniera estremamente succinta i motivi per i quali questa struttura è assolutamente la prima e la più innovativa in questo settore.

L’assessore alle politiche sociali Remo Sernagiotto ha il merito di aver compreso che neppure il nostro ricco Nordest sarebbe più riuscito a reperire i soldi per pagare le rette alle attuali case di riposo per la moltitudine crescente di anziani che hanno bisogno di assistenza. Sernagiotto ha intuito che si sarebbe dovuta trovare una soluzione per quella zona grigia che intercorre tra autosufficienza e non autosufficienza, soluzione più umana e soprattutto più economica.

Noi del “don Vecchi” abbiamo offerto la soluzione pratica che risponde fino in fondo a questo problema. Al “don Vecchi 5” l’anziano, anche di modestissime condizioni economiche (per essere concreti quello che gode solamente della pensione sociale di 580 euro) con difficoltà di ordine motorio, avrà un appartamentino di circa 30 metri quadri del quale sarà a tutti gli effetti il titolare, come ogni cittadino. Avrà le chiavi di casa e gestirà la propria vita in maniera assolutamente autonoma e a costi tali, pur potendo fruire solamente della pensione sociale, da poter essere autosufficiente a livello economico.

Proprio oggi ho visto “l’affitto” di aprile di una mia vicina di casa che vive in un alloggio di 40 metri quadri: 330 euro, compresi luce, acqua, telefono, televisione, asporto rifiuti, riscaldamento e costi condominiali.

Al “don Vecchi 5” la Regione garantisce, a titolo gratuito, anche la pulizia dell’alloggio e della persona. Questo alloggio poi è inserito in una struttura articolata che offre tantissime opportunità di servizi e di vita sociale, tanto che l’anziano potrà vivere quasi in un piccolo borgo del tutto simile ai nostri piccoli paesi di un tempo.

La Fondazione ha fatto questa scommessa sociale e tra un anno e mezzo sarà certamente in grado di mostrare concretamente la validità del suo progetto.

Un puntino sulla “i”

Nota della redazione: il sospirato “via libera” è poi arrivato a fine maggio, un paio di settimane dopo che don Armando ha scritto questa riflessione.

Oggi il Gazzettino ha informato la città che il “don Vecchi” è in dirittura d’arrivo.

L’assessore Micelli, che da parte della civica amministrazione è stato il vero protagonista che s’è dato da fare in ogni modo ed ha messo a disposizione di questo progetto tutto l’apparato tecnico del suo assessorato, ha affermato che fra un paio di settimane – ossia con la prima convocazione del consiglio comunale – sarà deliberata la concessione edilizia a procedere alla costruzione del “don Vecchi 5”.

Il Gazzettino ha dedicato alla notizia cinque colonne; in realtà è una notizia veramente importante perché con la nuova struttura la nostra città avrà quasi quattrocento alloggi in strutture protette, a disposizione di anziani di modestissime, se non infime, disponibilità economiche.

Ho letto con ebbrezza la sospirata notizia: sono più di tre anni che ci lavoriamo in maniera veramente appassionata, e nove mesi da che abbiamo presentato in Comune il progetto, e credo che nessuno possa immaginare quali e quante siano state le difficoltà incontrate. Comunque il detto popolare afferma che “è bene quello che finisce bene!” ed io accetto questa filosofia.

C’è però in questa notizia qualcosa che mi ha messo in imbarazzo e che sento il bisogno di rettificare. In una delle cinque colonne del Gazzettino c’è la mia fotografia. Di certo non sono stato io a mettercela o a suggerire di mettercela; al suo posto ci dovrebbe essere quella di don Gianni, il giovane parroco di Carpenedo, presidente della Fondazione, che ha perseguito l’obiettivo del “don Vecchi 5” con una passione, un dinamismo, una tempestività ed intelligenza veramente ammirevoli. Il “don Vecchi 5” è opera di don Gianni e del suo meraviglioso staff del Consiglio. In questo progetto io ho pregato, sbuffato, brontolato, spinto, insultato, incoraggiato, ma null’altro.

Voglio rendere onore al merito: da don Gianni, scanzonato ma lucido ed immediato nell’intervenire, che ha sciolto mille nodi più aggrovigliati di quello di Gordio, ad Andrea Groppo, concreto, brillante, intelligente e sempre disponibile nonostante il suo impegno professionale; da Edoardo Rivola, pronto e saggio nei suoi suggerimenti sempre puntuali, a Lanfranco Vianello, il vecchio conoscitore della macchina comunale e pronto nel puntualizzare i vari interventi, a Giorgio Franz, sottile tessitore dei rapporti con la Regione, al direttore Rolando Candiani, scrupoloso ragioniere, vigile custode della finanza e della contabilità.

Credo che se Letta potesse disporre di un Consiglio così onesto, intelligente e generoso, in quattro e quattr’otto potrebbe rimettere in piedi la nostra Italietta!

Primo maggio

La vita corre veramente veloce. Ricordo il primo maggio vissuto per quindici anni a San Lorenzo, la chiesa madre che apre le porte su Piazza Ferretto. Monsignor Bonini, attuale parroco del duomo, col suo “giornale-rivista” ha perfino tentato di recuperare l’antico nome della piazza principale di Mestre che per secoli si chiamava “Piazza Maggiore”, liberandola da quel “Piazza Ferretto” che si rifà alla stagione della resistenza che la sinistra ha tentato di accaparrarsi con ogni mezzo.

Per quindici anni, in occasione del primo maggio di ogni anno, mi è sembrato di essere coinvolto nell’assalto e nell’espugnazione del “Palazzo d’inverno” da parte dei soviet moscoviti guidati da Lenin, Trotzkij, Stalin e compagnia. Sembrava, guardando la marea di gente, le bandiere rosse, sentendo i canti e i discorsi rivoluzionari, di essere all’inizio della rivoluzione e della presa del potere da parte del proletariato.

Il primo maggio di quest’anno, la festa dei lavoratori, l’ho celebrato nella mia chiesa prefabbricata del cimitero con un gruppetto di fedeli che con me ha pregato con animo pressoché disperato, perché ci sia lavoro, perché la gente il lavoro lo viva non come una condanna ma in modo da dar compimento alla creazione e per compiere un servizio verso i fratelli.

In città è regnato per tutto il giorno un silenzio cupo e desolato e le bandiere e i discorsi che la televisione ci ha mostrato, son sembrati rassegnati, spenti e facenti parte di un repertorio logoro e portato avanti senza entusiasmo da gente pagata per questo.

La “nuova rivoluzione” non può nascere che al positivo, ossia prendendo coscienza che abbiamo vissuto sopra le righe, beneficiando dello sfruttamento di altri lavoratori di altre parti del mondo, meno remunerati e meno garantiti. E’ ormai tempo di mettere la testa a posto e di fare, ognuno, il proprio dovere, aiutando così le aziende a non dover delocalizzare, gli imprenditori a sentirsi lavoratori tra lavoratori, non sperperando ma impegnandosi al meglio; è ora che l’enorme apparato burocratico smetta di soffocare l’iniziativa di chi ha buona volontà di fare la sua parte.

Qualche anno fa ho avuto la sensazione che il primo maggio dalla rivoluzione si fosse passati alla festa, quest’anno mi è invece parso che dalla festa si sia purtroppo passati alla paura e alla disperazione.

Tentativo di messa in rete

Il mio tentativo di premere perché “la carità” della Chiesa veneziana sia messa in rete ad esprimere in maniera sempre più esplicita ed evidente il volto e il cuore di Cristo verso i fratelli in difficoltà, è ormai un fatto scontato, o quasi, che non fa purtroppo più notizia.

Debbo confessare che i risultati di questi tentativi sono pressoché insignificanti. Da anni insisto perché tra tutte le strutture, i movimenti e le iniziative benefiche, o meglio solidali, si dia vita ad una federazione che raccordi, faccia interagire e parli ad una sola voce alla città e ai suoi reggitori, di tutto quello che riguarda la solidarietà. Da anni sollecito la nascita di un periodico che maturi nella Chiesa veneziana e nella città la cultura solidale, faccia conoscere l’esistenza e promuova ciò che ancora manca.

E’ da anni che spingo perché si crei un centro di coordinamento di studio, di programmazione, che organizzi al meglio e in maniera moderna l’esistente, e promuova ciò che ancora manca, cosicché le risposte ai bisogni siano rapide, puntuali, appropriate ed esaustive. E’ da anni che insisto perché si dia vita alla “Cittadella della carità”, perché ci sia un Centro in cui convergano i servizi essenziali e sia presente “il cervello e il cuore” della carità della diocesi.

Forse il prospettare la nascita di un mondo nuovo mette paura, tanto che essendo venuto a conoscenza di una iniziativa di un’associazione che raccoglie e distribuisce indumenti a chi ne ha bisogno, mi è venuto da sperare che “la politica dei piccoli passi” possa essere la vincente.

L’associazione di volontariato “vestire gli ignudi” nell’Italia settentrionale è di gran lunga la più significativa; infatti conta trentamila visite l’anno e gestisce l’ipermercato solidale che forse è il più efficiente anche a livello nazionale.

Notando un rallentamento di offerte di vestiti usati a causa della crisi ed un aumento delle richieste, sempre a causa della stessa crisi, è stato chiesto al Patriarca di destinargli almeno una parte della raccolta della Caritas che praticamente ha l’esclusiva del settore e che probabilmente vende a prezzi irrisori gli indumenti raccolti ad industriali di Prato.

Mi auguro che una risposta positiva segni l’inizio di una nuova “politica” di integrazione che spezzi la forma di individualismo esasperato che caratterizza questo settore.

La cattedrale dei copti

Domenica primo maggio, dopo la celebrazione della messa in cimitero, ho sentito il bisogno di “fare un salto” al “don Vecchi” di Campalto. Credo che fosse più di un mese che non ci andavo, a causa di una brutta influenza da cui non mi sono ancora liberato (questo articolo risale a diverse settimane fa, NdR).

La bella giornata di sole ha reso ancora più ricca di fascino la “scappatina” in quel di Campalto. Bisogna pur dirlo: i Centri don Vecchi sono veramente belli, ordinati, eleganti e curati anche nei minimi particolari, sia negli esterni che all’interno.

Mi ha accolto sorridente e sornione, Stefano, che col suo nuovo trattorino “faceva la barba” al prato, tanto che il verde che inquadra la facciata dell’edificio, particolarmente pulita e moderna, sembrava un tappeto persiano. Appena dentro mi hanno accolto invece le signore, eleganti e cordiali come nobildonne, felici ed orgogliose della loro sontuosa dimora, ricca di mobili di pregio e di quadri, e più felici ancora sapendo quanto io sia esigente dal punto di vista estetico, del bell’ordine con cui è tenuta la casa. Neanche a Campalto le residenti sono ragazzine, ma in quella cornice così signorile anche i loro volti e le loro persone facevano un tutt’uno con l’eleganza delle sale comuni.

Il motivo però che mi spinse alla “scappatella” non era solo quello di farmi vedere e di controllare, ma anche la curiosità per la nuova chiesa dei cristiani copti che, tutta cupolette e pinnacoli, sta sorgendo accanto al “don vecchi”.

Può darsi che fra qualche anno il crocevia di Campalto diventi famoso per questi due edifici, uno segnato col tocco del futuro e l’altra col contrassegno di una cultura e di una tradizione alle quali non s’è voluto rinunciare neppure in terra straniera e d’esilio. L’edificio sta crescendo a vista d’occhio, tanto che sono assolutamente certo che i passeggeri che arrivano e partono dal vicino aeroporto, dall’alto guarderanno incuriositi questo angolo di terra nel quale due realtà tanto diverse per tradizione e cultura si danno una mano e vivono fraternamente l’uno accanto all’altra, in un clima di perfetta integrazione civile e religiosa.

Un obiettivo tanto difficile da sembrare impossibile

Sono sempre stato convinto che il bene vada fatto bene perché, se non fosse così, non sarebbe neppure bene.

Non c’è persona che entrando in uno dei Centri don Vecchi non si meravigli per la pulizia, il buon gusto e la signorilità dell’ambiente. La reazione più comune si traduce quasi sempre con questa affermazione: “Questa non è una casa di riposo, ma un albergo a cinque stelle!”. In verità le cose non stanno realmente così, però è una nostra convinzione che sia importante offrire a chi ne ha bisogno non solamente un qualsiasi alloggio, ma un alloggio dignitoso ove vi possa dimorare senza sentirsi avvilito il “figlio prediletto di Dio”.

Però, per poter praticare questa solidarietà d’alto rango, serve denaro, tanto denaro e quand’anche esso ci fosse, bisogna poter contare sulla collaborazione degli utenti. Purtroppo questo non avviene sempre e per tutti. Per entrare al “don Vecchi” tutti promettono mari e monti; una volta entrati però, tutti o quasi tutti sono prontissimi ad accorgersi e ad approfittare di ogni vantaggio; molto meno purtroppo sono altrettanto pronti a rendersi disponibili. Solamente con l’aiuto di tutti si possono abbattere i costi in modo che anche le persone meno abbienti possano vivere in un ambiente dignitoso.

Qualche giorno fa sono stato costretto a lanciare un appello per trovare un pensionato disposto ad annaffiare e curare i fiori e le piante del nostro parco, perché non si riduca allo stato selvatico dell’orto di Renzo Tramaglino, il celebre protagonista dei “Promessi sposi” di Alessandro Manzoni.

Mentre calibravo le parole nella speranza che qualcuno potesse rispondere positivamente al mio appello, mi venne in mente che al “don Vecchi” di Carpenedo abitano almeno duecentocinquanta persone, ma quasi tutti, alle richieste di collaborazione, rispondono come i protagonisti della parabola evangelica dell’invito a nozze: “Ho nipoti da badare, abbimi per iscusato; ho l’artrite, abbimi per iscusato; vado all’università della terza età, abbimi per iscusato; non ho pratica….”

Mi piacerebbe scrivere che tutti gli anziani sono compartecipi, impegnati e coinvolti, cosicché il bene di tutti nasca dall’impegno di tutti; purtroppo non è ancora così, non rinuncio però a sperare per il futuro.

Il contratto

“L’incontro” esce nella tarda mattinata di lunedì e subito, nel primo pomeriggio, comincia la distribuzione. Nell’impresa non facile, di rifornire i sessanta punti di distribuzione, a me spetta il compito di rifornire la chiesa del cimitero, l’ospedale dell'”Angelo” e le chiese di Carpenedo e delle suore di clausura. Il rifornimento di queste due ultime postazioni lo faccio il martedì mattina.

L’ultimo martedì, mentre stavo calibrando i vari pacchetti in rapporto al passaggio dei fedeli, mi raggiunse don Gianni e, prima, mi costrinse a prendere il caffè da Ceccon (nonostante per quarant’anni io e Ceccon siamo stati “coinquilini” della piazza, penso che questa sia stata la prima volta che avvenisse, data la mia atavica riservatezza) poi quasi mi costrinse a partecipare alla firma del contratto con l’impresa Eurocostruzioni che costruirà il “don Vecchi” di via degli Arzeroni.

Oltre a don Gianni e Andrea Groppo, c’era l’amministratore delegato di questa impresa e i responsabili delle imprese che cureranno l’impianto elettrico e quello idraulico.

Il clima dell’incontro è stato quanto mai cordiale ed amichevole, ma per me ha assunto quasi l’importanza di un fatto storico, tanto tribolate e lunghe sono state le premesse, quanto sorridenti e positive le speranze.

A me capita di star bene quando aiuto una persona in difficoltà, anche se so che l’offerta è inadeguata e non risolutiva, però la firma di questo contratto mi ha reso cosciente che fra un anno e qualche mese ben sessanta anziani traballanti ed incerti nel muoversi avranno un alloggio autonomo del quale loro saranno i titolari a tutti gli effetti, e perdipiù sarà loro garantita, a titolo gratuito, la pulizia del loro alloggio e della loro persona. M’è parso un atto di solidarietà veramente sacro e solenne, reso ancora più consistente dal fatto che esso si ripeterà, quasi in maniera automatica, per uno o due secoli.

Ho parlato di un gesto veramente sacro, perché credo che non vi sia “pontificale”, celebrato pur dal Patriarca e nella cattedrale di San Marco, che avrà mai la consistenza di questo contratto a cui si è arrivati con immensi sacrifici e difficoltà, supportati dal comandamento di Dio e che impegnerà tanti cristiani oggi e domani ad essere coerenti a questo atto di fede in Dio e nei figli di Dio.

In crociera con i vecchi

Martedì 16 aprile ho accompagnato i miei vecchi in “crociera” a Chioggia. Ben s’intende io ho fatto da cappellano, mentre al timone della “nave” c’era uno staff di gente preparata e capace.

Siamo partiti alle 14 con due pullman con 110 croceristi provenienti dai centri di Carpenedo, Campalto, Marghera e con qualche anziano aggregato alle nostre iniziative. L’appuntamento era per le 15,30 presso il santuario della Madonna della Navicella a Chioggia.

Il giovane parroco di una comunità di 12.000 fedeli ha accolto noi pellegrini con simpatia ed affetto veramente straordinari. La fama del “don vecchi” ha ormai varcato di molto i confini della città, tanto che, entrato in una chiesa, durante la passeggiata lungo il corso, un prete anziano che stava dicendo il rosario, dandomi un’occhiata, mi disse: «Lei è don Armando, il famoso prete di Mestre?». Non pensavo proprio che ci volesse così poco per diventare celebri!

Il parroco della “Navicella”, con molta sobrietà, ci raccontò la visione dell’ortolano del 1500: purtroppo anche a quei tempi a Chioggia imperversavano malcostume, crisi religiosa e morale. Non c’è proprio nulla di nuovo sotto il sole!

Comunque la liturgia risultò quanto mai devota e partecipata. Abbiamo pregato perché i nostri parlamentari sappiano eleggere un presidente – uomo o donna – corretto, onesto e non di parte, così da poter rappresentare con dignità il nostro popolo. Abbiamo pregato per avere un governo, perché senza l’aiuto del Cielo pare un’impresa impossibile.

Al sacro è succeduto il profano: merenda – tre panini a testa, con salame e formaggio, dolce, vino e bibite. Pure la merenda è stata quanto mai viva e partecipata. Infine la passeggiata lungo il corso principale di Chioggia, quanto mai animato e vivace, per andare ad ammirare la laguna e soddisfare la curiosità di verificare se suull’alta colonna corinzia che sta in fondo al corso c’è realmente “il gatto” al posto del leone di san Marco?

Io ci vedo poco, comunque, anche se di leone si tratta, esso è solamente un cucciolo di leone, ma pare che i chioggiotti vivano lo stesso, infatti i bar erano tutti affollatissimi.

Verso le 19 ritorno felice a casa a motivo del “bellissimo pomeriggio” costato, tutto compreso, 10 euro!

E dire che la gente cerca il bello mille miglia da noi, pagando migliaia di euro, mentre abbiamo dei paesaggi, delle città impareggiabili sotto casa!