Sempre e comunque con la gente

Mi rendo perfettamente conto che la mia maniera di fare il cristiano e il prete è molto profana, infatti io mi lascio coinvolgere dalla politica, mi ribello alla burocrazia del Comune, mi indigno perché quattro gatti a Venezia starnazzano come le oche del Campidoglio per le “grandi navi” che entrano in punta di piedi in bacino San Marco per “versare” un sacco di dollari alla città (è facile immaginare quanto possano spendere tre, quattromila persone in crociera e quali vantaggi ne abbia la città), come posso accettare che sindaco, giunta e consiglio comunale si lascino condizionare da questa gente irrequieta e campata in aria?

D’altronde, come posso starmene zitto ed in pace quando, essendosi aperta una piccola voragine in “via dei 300 campi”, strada percorsa ogni giorno da centinaia di bisognosi che vengono al “don Vecchi” per chiedere aiuto, quando ho richiesto l’intervento del Comune (1° aprile 2013), mi sono sentito rispondere: “Il Comune non ha soldi, bisogna attendere fino al 25 maggio per vedere se possiamo racimolare qualche euro; a quella data vi sapremo dire se possiamo intervenire o no”.

A me pare che un cristiano, e soprattutto un prete, non possa starsene a giocherellare con qualche avemaria, o a filosofeggiare sul sesso degli angeli!

Talvolta mi capita di leggere il pensare dolce, soave e mistico di miei colleghi; di primo acchito quasi mi sento un pesce fuor d’acqua, però un momento dopo mi ribello al pensiero di un cristianesimo angelicale, avulso dai problemi reali della vita.

Il nostro nuovo Papa mi ha confortato alquanto quando disse che i preti devono “odorare da pecore”, perché devono essere totalmente coinvolti dalla vita e dalle vicende del loro “gregge”.

Talvolta sono un po’ preoccupato per la mia solitudine ideale, ma poi decido, ancora una volta, di essere cristiano e prete che “puzza” dei problemi della sua gente.

L’avventura del pulmino

Lo scorso anno il presidente della municipalità ha accompagnato al “don Vecchi” una ragazza piuttosto avvenente per farmi una richiesta-proposta: ossia mi chiedeva se io avrei gradito la fornitura, a titolo gratuito, di un “doblò” attrezzato con carrello sollevatore per trasporto di persone disabili.

La cooperativa che proponeva l’operazione avrebbe fornito l’automezzo, pagato l’assicurazione e il bollo e l’avrebbe ceduto con un tipo di comandato gratuito per quattro anni rinnovabili.

D’istinto mi venne da pensare: “Troppa grazia, sant’Antonio!”.

Poi questa agente della cooperativa illustrò tutti gli aspetti dell’operazione: il Comune e la Fondazione avrebbero avallato, con atto formale, la raccolta della pubblicità presso le aziende cittadine, per cui l’automezzo sarebbe apparso come il manto di un leopardo, ma con macchie di misura e di colore diversi in rapporto alle “icone” richieste dalle singole ditte.

Sembrava che la somma necessaria – cinquantamila euro – sarebbe stata reperita in pochi mesi, ma la crisi economica rallentò decisamente la raccolta. Le aziende, anche le più sane, sono piuttosto guardinghe oggi nello sborsare denaro per farsi pubblicità. Spesso mi giungevano telefonate dalle ditte interpellate, per garantirsi che non ci fossero inganni. Comunque, anche se con una certa fatica, siamo arrivati in porto e con un rito solenne, ci è stato consegnato l’automezzo.

L’impresa m’ha fatto felice per più motivi, da un lato perché il “don Vecchi” è oggi, presso i cittadini, un ente riconosciuto, stimato e meritevole di essere aiutato, e dall’altro lato perché l’automezzo, con l’attrezzatura per il trasporto di disabili, ci è quanto mai utile per accompagnare gli anziani presso gli ambulatori per le visite mediche che oggi sono quanto mai frequenti. Ora si tratterà di reperire tra i residenti un volontario e il servizio sarà bell’e pronto ed efficiente.

Attualmente il parco macchine del “don Vecchi” e delle associazioni che vivono in simbiosi, è ormai rilevante: cinque furgoni, dei quali uno con frigo e due doblò. L’azienda sta prendendo consistenza!

La carità non è un costo ma un ricavo

Quarant’anni fa, quando decidemmo di aprire la mensa di Ca’ Letizia, uno dei problemi che maggiormente ci preoccupò fu quello di trovare i soldi per pagare la cena ai cento commensali potenziali. Per attenuare la preoccupazione, decidemmo di richiedere un piccolo compenso da parte degli ospiti. Partivamo infatti dall’idea che i concittadini che avessero voluto aiutare un povero, invece di arrischiare che questi andasse a bersi l’elemosina, prepagassero una cedola equivalente ad una cena.

La trovata funzionò solo in parte. Pochi cittadini infatti, per i motivi più diversi, aderirono all’iniziativa, mentre alcune parrocchie – quelle di via Piave, San Lorenzo e Carpenedo – acquistarono ingenti quantitativi di “buoni cena” che poi distribuivano in giorni prestabiliti ai questuanti che non mancano mai alla porta delle canoniche.

Quando iniziammo a distribuire i mobili, i vestiti, la frutta e verdura, partendo da questa esperienza ed aggiungendovi le considerazioni che la beneficenza arrischia di produrre assuefazione alla mendicità cronica e che invece fosse educativo, per creare una città solidale, che anche i poveri aiutassero chi è più povero di loro, abbracciammo la dottrina che “magari poco, ma ognuno deve dare qualcosa in cambio dell’aiuto ricevuto”. Questa dottrina portò alla conclusione che il “polo della carità” del “don Vecchi” (distribuzione vestiti, mobili, arredo per la casa ed altro) non solo non è passivo, ma in realtà risulta una delle voci più consistenti della Fondazione Carpinetum a cui vengono destinati i proventi dei magazzini. Adottai la stessa logica per il Foyer San benedetto, con lo stesso risultato.

Ora pare che il Patriarca desideri che la Chiesa mestrina crei una struttura di accoglienza notturna per chi è in disagio abitativo e penso che ci sia grossa preoccupazione per reperire i soldi necessari per fare la struttura, ma soprattutto ci sia la grave preoccupazione per il costo della gestione.

Sono convinto che se si adotterà la dottrina del polo solidale del “don Vecchi”, non solamente questo “albergo” per i senzatetto non peserà sulla diocesi o su chi lo vorrà condurre, ma dovrà invece diventare una voce attiva.

E’ tempo che si esca dalla vecchia mentalità assistenziale per aiutare ogni cittadino, ricco o povero, a “farsi prossimo” del fratello che incontra bisognoso sulla sua strada.

La puzza delle pecore è il profumo del prete

Sto divertendomi alquanto immaginando le reazioni dei sottili ed acuti docenti di teologia, di pastorale, di psicologia e di tutte quelle discipline ecclesiastiche che attengono al rapporto fra il sacerdote e la sua gente quando sento il nuovo Papa auspicare che i “pastori” puzzino di pecora.

Molto probabilmente sarà difficile che queste reazioni vengano a galla in maniera manifesta, che i giornali e le riviste cattoliche le riportino all’attenzione dei lettori; di certo invece rimarranno al chiuso, nella penombra dei conciliaboli degli addetti ai lavori che la vita e la gente la conoscono solamente dai libri.

Il Papa non ha usato circonlocuzioni o discorsi complicati per affermare che i religiosi e chi si occupa dei cristiani e della gente del nostro tempo, devono calarsi dentro a queste realtà, e non possono vivere segregati da esse dietro la siepe dell’orticello dei devoti, ma devono riprendere a diventare lievito che fermenta dal di dentro la pasta umana adoperando le parole, le vesti, i modi di essere e di porsi che siano dello stampo di quelli adoperati dalla gente di oggi.

Il Papa sta tentando di far saltare gli steccati, le balaustre, le distinzioni. Le avanguardie cristiane tutto questo l’han capito da tempo. Ci sono infatti abbondanti testimonianze di “operatori pastorali” che hanno scelto di vivere “con loro, per loro e come loro” per tentare di far maturare le potenzialità della gente, far fiorire quelle sementi che il Signore ha seminato con abbondanza nella coscienza di tutti.

Il problema ora è far si che anche “il grosso della Chiesa”, in tutte le sue articolazioni, si lasci coinvolgere in questa scelta ed esca dal chiuso, non solo di una mentalità estranea al modo di pensare dell’uomo di oggi, ma anche da un certo appartarsi, quasi sia timorosa di farsi influenzare da quello che Gesù definiva “il mondo”.

Oggi la Chiesa, nella figura del prete e dei cristiani più impegnati, deve presidiare il territorio, dialogare soprattutto con gli uomini reali e non quelli delle definizioni libresche, vivere accanto, partecipare alle problematiche attuali, lasciarsi coinvolgere. La Chiesa non può rifugiarsi in un mondo elitario, isolato dal resto del mondo. Già la rivoluzione francese aveva scalzato “il terzo stato”.

E’ un po’ particolare, però è quanto mai efficace la richiesta del Papa che i cattolici, e soprattutto i preti, siano impregnati dall'”odore della gente reale”!

La banda di don Emilio

A dire la verità ho la sensazione che da qualche anno a questa parte la Chiesa, i laici e i preti della nostra diocesi appaiano pochino nella stampa locale e spesso non facciano più notizia. Ho l’impressione che il gregge veneziano sia perfino più timido e più riservato delle “pecore con la lana”.

Qualche settimana fa c’è stata una notizia da sei colonne sul quotidiano locale in cui don Emilio Torta, il parroco di Dese, ha affermato, facendo eco al parroco di San Vito e Modesto di Spinea, che è preferibile rubare ai ricchi, perché i poveri non siano costretti alla disperazione e al suicidio.

Tutto questo ha avuto il precedente di un suicidio “per crisi” a Spinea e un seguito: una banda ha assaltato un furgone portavalori nell’autostrada con un bottino di cento milioni di euro. Dopo questo secondo evento però non ho ancora sentito dire che gli assalitori dei ricchi dei supermercati abbiano cominciato a distribuire i soldi ai poveri!

Di primo acchito m’era venuta la tentazione di prendere in mano il telefono per dire a don Emilio, prete che ammiro e stimo quanto mai,: «Aderisco alla tua banda!» Infatti lui ha dichiarato al “Gazzettino” che era disposto a mettersi a capo di chi era disposto a togliere ai ricchi per dare ai poveri.

La cosa si ingarbugliò però subito: il questore ha affermato che le leggi valgono per tutti. Questa è un’affermazione ingenua e ipocrita, perché non è vero che in pratica sia così, infatti c’è ormai una “casta”, come si usa dire, che ruba “legalmente”. Un ladro di professione ha affermato poi che da una vita fa questo mestiere, però ha passato più di venti anni in galera.

E poi ho cominciato a riflettere: “Se con don Torta riusciamo a portare a termine qualche colpo a scapito di una delle poche aziende che funzionano ancora, ci saranno nuovi disoccupati che s’aggiungeranno alla folla immensa che c’è già ed inoltre si spegnerebbe una fonte che produce ricchezza e quindi ce ne sarebbe ancora meno da spartire.

Perciò penso che sia più giusto che ce la prendiamo con chi da troppo tempo campa fin troppo bene sulla cattiva gestione del denaro “estorto legalmente” al cittadino, con chi continua beatamente a lavorare poco e male, con chi passa il tempo in schermaglie verbali e fittizie, semina sogni impossibili e favorisce l’ingiustizia e perpetua l’oppressione del povero.

Ho quindi pensato di suggerire a don Torta che da un lato impegniamo le nostre comunità a puntare concretamente su obiettivi solidali e, dall’altro lato, continuiamo a denunciare senza sosta e senza risparmi di colpi, chi sta conducendo alla miseria economica e morale il nostro Paese.

La prova del nove sulla validità dell’innesto cristiano

Uno dei più gravi problemi che mi assillano, come prete, è quello di trovare un modo per convincere che la religiosità non è come un bollo di maggior o minor valore, che si incolla sulla vita di una persona, ma è un’energia, un incanto, una primavera interiore che pervade, profuma e rende bella la vita di una persona. Ho invece la brutta sensazione che per moltissimi battezzati la risposta che si reputa adeguata alla proposta del messaggio cristiano, si riduce alla pratica, più o meno fedele, a certi riti, a certe osservanze proposte dalla pratica religiosa della tradizione.

Per me tutto questo è quasi niente! La fede, per me, è quasi la sorella gemella dell’amore che, quando un uomo incontra, diventa qualcosa che pervade l’anima, il cuore, la mente e lo porta a dire e a fare certi gesti che, però, non sono essi l’amore, ma delle gemme che spuntano e fioriscono quando esso diventa linfa vitale.

Qualche mattina fa nella mia meditazione, ho incontrato la confidenza di una signora che mi pare esprima in maniera semplice ma convincente il concetto suesposto. «Si vede che siete madre e figlia», aveva detto il commesso del negozio dove abitualmente andavamo a fare la spesa. «Abbiamo sorriso, senza neanche commentare. Avevamo già sentito altre volte questa frase che ci diverte perché siamo madre e figlia, ma non abbiamo il DNA in comune. Mio marito ed io abbiamo infatti adottato nostra figlia quando aveva sei settimane. Vivendo assieme per venti anni certamente lei ha preso molto da me, pensiamo in modo simile, le nostre espressioni di voce e i gesti sono simili, amiamo entrambe il Signore, chi ci osserva nota queste somiglianze».

Ora pongo questa domanda per me. Penso che ognuno possa, anzi debba porsela: “Io sono stato adottato da ben 84 anni da Gesù; ebbene chi mi incontra può affermare, come il commesso del negozio: «Si vede che sono padre e figlio?’».

San Paolo ha affermato: «Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me». Talmente egli aveva assimilato le movenze, le parole e il pensiero di Gesù! Non so però se noi, duecentomila battezzati di Mestre, diamo la stessa sensazione. La religione o produce questa osmosi di sentimenti e di pensieri, motivo per cui essa realizza la funzione dell’innesto sull’albero selvatico e produce i fiori e i frutti dell’innesto, o altrimenti quel tentativo di innesto è totalmente fallito e l’albero rimane selvatico, primordiale e infruttuoso.

Non vorrei trovarmi alla fine della vita, dopo tante messe e tanti rosari, a sentirmi dire: «Non ti conosco, perché non mi rassomigli per nulla!».

Ho paura

Conosco tanti amici e tanta gente che ha votato “Grillo”, ossia il Movimento cinque stelle. Premetto subito che capisco fino in fondo l’immensa ondata di protesta che sale dal basso contro una classe politica rissosa, avida, inconcludente, corrotta e faziosa.

Anche in occasione dell’elezione del nuovo presidente, del tentativo prima di Bersani e poi di Letta di dar vita ad un governo di coalizione – il solo possibile dopo l’assoluto rifiuto dei parlamentari del Movimento cinque stelle di parteciparvi – ci sono stati e, per disgrazia, ci sono ancora, dissensi, mugugni, minacce di votar contro da parte dei cosiddetti “falchi” sia di destra che di sinistra.

Una volta scoppiato “l’imprevedibile miracolo” che destra e sinistra, pur costrette, si siano messe finalmente d’accordo – fatto per cui dovremmo cantare il più solenne Te Deum – c’è ancora invece gente che neppure di fronte alla catastrofe rinuncia ad essere faziosa.

Ora tutto questo fa comprendere e giustifica il movimento di Grillo che afferma di voler spazzar via una classe politica così deludente e inconcludente e rappresenta il malcontento, lo sdegno e il rifiuto di una larga parte del popolo italiano. Quindi ritengo che sia più che comprensibile questo rifiuto radicale, però penso che la soluzione proposta sia, come dice la nostra gente: “pèzo el tacòn del buso”.

Primo: la filosofia sconclusionata di Casaleggio, l’ideologo del movimento, che si atteggia a nuovo redentore del genere umano, pare quello che di più fumoso si possa immaginare. Secondo: il metodo padronale, autoritario, intollerante e minimamente rispettoso della libertà e del pensiero dei suoi adepti, del comico datosi alla politica, mi fa paura, mi fa veramente paura!

Mussolini, Hitler, Stalin. Ceausescu, Tito e tutti i satrapi dell’ultimo secolo sono andati al potere e han commesso i peggiori crimini della storia partendo da questi presupposti ed usando nella fase iniziale gli stessi metodi.

Mi auguro che la gente, dopo aver dato un segnale forte ai vecchi politici votando per Grillo, ora riesca a farsi rappresentare da una generazione nuova di politici che dialoghino e accettino le regole basilari della democrazia. Io che ho visto che cosa hanno fatto il Duce, Stalin, Hitler e compagni, spero di non dover fare un’altra volta esperienze del genere e perciò dico chiaro e tondo ai miei concittadini: «Io ho paura, state attenti!».

Il segreto dell’attivo

Le confidenze di qualche collega mi hanno turbato in quest’ultimo tempo. Sono venuto a conoscenza che qualche operazione sbagliata e qualche conduzione poco attenta ha messo in difficoltà qualche ente che ruota attorno al mio piccolo mondo.

D’istinto, più volte in questi giorni, mi sono chiesto: “Come mai il don Vecchi gode buona salute, coltiva progetti di sviluppo, come mai la sua contabilità non ha mai conosciuto il rosso? Sono ben lontano dal pensare di potermi ergere a maestro, se non altro perché mai nessuno del mio mondo mi ha chiesto i “segreti” di questa nostra realtà che, nonostante i tempi difficili e la crisi incombente, sogna, progetta e si proietta nel futuro.

Di certo io non ho mai pensato di avere capacità manageriali, ancorché qualcuno, forse per affetto o forse per spirito critico, talora mi abbia definito “l’imprenditore di Dio”.

Monsignor Vecchi, quando io, giovane prete, sognavo ad occhi aperti e proponevo progetti avanzati, mi ripeteva: «Ora, don Armando, non hai responsabilità economiche, ma quando non sarà più così, t’accorgerai quante difficoltà si incontrano!». Questo monito mi ha sempre aiutato ad essere cauto, a non essere spericolato, ma soprattutto a farmi aiutare.

Ieri pomeriggio sono andato al “don Vecchi” di Marghera per l’inaugurazione di una delle tante “personali” che si susseguono ogni quindici giorni. Una volta ancora sono rimasto incantato dal buon gusto, dalla signorilità, dalla cura del prato, come delle sale interne. I numerosi ospiti che sono intervenuti per l’inaugurazione della mostra non facevano che ripetere che quello era un hotel, non una casa di riposo! E mi guardavano come io fossi l’artefice di tanta bellezza, mentre io arrossivo di fronte a queste lodi, perché il merito di tanta armonia era ed è tutto di Teresa e Luciano, la coppia di sposi che investono il meglio del loro cuore e della loro intelligenza per questa struttura che amano e curano come fosse il loro castello, il più bel “gioiello di famiglia”.

Anch’io sono rimasto a bocca aperta di fronte all’incanto di una residenza che si potrebbe immaginare destinata a ricchi mercanti o appartenenti al patriziato veneziano.

I Centri don Vecchi sono vivi, efficienti, belli ed in attivo, perché non c’è settore che non possa contare su un numero sconfinato di persone belle e care che offrono il meglio di sé agli anziani senza censo e, spesso, senza famiglia.

Garantisco fino agli 85 anni

Al lunedì mattina scendo nell’interrato del “don Vecchi”, ove una decina dei miei ragazzi-scout di più di mezzo secolo fa, stampano le cinquemila copie de “L’incontro”, facendo girare a tutto vapore le due “rotative”. Nessuno può immaginare con quanto piacere incontro questo gruppetto di “ragazzi” che dedicano un’intera mattinata alla stampa del settimanale, quanto mi faccia piacere vedere il cameratismo, la cordialità, il senso dell'”impresa e d’avventura” che anima questi pensionati. Spero di averli aiutati anch’io a capire quant’è importante a questo mondo “servire” a qualcuno o a qualcosa.

Mi vergogno un po’ a dirlo, però talvolta mi vien da pensare che loro siano “i pezzi” meglio riusciti del mio impegno di tempi così lontani, se a settant’anni e più si divertono ancora come ragazzi a seminare nell’intera città questo periodico che rappresenta ogni settimana un’autentica “avventura” per la sessantina, settantina di appartenenti alla terza e quarta età che ne sono coinvolti.

Ogni volta che scendo in tipografia ritorno felice come un bambino e ogni volta uno o l’altro ha sempre qualcosa da raccontarmi, qualcosa che mi consola e mi fa dimenticare che a ottantaquattro anni avrei diritto alla “pensione definitiva”.

Questa mattina Oscar, il vecchio capoclan, mi ha raccontato che era appena tornato da Rimini, dove aveva partecipato ad un convegno di quindicimila aderenti al movimento “Rinnovamento dello spirito”. Appena mi diede questa notizia ho immediatamente capito che c’era stato di certo lo zampino di Donata, sua moglie, la ragazzina tutta pepe e sale che ogni tanto mi faceva leggere qualche pagina del suo diario, attraverso il quale raccontava a “Miche” le sue avventure di adolescente.

Finché potrò continuare a raccogliere confidenze ed esperienze del genere potrò dire a quei giovani preti, che ci sono ancora, che vale la pena giocarsi tutti sul mondo dei ragazzi e dei giovani, e ai preti più anziani che almeno fino agli ottantacinque anni si possono fare e vivere esperienze ed eventi quanto mai interessanti quando si investe sul volontariato.

La Bindi

Venti, trent’anni fa la signora Miraglia, che è stata in politica per tutta la vita a livello locale, mi ha raccomandato in maniera appassionata la candidatura in parlamento di una giovane signora di Firenze.

Fin da allora, anzi allora più di oggi, c’era il problema che erano poche le donne che partecipavano a livello nazionale al governo o alle cariche più importanti di partito. A quel tempo i cattolici avevano come punto di riferimento la Democrazia Cristiana e lo spazio di libertà permesso dalle gerarchie ecclesiastiche era solo quello di poter usare del voto di preferenza.

Prima di allora la libertà di coscienza consentita era ancora minore; infatti le prime reprimende che mi si fecero in seminario furono quelle di mettermi in guardia, di sconsigliarmi, anzi di proibirmi di parlare a favore di aspiranti politici che rappresentavano la sinistra di quello schieramento politico. A quel tempo all’appartenere per nascita al mondo dei poveri s’era aggiunta la lettura di “Adesso” di don Mazzolari, ed infine la mia giovinezza aveva perfino esasperato la mia radicalità. Sono convinto, anche se molti amici sono di diverso parere, che per tutta la mia vita mi abbia accompagnato il desiderio di schierarmi a favore degli “ultimi”.

Ebbene, la signora Miraglia, che faceva campagna elettorale per Rosy Bindi, per avvalorare il suo suggerimento politico, mi disse che la candidata fiorentina apparteneva ad una congregazione religiosa laica. Non ricordo se allora ho dato la preferenza alla Bindi, comunque oggi ne sarei profondamente ed amaramente pentito, vedendo l’astiosità, anzi la repulsione della Bindi verso i suoi avversari in politica e, peggio ancora, verso i compagni che tentano di salvare il Paese dando vita alla “grande coalizione” che in Germania funziona da tanto tempo senza che alcuno si scandalizzi.

Ora penso che sia proibito, a causa della omofobia o di qualcosa del genere, dire che la Bindi è una vecchia zitella inacidita, perciò mi guardo bene dall’affermarlo, però un tempo l’avrei detto senza tante preoccupazioni. Una credente, una cristiana ed una monaca che si scandalizza e rema contro perché dei suoi colleghi di partito stanno tentando di salvare l’Italia facendosi dare una mano dai vecchi avversari, penso che meriterebbe questo e tanto altro.

La Chiesa dei poveri

Ho letto su “Gente veneta” che il nostro Patriarca ha espresso l’intenzione di creare a Mestre una struttura ricettiva per i concittadini che dormono in stazione, negli ingressi dei condomini o per strada. Ora si trattava di reperire il luogo e i mezzi economici per dar vita a questa nuova struttura, che poi sarebbe la prima che la Chiesa apre a Mestre.

Già in una pagina di diario di qualche settimana fa non solamente ho espresso tutto il mio consenso, ma pure mi sono azzardato ad offrire, pur non richiesto, dei suggerimenti. Quello di un’accoglienza dignitosa, civile e cristiana, è un problema di un’estrema gravità e di un’estrema urgenza.

Qualche settimana fa due giovani signore che attualmente lavorano al “don Vecchi” e alle quali abbiamo offerto, oltre al lavoro, anche un piccolo alloggio, in un momento di confidenza mi hanno raccontato come si sono inserite nella nostra città. Una delle due è entrata in Italia con un permesso turistico e l’altra è arrivata a piedi in venti giorni di cammino, dormendo nei fienili e chiedendo la carità. Una volta a Mestre ambedue han dormito un paio di mesi presso la stazione ferroviaria e mangiato a Ca’ Letizia e dai frati finché non riuscirono a trovare un lavoro. Oggi la situazione è certamente ancora più difficile di qualche anno fa per le donne che giungono dalla Moldavia, dalla Romania e dall’Ucraina e cercano di inserirsi nella nostra città. Per questo motivo riterrei che sarebbero necessarie due strutture: una con caratteristiche particolari per i senza fissa dimora che, per scelta, per incapacità o per malattia, sono senza tetto, ed una invece per le persone che hanno bisogno di un ambiente di prima accoglienza per inserirsi poi nel tessuto civile, avendone essi la volontà e la capacità di farlo.

A quanto si dice, ho la sensazione poi che versando la diocesi in un momento finanziario difficile, ci sia una preoccupazione di imbarcarsi in nuovi debiti. Però, se questa situazione riguarda la diocesi, non è la stessa cosa per le parrocchie che, se invitate con la richiesta di quote ben precise da parte della Chiesa veneziana, potrebbero sobbarcarsi questo impegno. La Chiesa dei poveri o batte questa strada, oppure non va da nessuna parte e si riduce ad una farsa controproducente.

Quali sono le strutture religiose?

Recentemente ho sentito parlare di una struttura per anziani gestita da un ente religioso che si trova in grosse difficoltà. Si trattava di vedere come poteva essere salvata.

In quell’occasione ho riflettuto più serenamente del solito sui criteri per i quali una struttura merita di essere sostenuta dalla Chiesa, perché se un ente religioso si muove con gli stessi criteri adottati dallo Stato, dal Comune, oppure da una qualsiasi impresa e con cui essi perseguono le stesse finalità, credo che proprio non valga la pena di tentare il salvataggio.

Ha senso che la Chiesa si impegni solamente se riesce ad offrire servizi migliori con minimi costi, se è più attenta ai bisogni delle persone, se accoglie e garantisce anche ai più poveri un trattamento ottimale, se riesce a coinvolgere il volontariato, se offre soluzioni innovative, ma se il risultato fosse una casa di riposo come tutte le altre non varrebbe proprio la pena che la Chiesa impegnasse uomini e forze per fare una concorrenza assurda; peggio ancora non sarebbe giustificato alcuno sforzo se la gestione fosse claudicante, così da produrre debiti piuttosto che aspetti positivi.

Io ho sempre considerato la Chiesa come una mosca cocchiera che apre orizzonti nuovi e migliori, che trova soluzioni più economiche e più attente alla persona, che copre spazi scoperti e che quando ha dato la sua bella testimonianza di solidarietà si mette da parte passando la mano alla società civile rivolgendosi poi a settori in cui c’è bisogno che qualcuno con coraggio e generosità si impegni a favore di chi è dimenticato da tutti e che rimane in balia degli eventi.

Oggi, ma credo sempre, ci sono spazi abbandonati a se stessi; che non avvenga che pure la Chiesa e le sue articolazioni puntino solamente là dove si tratta di guadagnare più facilmente e con meno rischi.

Cattiva traduzione del messaggio

Nelle domeniche dopo Pasqua la Chiesa offre ai fedeli pagine del Vangelo di Giovanni. Io, che non mi muovo sulla stessa lunghezza d’onda di questo evangelista, sono costretto a riflettere in maniera più impegnata perché amo quanto mai la concretezza, mentre Giovanni è un mistico che si muove in altezze per me siderali.

Quest’anno, per la prima domenica dopo Pasqua, ho riflettuto più a lungo, ed in modo più faticoso, sulla pagina di Giovanni che riporta le parole di Gesù nel cenacolo: «Vi do un comandamento nuovo, che vi amiate gli uni gli altri». Sono arrivato, una volta ancora, alla conclusione che il cuore del messaggio di Gesù è la solidarietà, ossia un amore concreto, nonostante tutte le difficoltà. L’utopia di Gesù credo che abbia come obiettivo sostanziale la solidarietà; infatti Cristo afferma che dal modo in cui sapremo vivere questa virtù si potrà misurare la nostra adesione al suo messaggio.

Purtroppo l’interpretazione di questo discorso che s’è data lungo i secoli spesso è stata quanto mai svisata e difforme. Infatti anche oggi nell’opinione corrente, da un lato si è interpretato l’impegno alla solidarietà in maniera limitata, così da ridurre questa utopia angelica ad “elemosina”, ossia la destinazione ai fratelli di spiccioli del superfluo e, dall’altro lato, sempre per motivi di comodo, s’è praticamente fatta passare l’idea che la qualifica di discepolo di Cristo la si guadagni solamente con la partecipazione ai riti religiosi.

Certa casistica al riguardo è una riprova di questa pessima ed assurda interpretazione del messaggio cristiano. Fino a pochi anni fa si discuteva infatti sulla percentuale di superfluo dovuto ai poveri, tanto da arrivare a dire che il due per cento era la misura sufficiente, e dall’altro lato era aperta una discussione vivace sui limiti del tempo necessari per la validità della partecipazione al sacro rito dell’Eucaristia.

Credo che siamo ancora ben lontani da una seria traduzione pratica del “comandamento nuovo” datoci da Cristo.

“Piazza Maggiore”

Oggi qualcuno ha deposto sul “tavolo cortesia” della grande hall del don Vecchi una decina di copie di “Piazza maggiore” n° 43 del 23 aprile. “Piazza maggiore” è il periodico della parrocchia del duomo di San Lorenzo di Mestre, che passa contenuti e dialoga con l’intelligentia della città e la civica amministrazione. Il giornale-rivista, che esce periodicamente ma con una certa frequenza, è un periodico di grandi dimensioni, pressappoco ha il formato de “Il manifesto” di un tempo e per la maggior parte è dedicato ogni volta ad un tema particolare, senza però trascurare aspetti significativi della vita della comunità cristiana del duomo.

Il direttore è “don Fausto”, monsignor Bonini, che però si avvale sempre di firme di giornalisti seri o di personalità significative della città. La parrocchia del duomo pubblica anche un foglio settimanale, “La Borromea”, per l’informazione spicciola di questa comunità estremamente articolata; usa inoltre con disinvoltura quel vasto e variegato nuovo mondo del digitale che io, che appartengo ormai al “Piccolo mondo antico”, conosco solo in maniera approssimativa, ma del quale la parrocchia di San Lorenzo fa uso abbondante e con tanta dimestichezza.

La lettura dell’ultimo numero di “Piazza maggiore” mi porta a due considerazioni, di cui ho già parlato, ma su cui sento il bisogno di ritornare perché ritengo che la Chiesa veneziana e le relative comunità parrocchiali, come pure la direzione diocesana, non siano coscienti di avere in diocesi una comunità con una strutturazione pastorale e dei mezzi di comunicazione che sono in assoluto i più avanzati e i più rispondenti ad una impostazione pastorale moderna.

Io sono un prete fuori gioco e “vecchio”, come mi ha definito il Patriarca, quindi non ho alcun interesse da difendere e perciò per questo ritengo di essere credibile. Ebbene penso che l’impostazione pastorale della parrocchia di San Lorenzo sia in assoluto la più aggiornata e la più attenta alla nuova società che si affaccia alla ribalta del nostro tempo.

Conosco anche altre belle ed efficienti parrocchie, che però si rifanno ancora a vecchi schemi ormai usurati o perlomeno non aggiornati sui nuovi modelli di società organizzata. Ho l’impressione quindi che la diocesi di Venezia possegga una “fuori serie”, una “Fiat cavallino rosso”, che potrebbe essere punto di riferimento anche per tutte le altre comunità, mentre mi pare che rimanga isolata, ignorata e poco conosciuta.

Spero che queste umilissime note possano destare il meritato e doveroso interesse.

Il grande prato

Alla domenica, il cui pomeriggio lo considero giorno di riposo, mi concedo il lusso di seguire alcune rubriche della televisione. Il guaio però è che esse si sovrappongono. Mi piace quanto mai “L’Arena”, condotta dal bravissimo Massimo Giletti, anche se ho scoperto che c’è un cast di giornalisti di professione che tessono il contradditorio, comunque mi pare che la rubrica faccia emergere le contraddizioni, le magagne e le assurdità del nostro Paese. Mi piace pure “Mezz’ora”, condotta dalla Annunziata, la giornalista di sinistra per la quale ho un rapporto di “amore-odio”. La ritengo però una donna intelligente e preparata che fa emergere quasi sempre le vere convinzioni dei personaggi di spessore sociale che intervista.

Infine mi piacerebbe seguire anche la rubrica “Alle falde del Kilimangiaro”, condotta dalla bella e accattivante Licia Colò. Ogni volta che vedo questa donna mi vien da chiedermi: “Quanto costerà a suo marito?” Penso che abbia un guardaroba grande come un ipermercato!

Vincono però le due precedenti rubriche su quest’ultima, che pur mi piacerebbe seguire perché, pur comodamente seduto in poltrona davanti al televisore, essa mi mostra gli angoli più remoti e più belli di questo nostro mondo che, nonostante tutto, è rimasto semplicemente meraviglioso.

Ho trovato però un surrogato a questo programma, che pure è a portata di mano ed è sempre nuovo e sempre bello davvero. Il mio alloggio è composto da un salottino d’ingresso, da una cameretta e da uno studiolo. L’ingresso ha una porta che s’apre sul “corso principale” del don Vecchi, percorso ad ogni ora del giorno da pedoni e da deambulatori. L’ingresso ha pure una seconda porta-finestra che s’apre su un terrazzino che mi offre la vista di un grande campo incolto, proprietà dell’antica società dei 300 campi. Quando sono stanco di star seduto, o mi sento affaticato dal susseguirsi delle immagini offertemi dal grande televisore, mi affaccio al terrazzino ed appoggio dolcemente lo sguardo sul grande campo. Vi assicuro che non è mai uguale!

Oggi s’è vestito di un verde-giallo leggero e quanto mai leggiadro, domani o dopodomani so che sarà un quadro di Van Gogh dove il giallo luminoso dominerà incontrastato come un manto regale.

Spesso mi scopro un uomo fortunato, perché non sono costretto a cercare la bellezza in luoghi lontani perché essa bussa ogni giorno alla mia porta-finestra con abiti molto più belli di quelli della Licia del televisore.