Non è proibito sognare

Ringrazio il Signore perché, nonostante la mia tarda età, sento ancora il bisogno di sognare e di perseguire qualche altro progetto. Ricordo bene un’affermazione del mio vecchio Patriarca, il cardinale Roncalli, il quale confidava a noi seminaristi che quando aveva un progetto da realizzare ne parlava a destra e a manca, da mattina alla sera, perché era convinto che prima o poi si sarebbe imbattuto in qualcuno che gli avrebbe dato una mano per realizzarlo.

E ricordo pure monsignor Vecchi, mio parroco a San Lorenzo, che affermava che una iniziativa o una struttura non sorgono mai dal nulla per generazione spontanea, ma hanno bisogno di un’opinione pubblica, o meglio di una cultura che maturi e sensibilizzi la gente a questo problema, perché quando c’è questo supporto di ordine sociale, prima o poi qualche iniziativa troverà modo di essere realizzata.

Io, per un sogno o un progetto che coltivo ormai da qualche anno, sono allo stadio di creare opinione pubblica favorevole. Perciò mi sto dando da fare per costruire questa sensibilità perché esso abbia una qualche probabilità di vedere la luce. Ecco il progetto. A Mestre funzionano tre mense dei poveri: Ca’ Letizia della San Vincenzo, la mensa dei Cappuccini e quella dei Padri Somaschi ad Altobello. Tutte e tre funzionano bene e svolgono un servizio di alto livello sociale per la povera gente. Forse in questo momento, in cui morde più duramente la crisi, sono insufficienti; inoltre esse servono il centro di Mestre e la parte sud, mentre la parte nord della città non ha questo presidio sociale. Il mio sogno non è solo quello di servire questa parte del nostro territorio con un’altra mensa, ma pure di offrire un servizio un po’ diverso da quelli che hanno le attuali in funzione.

Io sognerei di puntare su un “ristorante” oppure su una tavola calda di carattere popolare, sempre con la dottrina di offrire un servizio a pagamento, però alla portata delle persone meno abbienti. Penso ad una struttura nella quale, convenzionandosi con uno dei tanti catering esistenti e coinvolgendolo in questa opera umanitaria, il pranzo o la cena sia preparata da questa organizzazione gastronomica al massimo per tre euro al pasto, mentre il servizio sia svolto da volontari.

Sogno inoltre che questo “ristorante” dal volto pulito e signorile non sia destinato solamente o principalmente ai mendicanti, ma che vi possano accedere singole persone o famiglie che devono lottare per arrivare alla fine del mese. Come mi piacerebbe che un operaio con moglie e con uno o due bambini, e con uno stipendio di 1200 euro al mese potesse dire ai suoi cari: «Questa sera vi porto a cena fuori!».

Per la realizzazione di questo sogno ho, come vedete, il progetto, ho individuato un terreno in cui possa sorgere ed ho perfino messo da parte qualche soldarello. Manca ancora qualcosa ed è per questo che ne parlo.

01.09.2013

La rivoluzione sociale è appena iniziata, o forse no!

Con l’inizio del campionato di calcio è iniziata la strana e odiosa ballata dei costi dei calciatori e dello stipendio che questa categoria di giocolieri percepisce.

Ho sempre pensato che se un genio fa una scoperta che aiuta in maniera consistente l’umanità, – ad esempio chi ha scoperto la penicillina – meriti un riconoscimento significativo anche a livello economico per il suo apporto al bene della società. Oppure ritengo anche che se un imprenditore, in questi tempi difficili per l’economia, riesce a mantenere a galla la sua fabbrica o, meglio ancora, ad estendere la sua attività assicurando stipendi seri ai propri dipendenti e producendo ricchezza per la società, gli debba essere riconosciuta la sua bravura.

Per me è giusto il criterio della meritocrazia non solamente ad alti livelli ma anche a quelli più bassi, perché l’impegno, l’intraprendenza, la dedizione al lavoro, meritano un riconoscimento economico. Infatti non sono per nulla d’accordo con i sindacati che hanno l’atavica tendenza ad appiattire tutti sugli stessi livelli, sia che un dipendente si impegni sia invece che faccia il fannullone. Con questo non sono minimamente del parere che le persone meno dotate, i disabili e perfino le personalità fragili e labili vengano escluse dal processo produttivo: hanno diritto anche loro di poter vivere dignitosamente, così come chi ha ricevuto da madre natura dei talenti più significativi li metta a servizio anche di chi ne ha meno.

Però vi sono, nella nostra società, delle sperequazioni veramente intollerabili. Credo, anche se comprendo quanto sia difficile, che si debba tendere con il massimo impegno ad una… perequazione economica che tenga conto delle necessità reali di tutti e non tolleri assolutamente più differenze abissali.

Oggi ci sono delle categorie che hanno degli stipendi stratosferici: sportivi, politici, magistrati, dirigenti di enti pubblici, manager, generali e via dicendo. Possibile che, calcolate a parte le spese inerenti alle funzioni di questa casta di privilegiati, non si possa stabilire uno stipendio minimo di mille euro ed uno massimo di cinquemila? La rivoluzione sociale purtroppo pare non solo non ancora iniziata, ma nemmeno progettata.

E dire che se ogni italiano al mattino si rivolgesse a Dio, pregandolo seriamente: «Dacci oggi il nostro pane quotidiano», quasi tutti i problemi del nostro Paese e del mondo intero sarebbero in gran parte risolti.

In attesa di tutto ciò, rinnovo il proposito a livello personale, di consumare solamente il pane che mi permette di vivere, perché quello in più è degli altri.

31.08.2013

Il prete “nuovo”

Trenta, quarant’anni fa la stampa sembrava avere quasi una curiosità morbosa nei riguardi del prete. Letterati di vero talento, sollecitati dall’opinione pubblica, hanno prodotto degli autentici capolavori sulla figura del sacerdote, presentandolo dalle diverse angolature, ma sempre facendone emergere una figura di particolare interesse e ricchezza umana.

In verità non ho mai capito quali fossero i motivi veri che hanno spinto questi narratori a scandagliare l’animo, la vita di quest’uomo di Dio, ma soprattutto della Chiesa. Talvolta ho pensato che fosse il celibato, questa scelta strana e forse inconcepibile per l’uomo della strada, a destare un interesse quasi morboso per i suoi sentimenti. Altre volte m’è venuto da pensare che fosse la lunga tonaca nera a destare il senso del mistero.

C’è stato un tempo in cui mi parve perfino che fosse quel senso di sacralità che la gente ritaglia addosso al prete a farlo ritenere quasi il rappresentante di un mondo sconosciuto e suscitare interesse. Credo però che, amici o nemici del prete, fossero accomunati, per motivi diversi, dall’indagare su questa strana figura. Il prete era, da tanti, avvertito come una realtà venuta da confini misteriosi e, da un numero forse più piccolo, come una mistificazione che approfittava dell’ignoranza degli umili per imporsi. Di certo la lettura di questi romanzi è stata per me determinante nel configurare la mia personalità di sacerdote.

Venne poi il Concilio, che spazzò via il latino, la lingua della messa e del breviario, che quasi distingueva e qualificava il sacerdote; la tonaca fu appesa al chiodo perché troppo ingombrante, soprattutto legata al passato e i sacerdoti inizialmente vestirono il clergyman, abito che li faceva assomigliare un po’ ai pastori protestanti ammogliati, ma ben presto apparvero addosso ai preti le più strane ed eccentriche vesti colte dallo sport o dalla moda. I sacerdoti cominciarono ad uscire sempre più frequentemente dalle canoniche, dai confessionali e dalle sagrestie per vivere intenzionalmente come tutti ed essere più vicini alla gente.

Pian piano l’aria del sacro e del mistero cominciò a rarefarsi e il vestire, il parlare, il comportarsi come tutti, tolsero al prete quel sacro ineffabile, inserendolo e mescolandolo sempre più decisamente con la gente comune.

Sono convinto che era ineluttabile che avvenisse questo processo e che, tutto sommato, esso fu, alla fin fine, vantaggioso. Però, a motivo di questa evoluzione rapida, è sempre assolutamente più necessario che il prete oggi si qualifichi per la santità, l’amore al prossimo, il servizio e per l’offerta di valori e di speranza. Questo percorso però è ben più arduo e difficile del precedente. Il prete del dopo Concilio non ha trovato ancora cantori appropriati e forse non li ha trovati perché la nuova figura di prete non è ancora sbocciata completamente così da meravigliare e da edificare. Papa Francesco, per fortuna, sta tentando di farlo fiorire più velocemente e, da quanto intuisco, sarà un gran bella figura quella del prete nuovo.

30.08.2013

Il governatore

Quando “RAI Storia” non trasmette qualcosa di interessante sono tentato di fare una scappatina sul canale 18 ove trasmette Rete Veneta. Su questo canale mi piace seguire la cronaca di Venezia, anche se quasi sempre è discorsiva, si interessa dei fatti del giorno dei quali hanno già parlato i quotidiani e raramente approfondisce, in maniera adeguata, i relativi problemi. Ma mi piace ancora di più la rubrica “Focus”, diretta da Bacialli, già direttore de “Il Gazzettino” ed ora responsabile di questa rete che mi pare si imponga sempre più all’attenzione della popolazione del Veneto.

Un paio di volte sono stato invitato anch’io a intervenire a “Focus”, una bella rubrica in cui i responsabili locali di enti pubblici o privati discutono su temi quanto mai interessanti riguardanti le problematiche del Triveneto.

Un altro paio di volte sono stato invitato, ma ho rifiutato perché gli studi di questa emittente sono a Treviso ed io mi perderei nel dedalo di strade che oggi sono più intricate di un labirinto per uno come me che annaspa per andare semplicemente a Spinea.

Domenica pomeriggio il direttore Bacialli ha fatto una lunghissima intervista al governatore del Veneto Luca Zaia. Devo ammettere che appena conoscevo questo amministratore; nel passato avevo tentato anche di ottenere un colloquio con lui, ma pare che sia inavvicinabile. Domenica l’ho ascoltato per più di un’ora con vero interesse. Si avvertiva che il sottofondo culturale era quello della Lega, ma fortunatamente, da quanto ho potuto capire, c’era il meglio del progetto e della politica della Lega.

Il primo argomento su cui ha insistito è stato quello di un vero federalismo in cui ogni regione abbia una certa autonomia che permetta di recepire e trovare risposte specifiche ed adeguate ai problemi d’ordine economico, culturale e sociale che riguardano il territorio, smettendola con l’assimilare regioni che hanno una cultura e prassi di vita assai diverse. Non mi è parso che tendesse alla “secessione”, anzi m’è parsa valida l’idea di pensare a Venezia come ad una “città-stato” con specificità particolari, mentre mi è sembrata più che razionale la bocciatura della città metropolitana, perché sarebbe ingiusto lasciar fuori altre città come Belluno, Vicenza o Verona.

Ho avvertito anche lo sforzo di mantener fuori dalle logiche della politica nazionale il governo della Regione che non pare avverta le diatribe in corso.

Così come m’è piaciuto il discorso schietto sulla gioventù che, secondo lui, deve imparare a rimboccarsi le maniche e non attendere la manna dal cielo.

Zaia m’è parso un buon parlatore e, se è vero quello che dicono – che risulta il miglior governatore del nostro Paese – penso che gli si possa dar credito su quello che ha detto e che sta facendo.

30.08.2013

L’ultimo fiore

Per moltissimi anni non ho degnato neppure d’uno sguardo le piante grasse: molte di esse sono munite di spine acutissime, quasi sempre hanno una forma per nulla agile, anzi mi sembrano spesso delle polente, più o meno grandi, di un verde opaco, paciose e sornione, assolutamente inodori, da sembrare quasi dei nani addormentati che non fanno un sussulto neanche se spira la più dolce delle brezze.

Questo atteggiamento di fondo s’approfondì ulteriormente quando un mio vecchio amico intelligente e sornione mi regalò una pianta grassa che assomigliava ad un pallone, ma che, a differenza del pallone, aveva delle spine lunghe ed acutissime, tanto da dovervi girare al largo. Quando mi regalò questa pianta grassa, sapendo che i miei rapporti con la curia non sono mai stati idilliaci, me la presentò come “il fiore della curia”.

La misi sul davanzale, ma una gelata particolarmente rigida dello scorso inverno la fece morire, cosicché non ho più sul davanzale “il dolce e suadente sorriso” della curia. Però ho capito che ci si può innamorare anche in tarda età; ho sentito infatti più di uno affermare che l’amore è cieco e mai razionale.

Le cose sono andate così: una signora amica mi portò in dono, in un pomeriggio d’estate, una pianta grassa che aveva sulla “pancia” una protuberanza marcata e che il giorno dopo mi offrì un fiore di una inaudita bellezza, che mi incantò e mi costrinse ad uscire più volte nel terrazzino per accarezzarlo con uno sguardo pieno di ammirazione, anche perché quel bellissimo fiore – mi aveva avvertito la signora – dura solo un giorno.

Questa pianta in un paio d’anni ha generato figli, nipoti e pronipoti, tanto che dovetti cambiarla di vaso e darle una dimora più grande (le piante infatti pare che non si preoccupino del controllo delle nascite!). Quest’anno fece, in tempi successivi, una decina di fiori. Ieri è sbocciato l’ultimo. So di certo che è l’ultimo fiore per quest’anno. Per godere della sua bianca dolcezza, del suo sorriso che spunta tra le spine acute e bellicose dovrò aspettare la prossima estate.

Ieri, mentre chiudevo le imposte per la notte, gli diedi un ultimo sguardo malinconico di tenerezza e di riconoscenza, mentre mi saliva dal cuore il cantico del poverello d’Assisi: “Laudato sii, mi Signore, anche per le piante grasse inodori e piene di spine”. Ho capito finalmente che se niente niente avessi degli occhi più vigili ed un animo più semplice, ogni giorno coglierei le mille attenzioni del mio Signore ed avrei mille motivi per amarlo e ringraziarlo.

30.08.2013

Scusatemi ma non riesco a fare di meglio

Mi pare sia Bertolt Brecht che ha scritto: “Quando nel `De bello gallico’ si legge che Cesare conquistò la Gallia, penso che non fosse proprio solo ma che avesse con sé almeno un barbiere”, per dire che Cesare fu un brillante condottiero, ma che disponeva delle poderose legioni di romani per vincere Vercingetorige e così conquistare il paese d’oltralpe. Da sempre si dà per scontato che il merito e pure il demerito di grandiose imprese sia solo del capo.

Più volte, nei miei discorsi di inaugurazione delle strutture o delle attività in cui mi sono cimentato, ho sentito il bisogno e il dovere di affermare pubblicamente che con me c’era stata una intera comunità che ha, almeno globalmente, condiviso l’obiettivo che poi è stata indispensabile nel suo realizzo. Credo che per ogni impresa umana avvenga tutto questo. Spesso mi sento lodato o ringraziato per un’opera che è stata realizzata dall’apporto determinante di una intera comunità. Ed altrettanto spesso mi si imputano sbagli, errori e fallimenti che invece sono dipesi dalla balordaggine, dalla indisciplina dei miei collaboratori.

Vorrei pur far presente che mentre nell’esercito o in fabbrica la catena di comando è ferrea, per cui il subordinato deve eseguire gli ordini pena la perdita del posto di lavoro, con i volontari le cose sono ben diverse. Al “don Vecchi” e nei suoi derivati “lavorano” almeno duecentocinquanta volontari, assunti a scatola chiusa, senza alcuno skimming preventivo. Motivo per cui ho con me un po’ di tutto: gente fortemente motivata da valori ideali, gente che non sa come passare il tempo, gente che spera che gliene venga qualche utile, gente che pensa che un volontario possa permettersi di fare quello che crede, e via di seguito. Comunque e sempre sono “lavoratori” spesso splendidi e generosi, però qualche volta povera gente che fa quello che può. In ogni caso il volontario può piantarti in asso quando vuole e per qualsiasi motivo. Sono ben cosciente di avere con me una specie di esercito di Brancaleone, però solamente con queste truppe devo combattere la mia “guerra”.

Un tempo, quando facevo l’assistente della San Vincenzo, avevo come presidente l’amministratore delegato di COIN, il quale inizialmente pensava di poter disporre di un personale selezionato, intelligente, sempre sull’attenti, ma ben presto capì che con i volontari era tutt’altra cosa.

Faccio questa lunga premessa sperando che i concittadini mi perdonino tutte le gaffes, i contrattempi, i malintesi e le furberie che sono tentati di addebitarmi. Qualche giorno fa ho ricevuto una lettera di protesta, giustissima nel suo contenuto, che mi faceva rilevare le deficienze della mia gente. Dovetti scusarmi e dire: «Grazie signora, so bene con chi ho a che fare, però spero che, tutto sommato, sia preferibile fare qualcosa con questo volontariato che far niente senza di esso. Forse per questo motivo alcuni miei colleghi hanno deciso di starsene con le mani in tasca.

29.08.2013

“Cacca d’artista”

Qualche giorno fa una fedele di una parrocchia di Mestre mi ha portato il bollettino parrocchiale della sua comunità, il nome della quale non ritengo opportuno riportare. Nel numero di domenica 25 agosto di questo bollettino è inserito, sotto il titolo “La biennale di don Armando”, il trafiletto che trascrivo integralmente perché i lettori de L’Incontro, che spesso mi manifestano una certa stima, abbiano un elemento in più per farsi un giudizio più obiettivo sulla mia persona e su quanto vado scrivendo.
Il trafiletto non è firmato e quindi è evidente che l’autore è il parroco. Eccovi l’articolo.

La Biennale di don Armando
C’era nel Gazzettino del 10 Agosto, accanto all’articolo dei monsignori di Curia retrocessi al livello di don, un lungo articolo, tratto dal suo melenso foglietto settimanale, su quanto don Armando Trevisiol pensava intorno alla biennale di Venezia. Anche se non l’avete letto certamente immaginate cosa può aver detto don Armando sulla biennale: peste e corna. Non ha fatto altro che straparlare sulla mostra, che certamente da molti anni dà lustro a Venezia, senza probabilmente averla mai vista di persona. Varrà la pena di ricordare che quest’anno è presente anche la Santa Sede per l’opera intelligente che sta svolgendo nel campo della cultura il card. Ravasi. Leggendo l’articolo di don Armando mi è venuta in mente la famosa frase latina “Sutor, ne ultra crepidam” (Calzolaio, non andare oltre la scarpa). La frase circolava all’inizio dell’impero romano ai tempi di Augusto ed ho impressione che se ne trovi traccia in Plinio (non ricordo se si tratti del Vecchio o del Giovane). La frase era attribuita al grande artista greco Apelle che, dopo aver fatto un’opera pittorica, la esponeva e si nascondeva dietro l’opera stessa per raccogliere le eventuali critiche di quanti passavano e osservavano il quadro. Un giorno raccolse le critiche di un calzolaio che aveva criticato la calzatura del personaggio rappresentato; Apelle rimediò alla calzatura e riespose il quadro. Il giorno dopo Io stesso calzolaio ripassò e, dopo essersi gloriato della critica accolta, cominciò a criticare altre parti della figura rappresentata nel quadro; a quel punto Apelle venne fuori da dietro il quadro dicendo al calzolaio la frase sopra riportata: “calzolaio, te ne intendi di scarpe ma non di altre cose”. Vorrei ripetere a don Armando la celebre frase latina parafrasata con l’opportuna variante: “Don Armando, te ne intendi di costruzioni per anziani e per questo ti sei acquistato onore e gloria, ma non strafare, non parlare di cose su cui dovremmo tutti impegnarci per un dialogo fecondo tra fede cristiana e mondo della cultura e dell’arte”.

Chi legge “L’Incontro” di certo saprà le innumerevoli volte in cui ho confessato che non sono laureato, che non ho un solido retroterra culturale perché nella mia vita da prete ho fatto sempre “il manovale”, essendomi sempre impegnato nel campo dei giovani, dei poveri, della scuola elementare, dei vecchi, degli ammalati e dei bambini. L’occupazione di più alto livello culturale è stata quella di aver fatto, con un certo successo, il consulente ecclesiastico dei maestri cattolici, ho insegnato per più di 15 anni alle magistrali e al Pacinotti. Nonostante questo ho trovato modo di pubblicare una trentina di volumi.

Per quanto poi riguarda l’arte, ho dato vita alla galleria “La Cella”, nella quale sono state allestite più di quattrocento mostre. A Villa Flangini abbiamo organizzato parecchi incontri e seminari per artisti. Sempre quando ero parroco, abbiamo dato vita a dodici biennali d’arte sacra a tema. Attualmente gestisco, assieme ai miei collaboratori, la più grande pinacoteca di Mestre, con l’esposizione, nei Centri don Vecchi, di circa 1500 opere. A Marghera ho pure dato vita ad una seconda galleria d’arte, la “San Valentino”, nella quale, allo stato attuale, si sono allestite più di 60 mostre e abbiamo già dato vita a due biennali d’arte sacra. Con questo curriculum pensavo di aver un qualche motivo per esprimere un giudizio critico su certe aberrazioni che io ritengo non abbiano nulla a che fare con quella realtà che finora è chiamata arte.

Infatti a questo proposito ho letto che un artista di fama, Piero Manzoni, è diventato famoso perché “sigillò le proprie feci in 90 barattoli di conserva, ai quali applicò un’etichetta con la scritta «merda d’artista» in italiano, inglese (Artist’s shit), francese (Merde d’Artiste) e tedesco (Künstlerscheiße). Sulla parte superiore del barattolo è apposto un numero progressivo da 1 a 90 insieme alla firma dell’artista. Manzoni mise in vendita i barattoli di circa 30 grammi ciascuno ad un prezzo pari all’equivalente in oro del loro peso”».

Se però il mio collega laureato apprezza questo tipo di artisti s’accomodi pure, mentre io continuerò a rimanere “ciabattino”.

28.08.2013

I miei incontri più belli

Permettetemi di avvalermi dell’importante detto sapienziale, che probabilmente ci è stato donato dalla cultura greco-romana: “Il vecchio ha diritto di dimenticare”, perché spesso sono costretto ad farne uso. Cito ancora una volta due volumetti che mi hanno fatto del bene aprendomi due orizzonti, almeno per me, fantastici.

Il primo è del giornalista Accattoli: “Fatti di Vangelo”. Questo brillante giornalista si è impegnato a scoprire, tra tutto il ciarpame, o la montagna di immondizie alle quali giornalmente danno volto e voce i mass media, quelle “perle preziose”, quegli splendidi fiori che sono di “natura evangelica”. Accattoli si rifà al principio che Gesù non ha ancora finito di parlare agli uomini, cosicché ogni volta che questo giornalista scopre fatti, atteggiamenti o eventi belli e puliti, li ritiene quasi un’appendice aggiornata della “Buona notizia”, ossia del Vangelo.

Il secondo volume è stato pubblicato sette o otto anni fa da parte della diocesi di Venezia sotto il titolo “I santi della porta accanto” ed è una raccolta di storie e di vite di persone sane, pulite e generose che anche oggi si possono incontrare nelle nostre frequentazioni quotidiane. Io sono certo che, anche nel nostro tempo, esistono dei “profeti maggiori”: ad esempio Papa Giovanni, don Milani, il dottor Sweitzer, don Mazzolari, Madre Teresa di Calcutta, don Gnocchi, padre Kolbe, La Pira e tantissimi altri. Però accanto a questi profeti la cui voce ha raggiunto i confini della nostra penisola o del mondo, ci sono anche i “profeti minori”, ossia le persone belle, pulite, umili e generose, che fortunatamente tutti possiamo incontrare nella vita di ogni giorno.

Per me poter scoprire i grandi profeti del nostro tempo, ma anche i piccoli profeti del nostro quotidiano, è una grande fortuna che mi dà speranza e gioia perché essi costituiscono quasi le briccole che segnano i canali nella laguna, o i lampioni che indicano la strada. In una società che ti fa incontrare ogni giorno, attraverso i giornali e la televisione, una folla di loschi figuri sanguinari, truffatori, politicanti, imbroglioni e mezze cartucce inconsistenti, scoprire queste persone è veramente un dono del cielo.

Un mio amico prete, morto una ventina di anni fa, mi disse: «Armando, non conosci due o tre persone per bene?». Io gli risposi che ne conoscevo molte di più. Allora lui soggiunse: «Cammina dietro le loro tracce e non ti smarrirai!».

Spessissimo, quando i famigliari dei defunti di cui celebro il commiato cristiano mi offrono delle storie belle di vite generose e sane delle loro madri o dei loro padri, sono quanto mai felice di questi incontri e di questi nuovi amici che in cielo splendono come stelle luminose.

28.08.2013

Il mio blog

Nota: quando don Armando ha scritto queste righe, non sapeva che il suo diario viene riportato nel blog nella sua interezza.

Faccio queste confessioni perché la gente conosca uno dei tanti disagi che comporta la vecchiaia e perciò abbia comprensione per gli anziani. I miei amici sanno che la mia amicizia con la stampa non è da oggi, perché vi traffico dentro da una vita intera, avendo capito che se non avessi trovato degli strumenti idonei – e soltanto i più moderni sono i più efficienti – avrei avuto la tristezza che il messaggio in cui credo sarebbe stato destinato a soffocare dentro la mia coscienza o comunque non sarebbe andato molto oltre l’ombra del campanile.

Da questa consapevolezza è nato prima il settimanale “La Borromea”, poi il mensile con lo stesso nome. Giunto a Carpenedo, diedi vita al settimanale “Lettera aperta”, al mensile “L’Anziano”, all’altro mensile “Carpinetum” e alla testata radiofonica “Radiocarpini San Marco”. Con la pensione ho fondato il settimanale “L’Incontro” e il mensile “Sole sul nuovo giorno”.

Però ora mi sono trovato di fronte una montagna invalicabile. Appena giunto al “don Vecchi” ho acquistato un computer perché avevo capito che il computer e tutti i suoi derivati digitali – internet, il blog, web, facebook, ecc. erano i mezzi moderni per raggiungere più persone possibili e soprattutto per poter parlare alle nuove generazioni. Allora avevo 77 anni, mi sono spazientito quasi subito e sono tornato alla mia penna biro, perché era un’amica più duttile e più comprensiva della mia impazienza.

Ho regalato il computer e mi sono fatto aiutare da alcuni esperti ai quali però devo ricorrere ad ogni pié sospinto e dei quali mi devo fidare. Pensate che un carissimo amico, per Natale di un paio di anni fa, mi ha regalato il “blog”, col quale potrei offrire il mio pensiero ad un numero sconfinato di persone. Con ciò non sono neanche mai riuscito a sapere cosa dico al mio “prossimo digitale” perché questo amico è stato costretto a scegliere lui i pezzi che lui ritiene più …..inerenti al mio pensiero e spulciando quindi dai miei scritti “mette in onda” quelli che lui ritiene più opportuni.

Faccio questa confessione perché i miei amici più giovani vengano a conoscenza degli “acciacchi segreti” della vecchiaia. Tante volte, specie quando mi occupavo del mensile “L’Anziano”, ho pubblicato dei bei pezzi che andavano sotto il titolo “Le beatitudini del vecchio”, in cui si diceva: “Beato colui che non dice al vecchio `questa cosa l’hai detta altre volte’, oppure beato chi mi parla forte perché sono duro d’orecchio…..” e si continuava ad offrire beatitudini a chi accettava i limiti propri della vecchiaia.

Se mi capiterà l’occasione aggiungerò anch’io una beatitudine: “Beato chi non mostra sorpresa quando sono impacciato col telefonino, quando non so adoperare il computer e perfino quando chi mi fa il piacere di farmi da portavoce sceglie lui, a piacimento, ciò che voglio dire.”

27.08.2013

Foglie secche

Mi ero ripromesso di non intervenire sulla “tempesta in un bicchiere” che ha investito la curia veneziana durante il mese di agosto; in verità però ne avevo già fatto cenno su questo nostro periodico, immaginando che la scelta del Patriarca di retrocedere una ventina di monsignori sia una conseguenza coerente alla rivoluzione radicale – anche se poco apparente – che Papa Francesco sta conducendo avanti. Infatti Papa Francesco, sorridente, dalla battuta popolare e dal comportamento molto simile a quello di un semplice parroco, sta rinnovando la Chiesa in maniera più sostanziale di quanto la gente possa reputare.

Io ho trovato quanto mai logica e opportuna la scelta del nostro patriarca, anche se avrei suggerito di lasciar morire per consunzione i monsignori attuali, non nominandone più di nuovi e questo per non toccare la suscettibilità di chi s’era abituato a fregiarsi di questo titolo che un tempo era onorifico, ma che la sensibilità dell’uomo d’oggi ha svuotato dei pur poveri e discutibili contenuti.

Intervengo solamente perché sono stato stuzzicato da una pungente presa di posizione di mio fratello don Roberto nel suo foglio parrocchiale, “Proposta”. Don Roberto interviene a gamba tesa sull’argomento mettendosi addosso una doppia corazza di difesa. Per il possibile pericolo di essere accusato di invidia per un’onorificenza da lui non raggiunta tira in ballo la celebre favola di Esopo della volpe e l’uva. Per quanto riguarda il merito dei trasferimenti si trincera dietro un passo del Vangelo che toglie veramente il fiato a chi ambisce onori.

Questo discorso di mio fratello potete leggerlo in altre pagine (dell’Incontro del 24/11/2013, NdR) perché lo pubblico anche se è un argomento che non merita troppa attenzione. Ogni tanto penso che non sia peccato soffermarsi su qualche amenità.

Aggiungo una noterella di cronaca che mi permette di suggerire all’autorità costituita di competenza l’opera di purificazione appena iniziata almeno in questo comparto assai marginale. Circa tre, quattro anni fa il vescovo ausiliare mons. Pizziol mi ha convocato dicendomi che il Patriarca Scola aveva pensato di nominarmi monsignore, dato che s’era reso vacante un posto per questa onorificenza. Divenni subito rosso di mio vedendomi bardato da monsignore e gli chiesi quindi la grazia di non mettermi in questo imbarazzo. Il vescovo accettò di buon grado la rinuncia perché gli rimaneva così la possibilità di accontentare qualche altro collega. Dico questo perché non mi si applichi la favola di Esopo e perciò posso permettermi di suggerire sommessamente: «Portate a termine l’opera iniziata perché, pur dopo l’epurazione, ne rimangono fin troppi di monsignori».

Vengo a conoscenza dalla lettura de “La nuova Venezia” che i superstiti monsignori sono: i protonotari apostolici sopranumerari, i protonotari “durante munere”, i canonici residenziali ed onorari della basilica di San Marco, l’arciprete del duomo di Mestre, i prelati d’onore “ad personam” – prelati ad onere “durante munere”, i cappellani di sua Santità, i cappellani delle arciconfraternite di San Rocco, di Santa Maria del Rosario, di San Cristoforo e della Misericordia, il parroco della Bragora e il rettore del Marcianum.

Ora non c’è che da sperare che il vento dello Spirito continui a far cadere le “foglie secche”.

26.08.2013

La cappellana

Mia sorella Lucia, giovane pensionata del reparto di oculistica dell’Ospedale dell’Angelo di Mestre, mantiene praticamente i contatti tra me e don Roberto, il più giovane di noi sette fratelli, che fa il parroco a Chirignago. Il più vecchio e il più giovane della nostra famiglia sono ambedue preti, perciò oltre ai legami di affetto, abbiamo anche il “mestiere” in comune. Ci vogliamo bene, ci stimiamo, ma ci frequentiamo poco perché ambedue ci “tuffiamo” nella nostra attività pastorale pensando di non aver tempo da dedicare ad altre cose.

Pur avendo la parrocchia di don Roberto otto, novemila anime, il patriarca quest’anno ha ridotto a mezzo servizio il cappellano, avendolo assegnato agli uffici della curia per l’intera mattinata. Neanche per farlo apposta, sempre a don Roberto, è stata pure tolta una suora che si dedicava con passione e competenza al catechismo dei ragazzi. Mio fratello è stato quindi costretto a ridimensionare il suo impegno pastorale, tentando di sfrondare le attività meno importanti. Però, dopo questa revisione, gli è parso che ci fossero alcune attività che era opportuno non abbandonare.

Mia sorella Lucia mi ha portato il testo del discorso che don Roberto farà all’assemblea parrocchiale per presentare questo riordino. Tra i vari provvedimenti mi ha sorpreso e incuriosito una decisione che egli presenterà col suo stile che è spesso condito da un certo humour. Scrive don Roberto nel suo documento: “Ho deciso di assumere a tempo pieno direttamente, senza passare per la curia, una “cappellana”. Si tratta di una ragazza preparata ed aderente ad una congregazione religiosa laica, che ha deciso di mettersi totalmente a servizio della parrocchia”. Pare che mio fratello, non appena si libererà un appartamentino della parrocchia glielo assegnerà perché possa dedicarsi con più facilità al suo compito.

A parte la trovata della “cappellana”, credo che ormai sia già giunto il tempo di pensare a dei collaboratori laici, possibilmente preparati e motivati, che si dedichino a tempo pieno alla comunità e che questa si faccia carico del costo di questi nuovi e particolari discepoli di Gesù. A me è parsa una scelta saggia e innovativa, più concreta di certi fumosi e velleitari progetti. Comunque queste sperimentazioni le credo quanto mai utili per superare le gravi difficoltà che le parrocchie stanno affrontando a motivo della carenza di clero.

25.08.2013

Delusione!

Oggi l’amministratore dei Centri don Vecchi mi ha informato che due giorni fa sono stati accreditati sul conto corrente della Fondazione Carpinetum ventiduemila euro provenienti dal cinque per mille. Sono rimasto di stucco essendomi impegnato fino all’ultimo sangue per conquistarmeli, tanto che nel piano di finanziamento del nuovo Centro per gli anziani in perdita di autonomia avevo assicurato all’amministrazione che potevano contare sull’entrata di almeno centomila euro.

Per tutto il 2012 e 2013, ogni settimana, ho fatto un inserto su “L’Incontro”, il nostro settimanale, per invitare accoratamente i lettori a destinare il cinque per mille alla Fondazione perché in questo momento ho particolarmente bisogno di liquidità. Affermai ogni volta che il pensare ai nostri anziani meno abbienti è un sacro dovere e soprattutto insistei che i cittadini possono verificare ogni giorno e senza fatica come vengono impegnate le loro elargizioni. Sarei tentato di dire, se non suonasse a vanteria, che nella nostra città non si possono trovare delle strutture d’ordine solidale così signorili, così attente alla dignità dell’uomo e soprattutto con rette così basse come quelle praticate al “don Vecchi”. Potremmo sfidare tranquillamente chiunque a dimostrarci che nell’Italia settentrionale riescono a trovare strutture simili alle nostre con rette inferiori.

Tante volte ho ribadito tutto questo ai lettori de “L’Incontro”, che pare siano ventimila; ora mi ha amareggiato il fatto che questa mole di lettori ci abbia voltato le spalle ed abbia preferito altre realtà, pur benefiche, però non al livello delle nostre.

L’amministratore mi ha riferito che quella cifra del cinque per mille riguardava probabilmente il 2011, quando la nostra richiesta non era stata tanto accorata e tanto assillante, quanto invece quella che ho fatto nel 2012 e nell’anno corrente; questo mi ha rappacificato un po’.

Temo che i mestrini non si siano ancora bene accorti che i Centri don Vecchi sono uno splendido fiore all’occhiello della nostra città e che per ottenere questi risultati bisogna che tutti concorrano con la destinazione del cinque per mille, perché questa soluzione la possono fare senza che nessuno “metta le mani nelle loro tasche!”.

22.08.2013

Piccolo mondo antico

Qualche giorno fa don Gianni, il mio secondo successore nella chiesa arcipretale di Carpenedo, mi ha accompagnato a villa Flangini, la splendida villa sui colli asolani che una trentina di anni fa ho acquistato e restaurato per le vacanze estive degli anziani della parrocchia e della città.

Villa Flangini era l’antica dimora del cardinal Flangini, patriarca di Venezia che a metà `700 la fece costruire per le sue vacanze estive. Il restauro di questa villa veneta dalle nobili e sobrie linee architettoniche, mi ha impegnato fino allo spasimo, ma mi ha ripagato a iosa con mille ricordi cari e con esperienze indimenticabili. Per anni e anni si sono succeduti ogni quindici giorni, da giugno a settembre, gruppi di una cinquantina di anziani poveri. Don Gianni pare che, nonostante i suoi infiniti impegni, voglia ripensare ad una destinazione pastorale di questa perla dell’architettura e del paesaggio asolano. Questa villa mi è quanto mai cara perché custodisce tanti ricordi dolcissimi del mio recente passato. Avevo tanta paura di restare deluso tornando a rivederla. L’ho trovata bella come sempre, pur non avendo più quel tocco personale di buon gusto e di signorilità con le quali sempre ho tentato di impostare le strutture a cui ho dato vita. Quello però che mi ha sorpreso quanto mai è che la strada che avevo percorso mille e mille volte non sembra più quella dopo solamente dieci anni che non la percorrevo più. Non l’ho più riconosciuta e credo che se fossi stato io alla guida certamente mi sarei perso tra le rotonde e gli svincoli con i quali si inoltra nella Marca Trevigiana.

Lungo la strada poi ho piacevolmente conversato col nuovo giovane parroco di Carpenedo sulle problematiche d’ordine pastorale, avendo la sensazione che il discorso cordiale, franco e ricco di affetto e di stima tra un giovane ed un vecchio prete, sia qualcosa di veramente “regale”. Le due ore e mezzo sono passate velocissime e quanto mai piacevoli.

Infine ho capito da tutto il contesto, ma soprattutto dallo stile di don Gianni, che il mio “piccolo mondo antico” è bene che me lo cerchi e me lo coccoli solamente all’interno della mia memoria, perché ormai non c’è quasi più. Vedendo don Gianni che ogni tanto prendeva in mano il telefonino e dettava messaggi con quel “robino” scuro che teneva in mano e pareva quasi che tenesse a bada il mondo intero, mi ha fatto ulteriormente capire che io non appartengo quasi più al mondo di oggi.

20.08.2013

L’asso nella manica del buon Dio

Dopo le dimissioni di Papa Benedetto che, pur di umili origini, si è adeguato alla prassi, al costume e alle tradizioni abbastanza principesche del Vaticano, senza scossoni e senza rotture evidenti, inserendosi quasi naturalmente nel solco dei “Pontefici regnanti”, mai e poi mai avrei immaginato che il suo successore avrebbe “saltato il muro” in maniera così decisa e radicale dando un’immagine assolutamente inedita del successore di San Pietro.

Nella migliore delle ipotesi potevo sperare in una evoluzione lenta, quasi impercettibile, mentre invece le sorprese di Papa Francesco si susseguono una dopo l’altra con una rapidità assoluta e sorprendente e sempre in linea con uno stile veramente inaudito ed una radicalità evangelica che non solo stupisce, ma che mi lascia attonito e quasi stordito (pur uno come me che sono immerso nella vita della Chiesa).

Ho già scritto che dopo la morte di Papa Roncalli mi sono regalato un volumetto dal titolo “I fioretti di Papa Giovanni XXIII”. L’autore ha denominato “fioretti” le gesta e i comportamenti di quel pontefice e questo termine lasciava intendere: racconti verosimili, pie leggende, storie minori per devoti e vertevano poi sull’intero pontificato. Mentre i “fioretti” di Papa Francesco sono documentati da stampa e televisione e nel lasso di tempo solamente di un paio di mesi sarebbero più che sufficienti per un volume.

Questi fioretti che riguardano il mondo ecclesiale sono equiparabili alla bomba atomica, alla teoria dei Quanti, o all’avvento del mondo digitale per lo choc che stanno producendo sull’opinione pubblica. Ieri la stampa ci ha informato della doppia telefonata papale ad uno studente di Padova che gli aveva scritto una lettera. E – sorpresa nella sorpresa – : «Diamoci del tu, come amici!» Questa è l’ultima, ma le precedenti non sono meno radicali: dalla battuta «M’hanno pescato alla fine del mondo» alla richiesta di essere benedetto dalla folla prima di benedire a sua volta, alle scarpe grosse e nere da contadino; dalla tonaca bianca che lascia intravvedere i pantaloni, al salire in aereo con la borsa nera, all’affermare che il monsignore dello IOR non è stato messo in galera perché era devoto di santa Imelda…. e via di seguito!

Sarebbe quanto mai opportuno che qualcuno facesse la raccolta non dei “fioretti”, ma di queste nuove pagine di storia ecclesiale quanto mai documentabili.

Chi avrebbe mai pensato che la Divina Provvidenza avrebbe tirato fuori questo asso dalla manica? Io sono alle stelle perché, pur sognando molto di meno, spesso mi s’è accusato di essere irrispettoso verso l’autorità. Penso poi come faranno a sopravvivere cardinali, arcivescovi, vescovi, monsignori, arcipreti, prelati, cavalieri del Santo Sepolcro, commendatori e chi più ne ha più ne metta!

15.08.2013

L’uomo planetario

Sono a metà strada nella lettura di un importantissimo volume dello scolopio padre Ernesto Balducci. Questo intellettuale è una mia conoscenza di vecchia data. Ho cominciato a seguire fin dal suo inizio la bellissima rivista “Testimonianze” fondata da questo religioso fiorentino.

Una volta avevo un po’ più di tempo e di spazio, cosicché feci la raccolta completa della bella rivista, quanto mai interessante per i contenuti e bella ancora a livello grafico: aveva una copertina rossa con il titolo stampato in nero, l’impostazione grafica quanto mai elegante. Era una rivista di tendenza innovatrice, attenta al pensiero della sinistra politica e alle avanguardie cattoliche e coincideva con i miei orientamenti spirituali e culturali d’allora. Senonché padre Balducci continuò a spostarsi sempre più a sinistra, cosicché lo sentivo sempre più estraneo alla mia sensibilità religiosa e sociale. Gli scrissi una lettera dicendogli il mio pensiero e affermando che il mio contributo più onesto era di non rinnovare più il mio abbonamento. Così terminò la cosa.

Un paio di anni fa però scoprii un volume autobiografico “Fuori dal tempio” di un prete friulano, grande ammiratore di padre Ernesto Balducci, tanto che intitolò al suo nome una casa di accoglienza per profughi senza patria, erranti nel nostro Paese. Questo volume fece riemergere la cara e lontana “amicizia” e, neanche a farlo apposta, poco dopo qualcuno mi regalò il volume “L’uomo planetario” dello stesso Balducci: stesso colore di copertina e stessa impostazione grafica, pulita e lineare, però con dei contenuti che si muovono veramente per me troppo elevati.

Questo testo dello studioso fiorentino analizza le modifiche che il nuovo orientamento socio-politico e socio-economico producono sulla società attuale su cui si deve innestare il messaggio cristiano. Padre Balducci mette in guardia le varie Chiese cristiane, ma anche le altre religioni, dal grave e micidiale pericolo di tentare di immettere il messaggio religioso in un binario morto che non porta da nessuna parte o tentare di innestarlo su un albero ormai secco.

Queste grandi intuizioni a livello planetario devono evitare di sospingere il messaggio religioso verso delle ritualità sterili e fuori dal corso vero della storia e perciò privarlo di vita vera e feconda. Questa mi pare che sia la spina dorsale del discorso, che poi si articola e si innesta con delle ramificazioni particolari.

Concludo dicendo che mi pare d’aver capito che l’uomo di oggi non è assolutamente più quello descritto dai vecchi testi, perciò se pensiamo di potergli offrire il messaggio di Gesù, bisogna che lo conosciamo e impariamo la lingua nuova per potergli donare la “buona notizia”.

22.08.2013