Che Guevara in Vaticano

Ieri, in prima serata, Rai tre ha messo in onda uno splendido documentario su Papa Paolo VI. Il successore di Giovanni XXIII, Papa Roncalli, da un punto di vista umano è stato un papa sfortunato. Paolo sesto è arrivato proprio quando il “papa buono” aveva fatto saltare la diga che per molti anni ha ingrassato la Chiesa e, come per il Vajont, ha riversato una poderosa massa d’acqua nella valle, sommergendo tutto e tutti.

Senza nulla togliere ai meriti di Papa Giovanni, bisogna pur dire che ha lasciato al successore, Paolo sesto, una Chiesa quanto mai irrequieta che, destatasi da un sonno secolare, non sapeva che pesci prendere, che strade imboccare, tanto che il trambusto era quanto mai disordinato e preoccupante.

Molti anni fa ho letto un bellissimo volume, “Le chiavi pesanti” di Agosso, un giornalista intelligente e colto di Epoca, volume in cui è messo in luce il terribile dramma umano, spirituale ed ecclesiale di Papa Montini. Confesso che ho letteralmente pianto di fronte alla situazione drammatica di questo uomo di Dio.

Era un uomo intelligente – infatti credo che sia stato un intellettuale di prima grandezza – che s’è trovato a tentar di frenare a mani nude questa valanga di detriti che è scesa dal Concilio Ecumenico Vaticano Secondo.

Papa Montini era un fine intellettuale, ma non aveva la capacità di approccio con le masse di cui invece era quanto mai fornito il suo predecessore. Era d’indole riservata, proveniva da un ceto borghese, visse in momenti terribili non solamente per la Chiesa, ma anche per la società civile; eravamo infatti nel ’68, il tempo della contestazione radicale e soprattutto dei cupi anni di piombo delle Brigate rosse.

Paolo sesto visse un pontificato contrastato da mille tensioni, dovette fare delle scelte difficili di mediazione scontentando un po’ tutti, innovatori e conservatori. Comunque fu un grande papa, soprattutto il papa che seppe pagare il prezzo del passo in avanti fatto dalla Chiesa. Dopo di lui i trenta giorni di Papa Luciani, il papa dal sorriso triste, quindi il vittorioso lottatore dal grande charme umano che fu Karol Woytjla, per arrivare all'”acqua cheta” di Papa Ratzinger, travolto dagli intrighi della curia vaticana.

Ora c’è Papa Francesco, il rivoluzionario radicale che, pur disarmato, sta riportando la Chiesa alle sorgenti. Com’è bello leggere il disegno di Dio che con gli uomini più diversi accompagna la Sua Chiesa e realizza il Suo Regno.

21.08.2013

Dio non ne esce sconfitto, anzi

Il giorno dell’Assunta mi sono recato al “don Vecchi” di Campalto per vedere di riparare o sostituire un “ingranaggio” che si è ingrippato. Appena entrato mi sono accorto di un certo vociare nella sala da pranzo. Ho pensato che si trattasse di una delle tante “feste” che i residenti di quel Centro, vivaci e intraprendenti, organizzano con una certa frequenza. Invece mi dissero che stavano preparandosi per la messa. Don Lidio, il sacerdote che si è offerto spontaneamente di seguire la piccola comunità dei residenti, arrivò qualche minuto dopo per la celebrazione dell’Eucarestia.

L’incontrare questo “prete volontario” è stato per me il dono dell’Assunta; le testimonianze sacerdotali di generosità e di impegno pastorale sono per me uno splendido dono che m’aiuta a tener duro, a dir di si anche quando sono stanco. Anch’io, ogni domenica, faccio il volontario nella chiesa di Carpenedo e il primo venerdì del mese a Ca’ Solaro. Questo incontro col “prete supplente” m’ha posto ancora una volta il problema di come in futuro si potrà far fronte alla carenza di preti.

Altre volte ho parlato di possibili soluzioni: sacerdozio ai coniugati, sacerdozio alle donne ed altro ancora. Questa volta, di primo acchito, m’è venuto da pensare che ci sarà meno bisogno di sacerdoti perché i praticanti diminuiscono di anno in anno; poi invece ho pensato che il buon Dio porterà avanti le sorti del “Regno” attraverso persone che, coscientemente o meno, stanno già portando avanti i valori e i contenuti più veri del messaggio di Gesù. Al mattino, infatti, Radio Radicale aveva annunciato che Pannella e i suoi compagni dedicavano il ferragosto a visitare i carcerati di Rebibbia e di Regina Coeli e subito mi sono ricordato che una delle opere di misericordia corporale recita molto precisamente: “visitare i carcerati” ed ho capito finalmente che Pannella, la Bonino e compagnia, coscienti o meno, si sono messi – e da tempo – al servizio di Gesù e del Regno, facendo quello che i “discepoli ufficiali” non fanno più.

Ho capito che nel mondo ci sono persone, movimenti e realtà che, magari senza saperlo né loro né noi, lavorano con coraggio, generosità e spirito di sacrificio, per il Regno. Quanti sono in questo mondo gli amanti della giustizia, gli operatori di pace? Questi sono operai del Regno, il quale quindi si afferma anche senza preti.

Proprio in questi giorni ho letto un pensiero amaro di don Lorenzo Milani dei tempi in cui i comunisti erano in auge: annota il priore di Barbana con una certa sorpresa ed una certa stizza: “La Chiesa sta permettendo ai comunisti di acquisire quasi tutto il merito nella lotta per la giustizia a favore degli sfruttati!” Mentre noi siamo preoccupati più di ogni dire per le messe, non ci accorgiamo che nel nostro mondo sono sempre di più coloro che sono impegnati per la pace, la libertà, la giustizia… E che cosa sono i valori del Regno se non questi?

Penso che sia ora di aprire gli occhi e di accorgerci che il buon Dio porta avanti anche senza di noi il suo progetto e che la Chiesa dello Spirito ha sempre più ministri e fedeli.

20.08.2013

Commiato senza croce

Conservo ancora nella memoria due immagini tristi, desolate ed amare come il fiele. La prima l’ho colta da un film che si proiettava trenta, quarant’anni fa nelle sale cinematografiche, “Lo spretato”, film interpretato da un famosissimo attore d’oltralpe, che raccontava la storia di un prete che aveva “appeso la tonaca al chiodo”, ossia aveva abbandonato il sacerdozio. La vicenda era la storia, a quel tempo assai rara – ma che dal ’68 in poi divenne quanto mai frequente – di un sacerdote che “si spreta” e finisce la sua vita in totale desolazione e solitudine. Le ultime immagini della pellicola presentavano un carro funebre che percorreva un viale tra le tombe di un celebre cimitero di Parigi, con una sola persona che accompagnava alla tomba lo spretato.

La seconda immagine, altrettanto triste e carica di desolazione, l’ho colta da “Il giornale dell’anima”, il volume che contiene note autobiografiche di Papa Roncalli. Giovanni XXIII racconta il funerale di Ernesto Bonaiutti, sacerdote quanto mai intelligente, che aveva portato avanti la tesi del “modernismo”, l’eresia che Pio decimo ha stroncato con estrema, e forse esagerata, decisione, all’inizio del secolo scorso.

Il prete ribelle che nel suo intento aveva tentato di coniugare le antiche vertà cristiane con la cultura dei tempi nuovi. La Chiesa gli aveva comminato la “scomunica vitando”, ossia era scomunicato anche chi l’avesse frequentato. Papa Roncalli, che pur nutriva simpatia sia per questo sacerdote, sia forse anche per le sue idee, vede la bara solitaria che porta l’amico alla tomba, senza croce e senza prete.

Questi ricordi amari sono riemersi dalla nebbia della mia memoria essendo venuto a sapere che un mio “vicino di casa” al “don Vecchi” – l’ingresso del suo appartamento è proprio di fronte alla mia porta di casa – è stato portato al forno crematorio senza una prece e pure un segno di fede. Non ho avuto modo di conoscere il modo di pensare, a livello di fede, di questo mio coinquilino, ma avendo conosciuto la sua “disponibilità” ad aiutarmi nell’impresa della “Galleria San Valentino”, e soprattutto l’aiuto affettuoso che ha prestato per tanto tempo ad un altro residente al “don Vecchi” più infelice di lui, sono certo che San Pietro non gli chiuderà la porta del Paradiso per via del mancato funerale religioso e della scelta di non so chi, di privarlo del rito religioso. Questo episodio ha aggiunto un’altra nota di amarezza ai miei vecchi ricordi. Il triste evento però, fortunatamente, ha acceso in me un più vivo bisogno di ricordare quest’uomo quando “tengo Cristo tra le mie mani”, mentre celebro i sacri riti.

20.08.2013

Pazzi!

Io sono amante dei fiori, non tanto per il loro profumo che spesso è delicato, come quello delle viole, delle rose o del gelsomino, ma soprattutto per l’armonia dei loro colori. La tavolozza che il Creatore ha adoperato ha un’infinità di toni così delicati e suadenti che incantano gli occhi e li fanno riposare nella dolcezza delle loro mille tonalità, talora forti e decise e talora ricche di sfumature delicatissime e quanto mai varie. Se ne avessi possibilità farei nel vasto parco del “don Vecchi” una serra o un orto botanico. Purtroppo i costi di manutenzione sono proibitivi e al “don Vecchi”, oltre alla Olinda, che possiede il pollice verde, ma che ha purtroppo il difetto di nicchiare pure lei, non riesco a contare su nessun altro.

Debbo però confessare che anch’io in questo campo ho le mie predilezioni e i miei amori segreti. Da anni coltivo una forte amicizia con dei fiorellini bianchi di una pianta grassa che fioriscono nel tardo autunno, continuando imperterriti durante il lungo e freddo inverno, per reclinare poi il capo con i primi tepori della primavera.

Il secondo amore è più recente e più travolgente: si tratta degli ibiscus che negli ultimi giorni di giugno mettono fuori dei grandi fiori rossi, bianchi e rosa che rassomigliano, per foggia, a quegli strani copricapi dei cinesi fatti a cono. Gli ibiscus sono fiori che si impongono in maniera vistosa e prepotente all’attenzione, per la grandezza del fiore e per il colore forte e deciso.

Proprio qualche giorno fa, parlando con la signora Olinda che cura da esperta le “covate” di questi fiori, mi spiegava che, appassitosi il fiore – che dura un solo giorno – rimane nello stelo una “nocciolina” assai minuta dentro la quale ci sono dei piccolissimi semi pressoché impercettibili che lei coglie e semina in primavera. Sono stato curioso e ho aperto anch’io una “ovaia” di queste sementi e di fronte a questo miracolo della natura è cominciata la mia meditazione: Olinda mette in una scatoletta questo pugnetto di semi appena visibili mescolandoli assieme, però essi, a metà aprile, come ad un comando segreto, si “ricordano” il loro colore specifico, il tempo per fiorire, la forma di fiore da far sbocciare, il modo per far capire quando hanno sete e mille altre cose ancora.

Di fronte a questo programma assolutamente rigido di comportamento di vita come si fa a non essere certi che c’è stato Qualcuno infinitamente intelligente ad ideare questa meraviglia? Il famoso entomologo Faber ha scritto: «Io non ho bisogno di credere perché Dio lo vedo direttamente nel Creato e nelle sue creature». Solo un pazzo e assolutamente pazzo può dire che tutto questo processo così complesso che da milioni di anni continua imperterrito a verificarsi esattamente nella stessa maniera, avviene per caso.

Io non ho assolutamente nessun dubbio sull’esistenza di Dio. Su un altro discorso: la religione, la Chiesa, Gesù – tornerò quando ne capiterà l’occasione, anche perché esso è più complicato e impegnativo.

18.08.2013

L’uovo di Colombo

Mio padre, buonanima, specie da anziano, ritornava spesso sugli stessi argomenti. In questi giorni di caldo afoso, per associazione di idee, ne ho ricordato uno che mi spinge ad azzardare un suggerimento molto elementare alla direzione sanitaria dell’Ospedale dell’Angelo per risolvere l’annoso problema del sovraffollamento.

Premetto il raccontino piacevole ed arguto di mio padre. Diceva papà che Cristoforo Colombo, lo scopritore dell’America, era uno spirito arguto ed intelligente, e raccontava con dovizia di particolari il famoso aneddoto dell’uovo: «Colombo invitò alcuni amici a far stare in piedi un uovo posato verticalmente su un tavolo. Provarono tutti, ma inutilmente, l’uovo sbandava a destra e a sinistra nonostante ogni tentativo. Allora gli amici dissero a Colombo: «Provaci tu!” e Colombo, con fare disinvolto, schiacciò leggermente l’uovo, il guscio s’incrinò e l’uovo rimase in piedi fra la sorpresa di tutti».

Vengo all’annoso problema del pronto soccorso. Io mi reco in questo reparto dell’Angelo due volte la settimana per portare “L’Incontro” e lo trovo sempre sovraffollato. Recentemente hanno cambiato la sistemazione interna ed avendo distribuito in luoghi diversi i pazienti in attesa, sembra che ci sia meno gente, ma il problema rimane perché c’è sempre sovraffollamento e i giornali criticano questa situazione ormai endemica.

Pochi giorni fa incontrai Domenico, il caposala del reparto. Domenico è un ragazzo intelligente, pieno di buona volontà, intraprendente e brioso nell’eloquio. Gli chiesi come si potrebbe risolvere questo inghippo. Lui mi ha fatto un’intera lezione sulla dottrina su cui poggia l’accoglienza del pronto soccorso, mi parlò dei codici – bianco, verde e rosso -, del metodo adottato per scegliere i pazienti secondo la gravità: il famoso “triage” della precedenza data sempre al codice rosso che indica il maggior pericolo, e mi disse ancora che chi intasa il pronto soccorso sono i “codici bianchi”, ossia quei pazienti che vanno all’ospedale per uno starnuto, per una puntura di zanzara, pazienti che sono poi costretti ad attendere una, due, cinque ore e più.

Ora sono tentato di suggerire a questo brillante caposala e alla sua direzione la soluzione dell'”uovo di Colombo”. Se si attrezzasse un ambulatorio con un medico intelligente, spiccio e risoluto ed una infermiera di supporto e qui vi si avviassero i “codici bianchi”, ossia i malati immaginari o quasi e questo medico desse ad uno un punto, ad un altro un cerotto, ad un altro una pastiglia – magari placebo – ad un altro ancora una carezza, fissando al medico un tempo massimo per paziente dai tre ai cinque minuti, o si facesse con lui un contratto a cottimo – cinque euro per paziente, credo che “l’uovo starebbe in piedi con sorpresa di tutti. E finalmente il pronto soccorso diventerebbe pronto soccorso e non eterno soccorso.

14.08.2013

L’isola del tesoro

Le favole sono un fiore quanto mai vivace ed allettante della fantasia e quindi verrebbe da pensare che non abbiano alcun riscontro con la realtà. Talvolta mi sembra invece che siano l’abito bello dei sogni e dei desideri impossibili.

Quest’anno mi sono avvalso del titolo e del contenuto di un romanzo – è da notare che normalmente i romanzi sono pure delle favole elaborate, ma sempre e comunque favole – per introdurre il mio sermone di ferragosto sulla Madonna Assunta, notando che, nonostante la crisi economica, anche quest’anno c’è stato un fuggi fuggi dalla città per cercare altrove, o “fuori porta” o più lontano, quella distensione o quella gioia di vivere che gli uomini del nostro tempo pare non riescano più a trovare nella vita di tutti i giorni e in quel piccolo mondo in cui sono soliti vivere.

Per una strana ed inspiegabile associazione di idee m’è parso che il fenomeno di ferragosto sia magnificamente e puntualmente espresso da quel romanzo del Salgari, o del Verne – non riesco più a ricordare – “Alla ricerca dell’isola del tesoro”, che narra di un’isola favolosa in cui si può trovare il tesoro che appaga tutti i sogni, i desideri e le speranze.

Se non mi sbaglio per ferragosto una gran massa di gente ha ricercato in spiaggia quest’isola meravigliosa, o in un agriturismo, in una città d’arte, in una grigliata nel bosco o molto più lontano. Soltanto una piccola parte di cittadini, rimasti a casa, l’ha cercata in chiesa nel dolce e delicato mistero dell’Assunta e del messaggio che da duemila anni offre ai credenti.

Penso che i primi siano tornati a casa ben presto delusi, non avendo trovato lo scintillio del metallo prezioso né fuori porta né lontano, costretti quindi a chinare il capo, a porsi sul collo il vecchio giogo del quotidiano, mentre i secondi, che sono rimasti a casa a contemplare, assieme a me, il cielo azzurro ed infinito che la Madonna ha percorso per andare al Padre, facendo le cose semplici e belle di ogni giorno, hanno conservato nell’intimo la speranza che quest'”isola felice” si trovi un poco più in là, oltre il confine dell’orizzonte finora esplorato, continuando così il loro cammino sorretti dalla speranza che è rimasta intatta, anzi rinvigorita compiendo il percorso per il quale Maria ogni giorno, passo dopo passo, ha raggiunto l’Infinito.

15.08.2013

I testimoni dell’assoluto

Recentemente mi è stato chiesto da una coppia di anziani coniugi di celebrare le loro nozze d’oro nella chiesetta delle suore di clausura di via San Donà.

Normalmente aderisco tanto volentieri a questa richiesta, da un lato perché mi fa bene questa testimonianza di un amore rimasto vivo e luminoso nonostante il passare di mezzo secolo di vita, e dall’altro perché mi riporta a rivedere queste care creature che sono le monache di clausura e che, quando ero parroco, solo una strada divideva dalla mia casa.

Io sono certo che queste suore hanno pregato per me, perché troppe cose, che sembravano veramente gravi e rovinose, si sono risolte quasi per miracolo e soprattutto perché sono riuscito a lasciare in piedi una bella ed operosa comunità cristiana nonostante i tempi difficili in cui viviamo.

Con le suore del monastero siamo sempre andati d’accordo e c’è sempre stata una bella e fraterna collaborazione per quanto è possibile tra due realtà così diverse: una parrocchia ed un convento di clausura di un ordine quanto mai antico. C’è stato un piccolo neo, però marginale ed insignificante nei nostri rapporti: da una parte il mio senso estetico che mi faceva detestare quel muraglione cupo che nasconde la bella villa dei Michieli, i patrizi veneziani che l’avevano costruita alla fine del seicento e dall’altra le suore, che ritenevano, seguendo la tradizione e i vecchi canoni, che la clausura ha ancora bisogno di mura di difesa, la ruota e le grate. Questo problema di carattere estetico è stato però estremamente marginale sia per loro che per me, tanto che abbiamo potuto vivere vicini e felici per quasi mezzo secolo uno accanto all’altro.

Quando sono entrato in convento qualche giorno fa per la celebrazione delle nozze d’oro, ho incontrato la badessa e le tre sorelle non giovanissime che ancora sono attive e vivono quasi sperdute nel grande convento che un tempo ospitava la comunità ben più numerosa che da Venezia, prima dell’ultima guerra, è emigrata in quel di Carpenedo.

Già ho scritto che un giorno in cui feci presente alla badessa che la gente del nostro tempo fa fatica a comprendere la vita claustrale, mi rispose che lei e le sue suore volevano rappresentare nella nostra città la parte della vita che rimane di solito in penombra, cioè la facciata che illustra il bisogno di silenzio, di meditazione e di contemplazione, perché la gente del nostro tempo non dimentichi una componente essenziale della vita.

Le nostre monache, anche se poche, se vecchie, se dietro le grate, nascoste dal muraglione, rimangono per la nostra società le testimoni dell’Assoluto. Se un giorno dovessero chiudere per mancanza di donne che abbiano il coraggio di accettare questa preziosa eredità, sarà veramente un brutto giorno per la nostra città, perché vorrebbe dire che l’effimero, il fatuo e il contingente rimarrebbero senza contrappeso; la facciata in penombra della medaglia della vita rimarrebbe purtroppo sconosciuta per la gente del nostro tempo e questa sarebbe una gran perdita, una vera calamità.

15.08.2013

Il testamento dell’apostolo dei lebbrosi

Penso che Raoul Follereau sia morto dai quindici ai venti anni fa. Questo francese della media borghesia dalla faccia rotonda che portava sempre il fifì, è diventato famoso perché ha dedicato tutta la sua vita al tentativo di guarire i malati di lebbra.

Follereau era un autentico apostolo e benefattore dell’umanità. Girò cento volte in lungo e in largo l’Africa nera e l’India, la Cina, l’Oceania e l’estremo oriente alla ricerca dei lebbrosi e dei lebbrosari, convinto che questa orrenda malattia che deturpa il corpo e che fino a poco tempo fa era assai diffusa nel mondo, si potesse guarire con un po’ di buona volontà e con pochi soldi. Follereau affermava che i veri ed autentici “lebbrosi”, difficilmente guaribili, erano gli Stati e gli uomini talmente egoisti che non pensavano ad altro che al denaro e ai propri interessi.

Follereau era sposato, ma senza figli, cosicché, novello missionario, poté spendersi totalmente senza risparmio di sorta per portare avanti questa crociata. E possiamo dire che ci riuscì perché la lebbra, pur essendo ancora presente in qualche remoto villaggio dell’Africa nera, praticamente è pressoché scomparsa.

Il mondo deve a questo grande apostolo moderno la vittoria su una delle malattie più ributtanti: egli ha dimostrato che se uno ha veramente amore per l’uomo, anche oggi può fare “miracoli”. Follereau vinse questa “guerra” soprattutto influendo sull’opinione pubblica e promuovendo una cultura della solidarietà. Questa impresa riuscì a questo testimone del nostro tempo perché era un giornalista brillante ed un uomo d’azione concreto e determinato.

Ricordo quando scrisse al Presidente degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica chiedendo che gli regalassero l’equivalente del costo di una superfortezza volante, di cui entrambi disponevano a migliaia ed egli con quel denaro avrebbe salvato dalla lebbra milioni di ammalati. Ricordo ancora i suoi appelli appassionati ai giovani perché non si rassegnassero a questo mondo ingiusto ed egoista, perché si ribellassero ad un perbenismo borghese ed indifferente e ad una fede che illude di potersi salvare da una vita insulsa ed inutile e di potersi guadagnare il Paradiso solamente pagando la tassa della “messa festiva”.

Ricordo ancora il testamento sublime con cui l’apostolo dei lebbrosi lasciò in eredità agli uomini di retta coscienza e soprattutto ai giovani, i progetti che egli non era riuscito a concludere.

Talvolta verrebbe anche a me la tentazione di lasciare ai miei confratelli e alla mia città i progetti perseguiti con passione ma che sono rimasti solamente sulla carta. Ho però tanta paura di morire senza trovare eredi disposti ad accogliere questa straordinaria ricchezza, senza il beneficio d’inventario.

15.08.2013

La macchia di pece

Milioni di giovani di Rio de Janeiro e Papa Francesco che sale in aereo con la sua borsa nera mi hanno fatto sognare e mi hanno indotto ad essere quanto mai orgoglioso della mia Chiesa, quale “sposa bella vestita con abiti regali”.
Tanto che confrontandola col volto truce del fondamentalismo dell’lslam, che ora si lascia andare alla rabbia e all’odio religioso, m’è parsa ancora più bella ed amabile.

Ma questa sera “Rai storia” ha gettato una grossa macchia di inchiostro, più nero della pece, su questa visione idilliaca. Come i miei amici sanno, amo la musica sinfonica, i dibattiti su argomenti di carattere politico-sociale, i documentari che mi fanno conoscere la bellezza del nostro mondo, e pure provo una curiosità quasi morbosa sui programmi di Rai storia” che vertono sugli avvenimenti tragici che hanno funestato l’Europa durante la mia giovinezza.

la frequentazione del Canale 54 mi mette talvolta sotto gli occhi programmi imprevisti.

Ieri sera il titolo, particolarmente cupo, con cui è stato presentato un programma sull’Inquisizione in Spagna attorno al millequattrocento, m’ha incuriosito e profondamente turbato. Mi pare ormai scientificamente provato che l’uomo è tentato di cancellare dalla memoria fatti ed eventi che l’hanno disturbato e che vorrebbe dimenticare.

Ho visto con orrore quello che avevo tentato di eliminare dalla mia memoria, che mi ero illuso fosse una forzatura dei nemici della Chiesa, o una macabra e falsa ricostruzione storica atta a rispondere a chi ama l’horror.

Dapprima ho tentato di convincermi che quell’orrore perpetrato in nome della fede e della Chiesa dovesse essere riportato nella cornice del suo tempo tanto diverso dal nostro e che quindi non si potesse giudicare con la sensibilità di oggi. Però questi tentativi si scioglievano man mano come la neve al sole e rimaneva la bruttura, l’orrido di pagine veramente nefaste. Ho infine tentato di dirmi che Papa Wojtyla ha chiesto perdono al mondo per questo e purtroppo per tanto altro ancora.

Infine ho riscontrato che dovevo accettare la bruciante verità di queste pagine orribili della Chiesa, portandomi in maniera ineluttabile ad alcune conclusioni che sono costretto a scolpire in maniera indelebile nella mia coscienza. Primo: non ho diritto di giudicare le miserie delle altre fedi e delle altre Chiese. Secondo: la Chiesa, quando è connivente o soltanto si appoggia al potere politico sempre si sporca e si abbrutisce. Terzo: quando la Chiesa abbandona “Madonna povertà” diventa fatalmente prepotente, dura e cattiva.

Quarto: la tentazione dell’Inquisizione, ossia intromissione negli ambiti dello Stato e della politica per imporre i propri valori, non è prerogativa del passato, ma purtroppo anche tentazione dell’oggi.

16.08.2013

Birbanti!

Sono ben cosciente che è fin troppo facile sparare nel mucchio. I politici poi sono da sempre il bersaglio naturale e preferito da parte della gente comune. Non per nulla circola da sempre quel detto popolare con il quale si imputa ogni responsabilità ai politici: “Piove? Governo ladro!”

Io ho fatto il parroco per 35 anni e ancor oggi ho qualche responsabilità di ordine sociale e so quanto sia difficile accontentare tutti, e quanto ogni cittadino, essendo unico ed irripetibile, abbia un suo pensiero ed una sua soluzione ai problemi della vita.

Quando a Radio Radicale ho modo di seguire i vari interventi alla Camera e al Senato, mi rendo perfettamente conto di quanto sia difficile mediare, comporre e fare uscire la soluzione migliore e più opportuna tra tanti interventi, spesso intelligenti e tanto spesso diversi e talora opposti l’uno all’altro. Detto questo però, credo che sempre si debba trovare una soluzione, magari di compromesso, ma che tenga conto del bene superiore. Questo lo si trova nelle famiglie, nelle parrocchie ed in molti Comuni.

Non mi meraviglia né mi preoccupa tanta diversità di proposte, anche perché sono convinto che la diversità è una ricchezza ed è quasi un setaccio o meglio un crogiolo, che purifica e che fa emergere il meglio. Però quando mi accorgo che si manifesta perfino troppo è evidente che l’obiettivo inconfessato è il bene del partito e non quello del Paese; allora mi capita di sbottare con epiteti che non so se siano troppo cristiani.

Talvolta, contro i soliti protagonisti che entrano in casa mia attraverso il televisore, mi scapperebbe qualche parolaccia, tipo “carogna!”, che però, per motivi pastorali, traduco con “birbanti!”.

In questi giorni sono costretto a seguire con disgusto e con rabbia le solite manfrine: il PDL che usa il pretesto dell’IMU ogniqualvolta i soliti sondaggi lo indicano in crescita o per difendere l’indifendibile. E dall’altra parte il PD e la vecchia nomenclatura in particolare, poco interessata che emergano le migliori e più ricche personalità o che si trovino rimedi per l’Italia, ma tutta tesa a sopravvivere. Capisco che si incontrino delle enormi difficoltà a governare un Paese che non ha ancora punti di riferimento comuni e che spesso vive con le logiche degli staterelli prerisorgimentali, però un minimo di buona volontà ed amor di Patria dovrebbero convincere a convivere e a trovare un denominatore comune! In Germania non governa da anni la “grande coalizione” senza tanti mal di pancia? E perché da noi questo non dovrebbe esser possibile?

12.08.2013

“Com’è bella giovinezza!”

Più di una volta m’è capitato di irritarmi e giudicare leggero e fatuo un certo modo di agire delle donne, che spesso pare facciano fatica a trattenersi nell’esprimere la loro istintiva ammirazione alla vista di un uomo dai tratti armoniosi e fortemente virili. M’è anche capitato talvolta, avendo confidenza e familiarità con certe donne, di sbottare dicendo: «Un uomo lo si giudica dall’intelligenza, dalla bontà, dai valori che persegue, dalla finezza d’animo, non con criteri di ordine estetico!»

Pian piano mi pare di aver capito ed anche accettato che per una donna la propria e l’altrui bellezza sia un qualcosa di connaturato alla femminilità e perciò, facendo parte integrante del suo DNA, non deve esser loro imputato a superficialità o leggerezza questo loro modo di reagire di fronte al bello. Da quando poi ho preso una certa dimestichezza con “la teologia della bellezza”, che oggi pare sia tanto in auge, ho cominciato ad apprezzare questa virtù propria delle donne, a meno che essa non scenda a livello di fatuità, di malizia, o sia un modo per adescare ed irretire il maschio in questa ragnatela pericolosa.

Oggi, con la crisi delle vocazioni, capita purtroppo di incontrare spesso preti con la pancia e suore un po’ rotondette ed avvizzite. Due settimane fa però sono stato felicemente sorpreso e quasi “immagato” di fronte ad uno spettacolo che da tempo non vedevo e che mi ha fatto molto bene anche a livello spirituale. E’ avvenuto in occasione dell’incontro a Roma dei chierici che stanno preparandosi al sacerdozio e delle novizie, ossia delle ragazze che invece si stanno preparando ai voti di povertà, castità ed obbedienza. La piazza di San Pietro era gremita di questa bella e fresca gioventù, che credo sia giunta da tutto il mondo per ascoltare il nuovo Papa. Anche la televisione di Stato, sempre abbastanza parca nell’inquadrare questi avvenimenti di carattere religioso, ha dedicato delle splendide videate ai volti di questi ragazzi e ragazze di Dio.

Confesso che sono rimasto attonito e commosso di fronte a tanta armonia e a tanta bellezza. Ho avuto la netta sensazione che gli ideali e le scelte coraggiose e generose di queste ragazze e di questi ragazzi offrissero un valore aggiunto alla loro bellezza propria della gioventù.

Mi auguro e prego dal profondo del cuore che questa gioventù sappia maturare e donare al nostro mondo quell’incommensurabile ricchezza spirituale che è dentro al loro spirito e di cui il mondo ha bisogno, perché il dono di Dio è giusto che sia offerto in splendide e sublimi custodie umane.

13.08.2013

La decadenza delle onorificenze

Qualche tempo fa ho dedicato uno dei miei “editoriali” a don Franco De Pieri, parroco della comunità cristiana di San Paolo di viale Garibaldi, presidente del CEIS, quell’associazione benemerita che a Mestre ha creato una vasta rete di servizi a favore dei cittadini caduti nelle devianze sociali. Ho ritenuto giusto per molti motivi dedicargli quelle righe per riconoscergli indubbi meriti di sacerdote impegnato seriamente a livello pastorale e nel campo della solidarietà, che diede vita a Forte Rossarol, la struttura che offre molti servizi e di una notevolissima importanza sociale. Ho messo inoltre in luce, tra i meriti di don Franco, il fatto che egli, avendo raggiunto il tempo della pensione, non per questo ha messo fine al suo impegno, ma ha comunicato alla città che andrà in Brasile a “lavorare” in una missione che ha già aiutato anche durante il tempo del suo impegno pastorale a Mestre.

Additando ai lettori de “L’Incontro” la bella figura di questo nostro sacerdote, indicavo anche, come nota di merito, che egli usciva dalla diocesi senza filetti e fascia rossa, senza titoli onorifici, ma col suo semplice “don” anteposto al nome con cui Dio lo ha riconosciuto suo figlio in occasione del battesimo.

Ieri, e ancora oggi, la stampa ci ha informato con molta enfasi e dovizie di particolari, del piccolo terremoto locale col quale è stato spazzato via il titolo di “monsignore” con decreto patriarcale, quindi i più noti prelati del patriarcato sono stati “degradati” e ridotti a “soldati semplici” i quali possono, come tutti i preti, fregiarsi solamente del comunissimo “don”.

Povero don Franco! Ha perso così il merito di lasciare la diocesi senza alcun titolo onorifico! Con don Franco anch’io sono stato toccato nel mio orgoglio di aver combattuto la mia battaglia e d’esser arrivato a tarda età mantenendo “incontaminato” quel “don” che mi è stato offerto con l’ordinazione sacerdotale.

A dire il vero al “don” ho sempre preferito quel “padre” con cui mi chiamavano i ragazzi dei Gesuati agli inizi del mio sacerdozio, e con cui tanti fedeli, mi chiamano ancora. Comunque, se prevarrà la logica a cui pare che il nostro vescovo si riferisca, dovranno “saltare” presto anche i monsignori autorizzati dal Vaticano, i titoli di arcivescovo, di patriarca, eccellenza, eminenza, per stare solamente nel campo delle onorificenze ma, per lo stesso motivo, anche i “pontificali” dovranno essere ridotti al rango di “messe”. Insomma ne vedremo di belle con la rivoluzione appena iniziata da Papa Francesco.

11.08.2013

Chi la dura la vince

C’è molta gente cara nei riguardi di questo vecchio prete: sarà la mia canizie, sarà il fatto che scrivo molto o che i Centri don Vecchi mi hanno dato qualche notorietà, comunque sta di fatto che da mattina a sera non faccio che ricevere telefonate per i bisogni più diversi. Mi fa molto piacere che la gente abbia fiducia nella mia disponibilità e farò di tutto per aiutare il mio prossimo, perché questo lo ritengo un dovere, sia a livello personale che a quello ecclesiale. Mi rendo sempre più cauto però che per dare una risposta men che meno seria sarebbe necessaria una qualche organizzazione.

Oggi la vita è complessa, perciò senza un supporto organizzativo che abbracci tutti gli aspetti delle vecchie e soprattutto nuove povertà, e tutte le zone della nostra diocesi, i tentativi fatti da un singolo, o perfino da una parrocchia, per quanto motivata e attrezzata, sono destinati a rimanere velleitari e per niente risolutivi.

Questo problema non mi ha mai lasciato indifferente, però finora i miei tentativi sono andati a vuoto. Per un paio di anni ho premuto con tutte le mie forze per la realizzazione della “cittadella della solidarietà”, nel cui progetto rientravano non solo i servizi, ma pure un centro direzionale, un “cervello” che pianificasse in maniera moderna sia il coordinamento dei servizi, ma pure facesse un’analisi seria di chi si rivolgeva ad essi per offrire la risposta più idonea. Il progetto fallì; non ripeto i motivi di questo flop perché ne ho parlato più volte. L’individualismo estremo del mondo veneziano, la fragilità del governo, le scarse risorse finanziarie e soprattutto la mancanza di una cultura della solidarietà ne ha determinato la disfatta.

Non rassegnato, ho tentato un’altra strada. Con l’aiuto di esperti abbiamo creato un sito internet denominato “Mestre solidale“, ove appaiono tutti i servizi e gli enti benefici della città, con gli indirizzi, i numeri di telefono e le prestazioni che possono offrire. La soluzione però si è dimostrata forse prematura perché soprattutto il mondo del bisogno ignora ancora il mondo digitale e gli operatori del settore sono talmente impegnati nel servizio a cui si prestano da volontari, da non aver tempo e preparazione per entrare in questa rete solidale.

Ora non mi resta che sperare nel nuovo direttore della Caritas diocesana; infatti la Caritas ha come compito precipuo non tanto di gestire in proprio i servizi caritativi, quanto di promuovere nuove soluzioni e coordinare le strutture già esistenti. Non appena vi sarà questa nomina patriarcale mi darò da fare per proporre finalmente una organizzazione più adeguata.

La Chiesa veneziana deve avere, verso i concittadini in difficoltà, un progetto e delle soluzioni più avanzate delle attuali.

10.08.2013

Dal rancore all’amore

Da ragazzino, ma soprattutto al tempo del liceo, ho letto molto, soprattutto di narrativa. Mi spiace che qualcuno non mi abbia guidato nella scelta degli autori e soprattutto delle loro opere, però ai miei tempi i responsabili della formazione degli aspiranti sacerdoti erano estremamente diffidenti nei riguardi della cultura corrente e preferivano, tutto sommato, che noi leggessimo testi di devozione di autori di poco spessore, purché fossero cattolici allineati.

Ricordo con nostalgia i romanzi di un autore cattolico inglese, Bruce Marshaal, che col tipico humour inglese narrava della sua vita religiosa e delle vicende dei preti del suo tempo e del suo Paese che penso fossero degli anni quaranta, cinquanta del secolo scorso. Ricordo alcuni titoli: “I miracoli di padre Malachia”, “Ad ogni uomo un soldo”, ed altri di cui ho dimenticato il titolo.

Le vicende di questi romanzi ruotavano quasi sempre attorno ai rapporti difficili tra i veterocattolici, chiamati papisti dai protestanti, e il clero e le comunità dei cristiani della riforma appartenenti alla Chiesa d’Inghilterra. Le accuse, le insinuazioni, le furberie, i discorsi e le malignità dell’una e dell’altra parte costituivano sempre il motivo dominante della narrazione, però sempre intelligente e piena di brio.

La mia cultura nei riguardi delle Chiese riformate s’è sempre nutrita di motivi apologetici, di contrasti e di opposizione netta tra gli uni e gli altri.

Si, specie negli ultimi trent’anni ho seguito gli incontri ecumenici di vertice, le discussioni di lana caprina, però le vecchie immagini rinascono ben incise nella mia coscienza. Ora, scoprire che a Rio de Janeiro, alle Giornate Mondiali della Gioventù, giovani protestanti hanno partecipato gioiosamente assieme ai ragazzi cattolici, sotto il cartellone con scritto “Ti vogliamo bene!”, non solo mi fa toccare con mano “i miracoli” di Papa Francesco, ma pure prendere coscienza di un cammino che lo Spirito Santo ha fatto fare alle due Chiese, conducendole per mano verso l’incontro, in barba alle discussioni teologiche degli specialisti di ambedue le parti che in tanti anni hanno concluso ben poco.

Rimane vero, per fortuna il vecchio detto: “Gli uomini si agitano, ma è Dio che li conduce”. Mi vien da pensare che è poco saggio caricarci sulle spalle problematiche più grandi di noi; spesso tornerebbe conto lasciar fare al buon Dio senza agitarsi più di tanto.

05.08.2013

Stacanovismo in versione sacerdotale

Chi è un po’ addentro alla cultura medio-bassa sa che per stacanovismo s’intende un impegno assoluto e perfino esagerato nell’osservare i compiti a cui ci sentiamo chiamati. Pare che questo termine sia nato dal nome di un lavoratore della rivoluzione russa che aveva preso totalmente sul serio il messaggio rivoluzionario di Stalin e lavorò in maniera pressoché ossessiva, ritenendo doveroso dare un contributo assoluto verso il partito e la collettività. Pare che questo operaio abbia battuto ogni primato di estrazione del carbone, ma sia caduto poi vittima nel compimento del suo dovere. In quello splendido romanzo di Orwell, “La fattoria degli animali”, in cui si inquadra la dottrina dei Soviet traducendola al livello di una masseria in cui i protagonisti della vita sociale sono tutti animali, il cavallo rappresenta la mentalità e il comportamento dello stacanovista. Ogni volta questo cavallo si assume i compiti più faticosi, si sostituisce a chi vien meno al proprio dovere, si fa carico del bene comune fin tanto che, stremato, crolla tra le stanghe del carro che sta trainando.

Io penso di avere, nella mia coscienza civile e religiosa, almeno qualche bacillo dello stacanovista. Forse il fatto di essere nato in una famiglia di condizione modestissima, di essere il primo di sette figli, di aver avuto nei tempi difficili della guerra il papà in Germania, ha forgiato la mia coscienza in maniera fortemente sensibile al dovere da compiere, tanto che a 84 anni, pensionato, provo scrupolo di coscienza se talvolta indulgo per mezz’ora davanti alla televisione e se non faccio tutto quello che reputo il mio dovere.

Fin qua potrebbe anche andare, perché in fondo sono io a pagare il prezzo di questo stacanovismo. Il guaio però è che sono portato a pensare, e forse anche a pretendere, che anche gli altri debbano agire secondo questa mentalità e quindi non riesco a perdonare i preti che vanno in vacanza, i miei vecchi che non bagnano i fiori e che non piegano “L’Incontro”, mentre non hanno alcuno scrupolo di approfittare del frutto dei sacrifici che fanno gli altri per mantenere basso l’affitto, per offrire la frutta, la verdura, i generi alimentari e i dolci che ogni sera qualcuno va a prendere in pasticceria.

Non capisco e non tollero idealmente chi non si dà da fare, chi ozia, chi perde tempo, chi non si impegna. Spesso riesco a frenarmi e tener dentro di me questi sentimenti, comunque la mia condanna è pronta ed assoluta.

Qualche volta mi giustifico ricordandomi di san Paolo quando dice: «Chi non lavora non mangi». Poi però mi nascono i dubbi pensando che san Paolo non conosceva “lo statuto dei lavoratori” e, meno che meno, i sindacati, la Fiom ed Landini.

Spero e prego che una buona volta il Signore mi aiuti a pensare finalmente ai fatti miei, però già oggi confesso di essermi lasciato andare a giudizi ben poco benevoli.

02.08.2013