Stacanovismo in versione sacerdotale

Chi è un po’ addentro alla cultura medio-bassa sa che per stacanovismo s’intende un impegno assoluto e perfino esagerato nell’osservare i compiti a cui ci sentiamo chiamati. Pare che questo termine sia nato dal nome di un lavoratore della rivoluzione russa che aveva preso totalmente sul serio il messaggio rivoluzionario di Stalin e lavorò in maniera pressoché ossessiva, ritenendo doveroso dare un contributo assoluto verso il partito e la collettività. Pare che questo operaio abbia battuto ogni primato di estrazione del carbone, ma sia caduto poi vittima nel compimento del suo dovere. In quello splendido romanzo di Orwell, “La fattoria degli animali”, in cui si inquadra la dottrina dei Soviet traducendola al livello di una masseria in cui i protagonisti della vita sociale sono tutti animali, il cavallo rappresenta la mentalità e il comportamento dello stacanovista. Ogni volta questo cavallo si assume i compiti più faticosi, si sostituisce a chi vien meno al proprio dovere, si fa carico del bene comune fin tanto che, stremato, crolla tra le stanghe del carro che sta trainando.

Io penso di avere, nella mia coscienza civile e religiosa, almeno qualche bacillo dello stacanovista. Forse il fatto di essere nato in una famiglia di condizione modestissima, di essere il primo di sette figli, di aver avuto nei tempi difficili della guerra il papà in Germania, ha forgiato la mia coscienza in maniera fortemente sensibile al dovere da compiere, tanto che a 84 anni, pensionato, provo scrupolo di coscienza se talvolta indulgo per mezz’ora davanti alla televisione e se non faccio tutto quello che reputo il mio dovere.

Fin qua potrebbe anche andare, perché in fondo sono io a pagare il prezzo di questo stacanovismo. Il guaio però è che sono portato a pensare, e forse anche a pretendere, che anche gli altri debbano agire secondo questa mentalità e quindi non riesco a perdonare i preti che vanno in vacanza, i miei vecchi che non bagnano i fiori e che non piegano “L’Incontro”, mentre non hanno alcuno scrupolo di approfittare del frutto dei sacrifici che fanno gli altri per mantenere basso l’affitto, per offrire la frutta, la verdura, i generi alimentari e i dolci che ogni sera qualcuno va a prendere in pasticceria.

Non capisco e non tollero idealmente chi non si dà da fare, chi ozia, chi perde tempo, chi non si impegna. Spesso riesco a frenarmi e tener dentro di me questi sentimenti, comunque la mia condanna è pronta ed assoluta.

Qualche volta mi giustifico ricordandomi di san Paolo quando dice: «Chi non lavora non mangi». Poi però mi nascono i dubbi pensando che san Paolo non conosceva “lo statuto dei lavoratori” e, meno che meno, i sindacati, la Fiom ed Landini.

Spero e prego che una buona volta il Signore mi aiuti a pensare finalmente ai fatti miei, però già oggi confesso di essermi lasciato andare a giudizi ben poco benevoli.

02.08.2013

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