L’incontro

Una delle mie vecchie alunne delle magistrali, conoscendo le mie simpatie e i miei orientamenti pastorali, mi ha regalato il numero di “Repubblica” di due giorni fa. Il quotidiano ha dedicato la prima pagina e gran parte della seconda all’incontro tra Eugenio Scalfari, il fondatore di questo giornale – uomo che non fa mistero del suo ateismo – e Papa Francesco.

Confesso che mi sono letteralmente commosso alla lettura della lunga intervista con cui Scalfari racconta, con impareggiabile maestria ed umanità, il suo dialogo col Papa. Dovrei impiegare tutte le dodici pagine de “L’Incontro” per descrivere la commozione interiore e l’ebbrezza spirituale che ho provato leggendo questo singolare colloquio, così profumato di sincerità e di calore umano, tra due personalità tanto diverse ma, nel contempo, tanto simili.

Mi soffermo soltanto sul motivo, forse più banale, per il quale ho trovato tanto conforto e letizia interiore leggendo l’intervista di Scalfari e le risposte precise, pulite, ma dirompenti di Papa Francesco. Mi vergogno quasi di rivelarlo tanto è intimo e personale, ma confesso che uno dei drammi più amari nei miei quasi sessant’anni di sacerdozio è sempre stata la solitudine ideale all’interno della mia, pur amata, Chiesa. Mi sono sempre sentito solo; poche volte ho avvertito il conforto della condivisione con i fratelli di fede, ma soprattutto con i preti, miei colleghi. Quanto spesso ho penato dentro di me avvertendo che quasi nessuno dei miei confratelli condivideva la mia concezione di libertà di coscienza, del modo di essere obbedienti, di una Chiesa libera e povera, dell’impegno pastorale che privilegiasse i cosiddetti “lontani” e i poveri e non si fermasse alle altisonanti enunciazioni teoriche e soprattutto si sporcasse le mani sulle vicende dell’uomo vero.

Quante volte non ho sofferto in solitudine sentendomi circondato da una religiosità ridotta a cerimonia e a rito o da una comunità dall’impostazione gerarchica che spesso non lasciava quasi trapelare paternità e fraternità vera.

Quante volte ho avuto la sensazione che tanti mi pensassero spericolato e spregiudicato, perché ritenevano che camminassi sul ciglio dello spartiacque tra fedeltà e infedeltà alla comunità cristiana.

Le parole di Papa Francesco a Scalfari mi hanno dato un senso di liberazione, mi hanno offerto una Chiesa dal volto umano, mi hanno fatto sentire che insieme a tutti, ed ognuno con la propria individualità, si deve cercare e camminare verso i valori più alti della vita, che costituiscono per tutti la porta per entrare nel Regno.

01.10.2013

Le pecorelle smarrite

Domenica scorsa ho predicato, come tutti i preti cattolici di questo mondo, sulla pecorella smarrita. Interpretando ed analizzando il brano evangelico secondo la mia sensibilità (e cosa avrei potuto fare diversamente?). Credo però di non essermi discostato di molto da quello che han detto e dicono tutti i preti a proposito di questa parabola. Ho affermato alcune cose che oggi sono ovvie, ma che la gran parte dei preti non dicono. Ad esempio oggi non avviene più quanto ho letto sul volume che riporta la relazione della visita pastorale del Patriarca cardinal Flangini. Riguardo questa visita, fatta intorno alla metà dell’ottocento, si legge che i parrocchiani di San Marcuola o dei Carmini che non adempivano al precetto pasquale della confessione erano sette e quelli che non si comunicavano erano dodici.

Potrei sbagliarmi di qualche unità, ma non di molto, mentre nell’ultimo numero di “Gente Veneta”, in prima pagina, un titolo a cinque colonne apre un approfondito servizio sulla pratica religiosa nel nostro patriarcato dal tono “Sposarsi si (ma non in chiesa)”, con l’occhiello che specifica “meno di un matrimonio su due si celebra all’altare”. Ed io aggiungo “senza contare le convivenze”.

La scorsa settimana si scrisse, sullo stesso periodico, che su ogni dieci nati, due non sono battezzati. E qualche tempo fa si scriveva pure che la frequenza al precetto festivo superava di poco il 15 per cento, ossia su cento “credenti” 85 non vanno a messa tutte le domeniche. Di fronte a queste cifre, credo che anche il nostro Patriarca potrebbe, o forse meglio dovrebbe scrivere – come fece il cardinal Suar, arcivescovo di Parigi cinquant’anni fa – ai suoi preti e ai suoi quattrocentomila fedeli: “Venezia, Mestre, Mira, Jesolo, Caorle, Quarto d’Altino sono ormai terra di missione! Da rievangelizzare!”.

Ma, a differenza delle sessanta volte che nei miei sessant’anni di sacerdozio commentai questa parabola, ho aggiunto: «Come mai tanto zelo per recuperare l’unica pecora smarrita e tanta tranquillità nell’abbandonare le 99 rimaste sole? Questo comportamento può sembrare del tutto irrazionale? Che non sia che quella che se ne va è la migliore in assoluto? E che quelle che sono rimaste nel gregge siano state solamente apparentemente buone, fedeli e affezionate al pastore?».

Se osservo il comportamento e le scelte pastorali di Papa Francesco, il pastore delle periferie, dei profughi, dei “peccatori” o semplicemente di Scalfari, debbo concludere che egli pensa e si comporta non come noi pastori siamo abituati, ma come quello sconsiderato, imprudente ed irrazionale pastore descritto dal Vangelo.

Leggendo bene la Bibbia si possono fare anche delle scoperte: che i “vicini” potrebbero essere veri “lontani”. Così la pensava forse anche sant’Agostino quando disse: «Ci sono uomini che Dio possiede, ma la Chiesa non possiede ed altri che la Chiesa possiede, ma Dio non possiede!».

22.09.2013

Sono con Pascal!

Un signore dell’interland di Mestre, qualche giorno fa, mi ha mandato una e-mail chiedendomi un consiglio. Sarei stato felice di poterlo pubblicare ma lui, pur essendosi firmato e pur avendomi fornito il suo indirizzo, mi ha chiesto di non pubblicare la sua lettera, cosa che ritengo giusto fare. Comunque questa persona anziana, ma quanto mai lucida e che si dichiara credente, mi ha chiesto aiuto per questioni di fede. Sostanzialmente è rimasto estremamente turbato per la perdita, in un incidente stradale, di un congiunto molto giovane che gli era particolarmente caro.

Di primo acchito sarei stato tentato di lasciar perdere perché i quesiti che mi poneva erano molti ed estremamente impegnativi e avrebbero richiesto un discorso quanto mai lungo ed articolato, non tanto per dargli soluzioni certe ed apodittiche, ma perlomeno per inquadrare seriamente i problemi che mi poneva. Io poi diffido quanto mai delle “parole buone” e consolatorie, che ritengo luoghi comuni poco umani e poi, pur essendo per grazia di Dio credente, navigo io pure a vista in mezzo a mille dubbi e mille perplessità.

Confessai apertamente che non dispongo “pastigliette” per ogni problema religioso.

Questa è stata la mia prima reazione, ma poi, avendo appena appresa la notizia della lettera-risposta di papa Francesco a Scalfari, come avrei potuto io, ultimo suo suddito, non seguirne l’esempio? Presi la mia biro e gli scrissi tre cose che trascrivo, perché penso che potrebbero servire a tanti altri.

Primo. Ritengo che la vita sia un dono assolutamente gratuito e tale rimane se dura cent’anni o solo un minuto, perciò nessuno può pretendere nulla, ma solamente ringraziare.

Secondo. Dio sa fare il suo mestiere e soprattutto mi ama, perciò Lui sa meglio di me quello che è meglio per me e quindi quello che mi capita, anche se io non capisco, è sempre un dono e un atto di amore. Di ciò ho avuto esperienze personali, quindi l’atteggiamento più opportuno, doveroso e razionale è questo: “Signore, sia fatta la tua volontà!”.

Terzo. Sarebbe assurdo ed infantile pregare per far cambiare idea a Dio. Prego solamente per poter capire il messaggio che Dio mi manda in qualsiasi evento della mia vita e soprattutto per ottenere il coraggio di accettare la sua volontà.

Quarto. Io sono con Biagio Pascal che afferma: “Pur con Dio la vita rimane un mistero, ma senza Dio essa è un assurdo”. Molto umilmente, ma con molta convinzione, io aggiungo: “Senza Dio la vita non sarebbe solamente un assurdo, ma una beffa e io non potrei mai accettare di vivere un sol giorno da beffato!”.

Comprendo che queste risposte avrebbero bisogno di una elaborazione, ma io, per natura e per scelta, sono solito andare al nocciolo delle questioni.

21.09.2013

“Avanti tutta!”

E’ nota la favola, o la leggenda, intitolata “Aspettando Godot”. In sintesi si tratta di qualcuno, comunità o singolo individuo, che passa il tempo e consuma la vita aspettando un “non si sa chi” che dovrebbe arrivare a risolvere problemi incombenti. L’attesa però non è espressa da un momento particolare della vita o da una situazione congettuale, ma da un atteggiamento o da uno stato d’animo senza motivazioni razionali, solamente da una forma di inerzia, di paura di prendere posizione e di misurarsi, o forse solamente per quieto vivere, per non aver fastidi, e quindi per “tirare a campare”, senza fatica e senza rischi.

Più volte, e forse troppe, per i gusti di certi miei colleghi, ho denunciato l’immobilismo, la “pavidità”, l’inerzia, la mancanza di tentativi di un nuovo annuncio evangelico, di un tentativo della tanto declamata “nuova evangelizzazione”. E con questo non dico che per tutti sia così; vi sono parrocchie che sperimentano, che tentano e soprattutto che danno testimonianza di impegno in questo o in quel settore della pastorale, ma purtroppo ce ne sono tante, tantissime altre, che vivono nell’ormai consunta poltrona della tradizione, sonnecchiando e sperando, più o meno inconsciamente, l’arrivo di “Godot” che “faccia il miracolo” di risolvere, con un tocco di bacchetta magica, il costante arretramento e la fuga sempre più numerosa di “pecorelle smarrite” o deluse, o perfino in rivolta, insoddisfatte dell’offerta religiosa povera e stantia che vien proposta dalla loro comunità cristiana.

Ogni volta che scorgo nella seppur minima iniziativa, un atteggiamento nuovo, un tentativo di rompere “il guscio”, provo ebbrezza nel volerlo far conoscere, perché diventi traccia da seguire per chi è meno dotato di spirito di iniziativa, però ho la sensazione che siano ancor troppo rare queste testimonianze profetiche. Ora poi, con l’esempio discreto, ma deciso, continuato, di Papa Francesco, cade anche la scusa che certe prese di posizione siano contrarie alla tradizione, ai codici, ai sinodi o all’insegnamento apostolico, perché Papa Francesco ogni settimana fa saltare gli “steccati” e gioca sempre più, anzi sempre, “all’attacco” ignorando quasi la “difesa”.

Sono profondamente convinto che il cristianesimo e la Nostra Chiesa dispongano ancora di immense potenzialità e potrebbero vivere un momento “magico” estremamente favorevole alla proposta cristiana, forse non intesa come “conquista formale di territori, ma come “lievito” nei riguardi di una società che, come non mai, chiede speranza, valori e certezze. Mi verrebbe da adoperare il linguaggio marinaresco per dire a parroci e cristiani di ogni livello: “Avanti tutta!”.

20.09.2013

La scommessa

Ieri mattina (varie settimane fa, NdR, prima della messa, sono andato presso il futuro “Villaggio solidale degli Arzeroni” per visitare il cantiere, assieme al presidente della Fondazione, don Gianni, e al suo manager Andrea, per vedere come procedono i lavori.

Pensavo, quando Andrea mi invitò, che si trattasse solamente di vedere la distribuzione degli spazi, dato il fatto che io non riesco bene a leggere i disegni e ad immaginarmi come essi si traducano nella realtà delle pietre. Ma ben presto scoprii che c’era un motivo ulteriore. Andrea aveva invitato i responsabili del pool di imprese che stanno realizzando la struttura: una quindicina di specialisti – dai muratori al responsabile della sicurezza, dagli idraulici agli elettricisti, dai progettisti (che poi sono tutte donne) agli addetti ai pavimenti – per fare una proposta che mi ha fatto quanto mai felice. Proponeva di anticipare la consegna del manufatto ad aprile del prossimo anno piuttosto che a novembre come è previsto dal contratto, riconoscendo, ben s’intende, un’aggiunta al prezzo fissato per i maggiori oneri che questa anticipazione arreca ai costruttori.

Per me, che vedo il calendario che gira i giorni sempre più velocemente, la proposta non può che far piacere, perché mi piacerebbe vedere la conclusione del “don Vecchi 5” e l’inizio del “don Vecchi 6”, struttura che avrebbe una diversa destinazione, ma sempre di tipo sociale.

Quando vent’anni fa abbiamo progettato il primo “don Vecchi”, siamo partiti con estrema preoccupazione, scommettendo sulla validità del progetto, assolutamente innovativo sulla domiciliarità degli anziani di modestissime risorse economiche, mediante gli “alloggi protetti”, con spazi comuni per la socializzazione e costi economici alla portata di tutti, perfino di chi “gode” (in realtà poco) della pensione sociale. La scommessa è stata vinta, tanto che la nostra soluzione è diventata mosca cocchiera per tanti Comuni ed organizzazioni sociali.

In questi giorni abbiamo fatto una seconda sfida nei riguardi degli anziani poveri, ancora del tutto coscienti ma con disabilità fisiche più o meno gravi. Siamo ai primi passi di questa scommessa, e li stiamo giocando con oculatezza, ma pure con una certa preoccupazione. Sogniamo il vecchio che rimane il padrone di casa sua, potendo godere di un aiuto che la società gli assegna e con la presenza di persone che lo supporteranno con un sentimento di profonda e calda solidarietà.

Collaudata questa fase intermedia di uomini verso il tramonto, rimarrebbe la terza scommessa, alla quale altri hanno dato risposta, taluno per fare business e talaltro appoggiandosi all’apparato burocratico degli enti pubblici che tutti conoscono per la poca efficienza e per il costo elevato.

Per ora mettiamo questa sfida come obiettivo remoto, ma sarebbe esaltante poterla fare con il nostro stile e la nostra mentalità che è ben differente da quella degli operatori del settore. Chi vivrà vedrà!

20.09.2013

Perfino io!

Un tempo i buoni preti si facevano un dovere di leggere “L’osservatore romano”, il quotidiano della Santa Sede e del Papa. Ci deve essere stato un tempo – forse dopo un ritiro o un corso di esercizi spirituali – che per un anelito alla santità, anch’io ho sentito il dovere di prendermi il giornale del Papa. Il proposito durò poco tempo, perché pian piano nacque nel mio animo un senso di rifiuto: repulsione che col tempo diventò sempre più radicale.

Le foto delle beatificazioni di suore di due, trecento anni fa, con le loro tonacone e le cuffie di altri tempi, le pose, se non bigotte, perlomeno pietistiche, il riportare i discorsi interminabili e “teologici” del Papa, le cronache delle presentazioni dei vari ambasciatori presso la Santa Sede, mi resero il giornale sempre più indisponente sia per i contenuti che per l’impostazione grafica pesante e ottocentesca, che dava l’impressione di un vecchiume ecclesiastico da soffitta.

Il rifiuto crebbe a tal misura che quando un addetto alla diffusione del periodico mi telefonò per invitarmi all’abbonamento, rifiutai in maniera decisa, aggiungendo che il giornale dava “scandalo” e presentava una Chiesa che non aveva più nulla a che fare con la gente e perfino con i preti che la amano e la sognano viva, giovane e bella. Così finì il mio rapporto di un amore mai nato nei riguardi dell'”Osservatore romano”.

Senonché da qualche settimana un mio caro collaboratore liturgico, fedele devoto, che si è abbonato al periodico, mi passa quello della settimana prima che lui ha letto o che avrebbe desiderato leggere. Il giornale non è cambiato un granché, né si mette in competizione con i grandi periodici come “Repubblica”, “Il Corriere della sera” e neppure, perfino, con “Gente Veneta”, il giornale della diocesi veneziana, però si presenta con una veste povera, candida, pulita ed innocente, per cui desta quasi tenerezza, tanto che l’attuale “Osservatore romano” potrebbe competere, dal punto di vista di impostazione grafica, appena con “L’Incontro” – e non sarebbe proprio certo che la vincerebbe. E neppure per la varietà dei contenuti spazia troppo, però riporta fedelmente e senza commento i discorsi del Papa, che pur essi si presentano disarmati, disadorni e poveri, ma ricchi di semplicità e di un profondo afflato spirituale, come si diceva un tempo, tanto che anch’io, che un pizzico di anticlericalismo me lo porto nel sangue da sempre, leggo tanto volentieri e con edificazione e mi fa sempre almeno sognare e desiderare una Chiesa migliore.

Questa scoperta potrebbe rappresentare un altro apporto per il volume “I fioretti di Papa Francesco”, o meglio ancora un “miracolo” per la sua futura beatificazione.

19.09.2013

Competizione o guerra

Io non sono un grande sportivo e, meno ancora, un fanatico di qualsiasi sport, però talvolta seguo con qualche interesse le gare di ciclismo, quelle di atletica leggera e perfino gli incontri di box. Mi piace la competizione, lo sforzo di superare se stessi, perché la ritengo una prova che l’uomo ha delle meravigliose potenzialità che potrebbero diventare “ricchezza” per tutti se fatte emergere da quella ricca e profonda “miniera” che è il cuore e lo spirito di ogni persona.

Lo sport, che esige sempre disciplina, allenamento, fatica e coraggio, diventa per me motivo e stimolo per prendere coscienza che l’onestà, la generosità, l’altruismo, la solidarietà e – diciamo pure – la santità, esigono una ascesi continua, anche se faticosa. Confesso che sarei più felice se gli uomini del nostro tempo si impegnassero, a riguardo dei valori umani, con lo stesso rigore con cui gli atleti faticano tanto per guadagnare qualche decimo di secondo per vincere le gare sportive.

Dello sport, inoltre, mi piace soprattutto il fatto che gli atleti, pur spremendo ogni energia per vincere l’avversario, dopo la gara quasi sempre si trattano da amici. Porto nella memoria il bel gesto di Bartali e Coppi che sul Pordoi si sono scambiati la borraccia dell’acqua. Mi commuove e mi edifica quando dopo un match di box, in cui due pugili se le sono date di santa ragione, alla fine del combattimento si abbracciano come se non avessero ricevuto i fendenti l’uno dell’altro.

Mi spiace, mi addolora e mi delude, che la stessa cosa non avvenga mai in politica. Comprendo che lo scontro di idee possa essere talvolta forte e duro, ma non riesco ad accettare che quasi sempre i politici non si comportino da avversari ma, troppo spesso, da nemici, non risparmiandosi quasi mai l’insulto, la totale sfiducia, il rancore, lo spirito di odio e di vendetta che li rende poveri e meschini più degli uomini comuni, visto che essi sono spessissimo dotati di intelligenza particolare.

Le recenti vicende di Berlusconi, del PD, dei “Cinque stelle” e della Lega, mi hanno offerto uno spettacolo meschino e deludente. Non saprei proprio chi salvare!

La passione politica spesso è un fatto irrazionale, come quasi sempre è irrazionale fare il tifo per la Juventus piuttosto che per il Milan, ma comprendo di più il folklore e le battute colorite delle “curve”; condanno però, senza scuse, chi s’approfitta delle competizioni sportive per dar sfogo agli istinti più bruti, così non riesco a comprendere, anzi provo disprezzo, per chi si serve della politica per scopi interessati e lo fa con livore e cattiveria nei riguardi degli altri.

18.09.2013

“Il prodigo” di questa mattina

Anche oggi ho celebrato un cosiddetto “funerale di povertà”, ossia un commiato per il quale l’amministrazione comunale si fa carico della “cassa”, delle “carte” e dei vari balzelli che il Comune impone anche in occasione della morte e dall’altra il sacerdote prega il Signore senza aspettarsi “offerta” alcuna.

Veniamo al cofano, che è la cosa che più direttamente balza agli occhi. Un tempo era veramente indecente: quattro assi di abete inchiodati alla buona ed un po’ di mordente marron chiaro. Da qualche anno il Comune adoperava delle casse un po’ più decenti, anche se appena colorate di una tintarella che sapeva di miseria. Ora adopera una partita un po’ più dignitosa, ma con un coperchio piatto che dice chiaramente a tutti che dentro non ci può essere che un nullatenente.

Io, che per “mestiere” ho abbastanza dimestichezza con gli addetti alle pompe funebri, so che la loro bara meno costosa, ma migliore di quelle del Comune, costa dai 120 ai 140 euro. Ben s’intende nella cassa dei poveri non ci sono maniglie, imbottiture, crocifisso né zampe (un famigliare, questa volta, ha messo un mazzo di fiori sopra il cofano).

Normalmente il capo ufficio della Veritas, che è un uomo rispettoso della morte e che è colui che prende i contatti con me, mi fornisce il nome e cognome. Spesso non sa niente, neppure lui, del defunto che quasi sempre non ha famigliari. Questa mattina invece mi ha dato il numero del telefonino del fratello. Gli ho telefonato e lui mi ha raccontato il passato squallido del defunto. Il padre scappò in America quando erano ancora tanto piccoli, la madre se ne andò con un altro uomo. Uno dei fratelli fu mandato giù a Venezia all’Istituto Manin, che un tempo raccoglieva i trovatelli o gli orfani indigenti, e l’altro in un istituto diverso.

Il primo si salvò perché gli zii lo seguirono ed egli trovò lavoro e si fece una famiglia, mentre l’altro – quello per il quale questa mattina ho pregato e che ho affidato al Padre celeste – passò i suoi pochi anni tra la droga, i furti e il carcere, non trovando requie in alcun luogo neanche dopo morto, essendo rimasto in cella frigorifera per tanto tempo (perché l’iter dei funerali di povertà è sempre lungo e complesso), ma finalmente ha trovato pace sotto una croce bianca.

Sempre provo tenerezza per questi “rifiuti d’uomo” che la nostra società produce sempre più abbondantemente. Questa mattina però, avendo conosciuto questa triste storia, ne ho provata più di sempre e durante la messa d’esequie non ho fatto altro che sognare l’incontro col Padre, che domenica scorsa la parabole del Figliol Prodigo mi aveva già descritto. Così lo squallore di questa partenza solitaria si è trasformata in qualcosa di caro e di sereno.

16.09.2013

Perseverare

Il nostro vecchio patriarca, il cardinal Roncalli, parlava abbastanza di frequente della “santa perseveranza”, la virtù che accompagna l’uomo fino all’ultimo passo.

Qualche settimana fa “L’avvenire” ha pubblicato un bel servizio su Emilia Zucchetti, in occasione del compimento dei suoi centodieci anni di età. Questa anziana signora parlava con entusiasmo della sua terra, della sua famiglia, del suo lavoro, ma soprattutto della sua fede nel buon Dio.

I vecchi che mantengono entusiasmo, che rimangono attivi ed ottimisti e che continuano ad amare la vita, sono veramente delle persone belle e dei testimoni autentici del grande dono ricevuto dal Signore. Io conservo nel mio cuore delle bellissime immagini di vecchi. Ricordo di aver visto alla televisione Emma Gramatica recitare a novant’anni di età, ed era veramente meravigliosa e piena di fascino. Ricordo il cardinal Bevilacqua che tanti anni fa è venuto a parlare in seminario e conservo di questo vecchio prete, che parlava con fatica ma con grande entusiasmo e freschezza, un ricordo bellissimo e stimolante.

Io attualmente vivo tra tanti vecchi che vanno da un minimo di settant’anni ad un massimo di quasi cento. C’è, si, qualche bella persona, ma non troppe. Sono arrivato a pensare che i valori, gli ideali, i sogni, l’ottimismo e la bontà vanno curati con infinita pazienza e passione perché quando essi s’appannano fa veramente sera.

Mi confidava una cara signora di Firenze che aveva avuto una vita intensa, ma pure con tanti drammi: «Sapesse, don Armando, quanto faticoso sia vivere quando gli ideali non brillano più!». Per questo sono giunto alla conclusione che nella vita non bisogna sedersi, mettersi in pantofole ed in poltrona, ma sognare, progettare, reagire, partecipare, impegnarsi, perfino ribellarsi ma vivere!

Parecchi anni fa organizzai un incontro con i miei ragazzi di un tempo, ragazzi con i quali avevo percorso gli alti sentieri della montagna, bivaccato in tenda, discusso in maniera animata sui vari problemi della vita. Ormai tutti s’erano fatti una famiglia e avevano una professione. Posi loro questa domanda: «Ragazzi, che ne è dei sogni e dei progetti che mi avete confidato nella vostra adolescenza?». Era una domanda impegnativa e ognuno era un po’ imbarazzato nel rispondere. Qualcuno mi disse, deluso, che la vita reale è ben diversa da quella sognata, ma qualche altro aveva continuato a servire, in politica, nel sindacato o nel volontariato. Mi accorsi che avendo continuato a coltivare gli ideali questi erano ancora ricchi, ma soprattutto vivi, presenti e partecipi.

La perseveranza fa tagliare il traguardo ancora in piedi.

05.09.2013

Il culto che il Signore desidera

Questa mattina la Chiesa mi ha fatto leggere nel breviario questa pagina di san Giovanni Crisostomo, uno dei padri della Chiesa, pagina che trascrivo. Sono stato felice di ritrovare questo scritto perché mi ha riconfermato nella mia profonda convinzione, che ho da sempre, che Dio desidera da noi, suoi figli: solidarietà e servizio ai poveri, piuttosto che riti sontuosi ed elucubrazioni teologiche. La fede che piace a Dio è l’amore.

Vuoi onorare il corpo di Cristo? Non permettere che sia oggetto di disprezzo nelle sue membra cioè nei poveri, privi di panni per coprirsi. Non onorarlo qui in chiesa con stoffe di seta, mentre fuori lo trascuri quando soffre -per il freddo e la nudità. Colui che ha detto: «Questo è il mio corpo», confermando il fatto con la parola, ha detto anche: «Mi avete visto affamato e non mi avete dato da mangiare e ogni volta che non avete fatto queste cose a uno dei più piccoli tra questi, non l’avete fatto neppure a me». Il corpo di Cristo che sta sull’altare non ha bisogno di mantelli, ma di anime pure; mentre quello che sta fuori ha bisogno di molta cura.

Impariamo dunque a pensare e a onorare Cristo come egli vuole. Infatti l’onore più gradito che possiamo rendere a colui che vogliamo venerare è quello che lui stesso vuole, non quello escogitato da noi. Così anche tu rendigli quell’onore che egli ha comandato, fa’ che i poveri beneficino delle tue ricchezze. Dio non ha bisogno di vasi d’oro, ma di anime d’oro.

Con questo non intendo certo proibirvi di fare doni alla chiesa. No. Ma vi scongiuro di elargire, con questi e prima di questi, l’elemosina. Dio infatti accetta i doni alla sua casa terrena, ma gradisce molto di più il soccorso dato ai poveri.

Che vantaggio può avere Cristo se la mensa del sacrificio è piena di vasi d’oro, mentre poi muore di fame nella persona del povero? Prima sazia l’affamato, e solo in seguito orna l’altare con quello che rimane. Gli offrirai un calice d’oro e non gli darai un bicchiere d’acqua? Che bisogno c’è di adornare con veli d’oro il suo altare, se poi, non gli offri il vestito necessario? Che guadagno nericava egli? Dimmi: se vedessi uno privo del cibo necessario e, senza curartene, adornassi d’oro solo la sua mensa, credi che ti ringrazierebbe o piuttosto non si infurierebbe contro di te? E se vedessi uno coperto di stracci e intirizzito dal freddo, trascurando di vestirlo, gli innalzassi colonne dorate, dicendo che lo fai in suo onore, non si riterrebbe forse di essere beffeggiato e insultato in modo atroce?

Pensa la stessa cosa di Cristo, quando va errante e pellegrino, bisognoso di un tetto. Tu rifiuti di accoglierlo nel pellegrino e adorni invece il pavimento, le pareti, le colonne e i muri dell’edificio sacro. Attacchi catene d’argento alle lampade, ma non vai a visitarlo quando lui è incatenato in carcere. Dico questo non per vietarvi di procurare tali addobbi e arredi sacri, ma per esortarvi a offrire, insieme a questi, anche il necessario aiuto ai poveri, o, meglio, perché questo sia fatto prima di quello. Nessuno è mai stato condannato per non aver cooperato ad abbellire il tempio, ma chi trascura il povero è destinato alla geenna, al fuoco inestinguibile e al supplizio con i demoni. Perciò mentre adorni l’ambiente del culto, non chiudere il tuo cuore al fratello che soffre. Questi è un tempio vivo più prezioso di quello.

04.09.2013

L’uomo, questo sconosciuto

Questa settimana, non so per quale motivo, sono risaliti alla mia memoria dei ricordi che mettono a fuoco la difficoltà di conoscere l’uomo nel suo profondo e nella sua autenticità.

Lessi, tanti anni fa, uno studio di uno scienziato di un certo spessore scientifico, Alexis Carrel, che aveva come titolo: “L’uomo, questo sconosciuto!” E’ affascinante scandagliare la psicologia dell’animo umano, ma è difficile! Da tantissimi anni ho fatto mia un’affermazione di Raoul Follereau, l’apostolo dei lebbrosi, il quale, coerente alla sua scelta di vita, affermò: «Io ho tanti fratelli e tante sorelle quanti sono gli uomini e le donne che abitano in questa terra!». In realtà la vita di questo testimone è stata veramente coerente a questa scelta perché ha dedicato tutta la sua esistenza a favore dei lebbrosi. Per me, però, l’aver fatto questa scelta non significa che vi sia stato sempre coerente.

Comunque torno sul discorso del mistero dell’uomo “questo sconosciuto”, perché sono stato sollecitato tempo fa, a ripensare a questo problema, dall’incontro con una mia vecchia parrocchiana che ha perso il marito, persona che io conoscevo molto bene. Questa donna, ormai sessantenne, era veramente innamorata del suo uomo e lui pure, credo, che nel profondo del suo spirito, ricambiasse questo sentimento, però sono certo che durante i suoi trent’anni di matrimonio non sia mai riuscito a dire a sua moglie “ti amo”. E lei è vissuta, e vive ancora, questo dramma che l’angoscia.

Penso che a quest’uomo mancassero gli strumenti per esprimere la ricchezza del suo cuore. Rimasto orfano in tenera età, era cresciuto in collegio; adolescente, fu adottato da due coniugi che non l’hanno amato, ma l’avevano adottato solamente per garantirsi un’assistenza per la loro vecchiaia. E’ più frequente di quanto non si possa immaginare il fatto che l’uomo manchi di strumenti per far emergere il meglio della sua umanità.

Don Milani sottopose i suoi ragazzi ad un tipo di scuola “massacrante” perché era convinto che solamente offrendo loro cultura avrebbe permesso loro di essere cittadini liberi, responsabili delle sorti del Paese. Don Milani aveva più che ragione! Credo che la stessa cosa sia più che mai necessaria per quanto riguarda i sentimenti. Ho l’angoscia quando penso com’è costretta a crescere quella folla sterminata di bambini di famiglie sfasciate, tra genitori in eterno conflitto, in ambienti nei quali non c’è nulla di sicuro, in cui i sentimenti galleggiano costantemente.

Se la nostra società non tenterà di rilanciare il modello più sano e più vero di famiglia, avremo un domani di creature insicure, incapaci di fare scelte belle e definitive e di dare e di ricevere il vero amore.

04.09.2013

Dietro la maschera

Oggi sono costretto a fare un discorso che di primo acchito potrebbe sembrare in netta opposizione a quello che ho fatto ieri quando mi sono messo in guardia e ho messo in guardia i miei amici verso certi nominalismi dietro i cui nomi nobili ed altisonanti si nascondono bassezza d’animo, cattiveria, meschinità, tornaconto personale e prepotenza. La mentalità e il comportamento degli italiani sono pieni di un certo populismo, di un certo legalismo e di una certa cultura che non ha supporti umani, razionali e morali seri e consistenti.

Oggi però sono costretto a mettermi in guardia da certi giudizi affrettati in cui è facile cadere. Talvolta un volto poco gradevole, un modo di fare troppo sicuro di sé ed un comportamento un po’ fuori dalla norma, porta facilmente ad emettere un giudizio affrettato, leggero, che mortifica ingiustamente una persona e può farla soffrire.

Io ho avuto in un passato molto lontano una amara lezione a questo riguardo, però qualche giorno fa ci sono ricaduto e questo mi addolora e mi mortifica. Insegnavo allora alle magistrali e in una certa classe avevo un alunno di diciassette anni che occupava un banco in fondo alla classe e disturbava in maniera seria: era irrequieto, disattento, talmente indisciplinato che ero costretto a richiamarlo continuamente. M’ero fatto decisamente una brutta impressione, lo ritenevo svogliato, fannullone e poco educato. Senonché un giorno, durante la pausa fra un’ora e l’altra, mi si accostò e mi disse: «Don Armando, perché lei ce l’ha con me?». Io risposi che il motivo era la sua indisciplina che disturbava la classe e mi faceva faticare più del necessario. Al che, con gli occhi un po’ lucidi, mi disse che aveva la mamma in ospedale da due mesi, che in casa niente più funzionava a dovere e suo padre era particolarmente irritabile. Mi chiese scusa, e per i due anni che lo ebbi come alunno, fu irreprensibile e di condotta esemplare. E pure adesso, a distanza di tanti anni, mi tratta con affetto e riconoscenza.

Rimasi male, perché dovevo essere io, più anziano ed insegnante, ad accostarlo personalmente, per rendermi conto della condizione di disagio in cui viveva, non il ragazzo ancora adolescente. La lezione mi giovò assai, tanto che prima di emettere un giudizio ci penso non una volta, ma molte di più.

Qualche giorno fa però, mi capitò pressappoco la stessa cosa non con un ragazzo ma con una persona in età. Anche in questo caso sono venuto a conoscenza dello sfascio della sua famiglia, del fallimento a livello professionale, e ho capito quindi che il mio giudizio era poco nobile, perché quell’uomo aveva bisogno più di comprensione e di conforto che di un rifiuto e di biasimo.

Dietro la maschera fittizia si possono fare le scoperte più sorprendenti. Talora v’è meschinità dietro a certi volti contrassegnati da perbenismo, talaltra invece dietro a certe maschere di abiezione si trova qualcosa di ancora bello e sano. Il dolore purifica, però spesso costringe a smorfie che ingannano.

03.09.2013

Gli italiani alla scuola di Barbiana

Monsignor Vecchi è stato un insegnante di storia della filosofia, ma soprattutto di filosofia scolastica. La scolastica è la filosofia che ha come pilastro portante Tommaso d’Aquino e come teorema di fondo che l’uomo non solo tende, ma può raggiungere la verità e quindi arrivare alla scoperta dell’esistenza di Dio, che fede e ragione sono complementari e soprattutto che vi sono delle verità certe ed assolute.

Il mio vecchio insegnante, durante le lezioni di questa materia, che è rimasta l’ossatura di tutto il mio impianto di pensiero, spesso insisteva sul nominalismo, ossia sull’uso di termini e di affermazioni teoriche che denunciano una certa verità, ma che dietro hanno invece sostanza ben diversa. E’ stato questo un concetto che mi ha aiutato molto a non lasciarmi incantare da certe parole “magiche” le quali, in realtà, hanno dei contenuti ben diversi da quello che il termine fa apparire.

Pittigrilli, un autore ora dimenticato, ma che a me ha fatto del bene, diceva con un’altra immagine: “Vi sono dei paraventi pieni di fascino, che però nascondono la peggior specie di sozzure e quanto più questi paraventi sono sublimi, tanto più sono tristi, deludenti e spesso infami le realtà che nascondono”. Quanto sono belle e piene di fascino le parole: amore, giustizia, democrazia, Patria, libertà ed altre ancora, e quanti delitti, soprusi, soperchierie, egoismi, sopraffazioni, arroganze esse hanno nascosto dietro di loro.

I peggiori figuri dell’umanità da sempre si sono serviti di queste parole per nascondere la loro brama di potere, il loro despotismo. Perfino nella Chiesa vi sono ancora parole-paravento, come ad esempio: obbedienza, sacralità, proselitismo, autorità, che però nascondono qualcosa di certamente meno nobile e meno evangelico.

Sto rileggendo, dopo molti anni, “La lettera ai giudici” di don Lorenzo Milani, a difesa dell’obiezione di coscienza, ma soprattutto tutta tesa a mettere a nudo certe posizioni ufficiali recepite dalla tradizione come valori sublimi ed assoluti, mentre in realtà sono bolle iridate che alla puntura di uno spillo di un prete intelligente e libero si dissolvono nel nulla.

Mentre leggo, con una certa voluttà, le argomentazioni che don Milani fa ai giudici, mi ripeto, quasi ad ogni riga: “L’Italia avrebbe assoluta necessità del `maestro di Barbiana’, che insegnava 14 ore al giorno facendo riferimento alla Bibbia, alla costituzione, ma soprattutto alla coscienza.

02.09.2013

Sono finalmente con la Bonino

Dai radicali mi divide l’oceano; pur ammirando la loro intraprendenza, la determinazione, l’intelligenza e lo spirito di sacrificio con le quali portano avanti le loro tesi, rifiuto in maniera categorica certo spirito anticattolico e libertario che li anima. Mentre sono con loro sul problema della giustizia, delle carceri, degli aiuti al terzo mondo, sul diritto alla libertà di coscienza che lo Stato deve garantire a tutti, sulla non violenza e su una certa economia di mercato pur mitigata dall’attenzione verso le classi più deboli. Detto questo, quando Letta ha scelto la Bonino come ministro degli esteri, sono stato contento perché lei è una donna preparata che poi non ha peli sulla lingua.

Da qualche giorno però la sto tenendo d’occhio particolarmente, di certo non per la sua avvenenza femminile, ma sul problema dell’intervento militare in Siria. Ancora una volta ho avuto modo di criticare la grandeur dei francesi e l’imperialismo atavico degli inglesi e sono veramente preoccupato per i tentennamenti di Obama il quale, nonostante le catastrofiche batoste che gli americani hanno subito in Vietnam, in Irak ed in Libia, sarebbe tentato di intervenite, pur mettendo in sicurezza i suoi soldati ma facendo piovere bombe e razzi sui poveri abitanti della Siria che di massacri e di rovine ne hanno avute e ne hanno al disopra di ogni possibile sopportazione.

Sto attento alle prese di posizione della Bonino, che penso voglia svicolare con il pretesto e la speranza che l’ONU non possa intervenire a motivo del veto dei russi.

Di certo mi sarebbe piaciuto che avesse detto fuori dai denti ai francesi, agli inglesi e agli americani: «Non contate su di noi, neppure per le basi che avete in Italia; noi siamo per la non violenza e per trovare ad ogni costo a tavolino e politicamente una soluzione per la tragedia siriana. Già me la sono legata al dito con Letta e il suo governo per la faccenda dei quindici miliardi di euro spesi per comperare i cacciabombardieri! Chi crede ancora nella forza delle armi appartiene al passato, alla barbarie, all’inciviltà! I nostri bambini non dovranno neppure più conoscere certi termini che non darebbero più corso nel nostro Paese, come: guerra, bombe, fucili!

E’ tristissimo sapere che i siriani si stanno scannando tra loro e stanno distruggendo le case della loro gente, però sarebbe ancora più triste se diventassimo, pure noi, gli artefici anche di un solo morto o della distruzione di una sola casa.

01.09.2013