Una sola misura

In queste ultime settimane non ho potuto non seguire le vicende postume del capitano tedesco che organizzò e portò a termine l’eccidio delle Fosse Ardeatine. I giornali e la televisione ci hanno informato con dovizia di particolari sull’eccidio, sulla fuga e cattura del nazista, sulle sue vicende giudiziarie, sulla dottrina a cui ha aderito sino alla fine dei suoi giorni e sulle avventurose e macabre circostanze, al momento non ancora terminate, dei funerali e della sepoltura.

Aggiungerei ancora che mi ha fatto riflettere la rabbia, il senso di vendetta e rancore che la morte di questo superstite dell’ultima guerra hanno attizzato tra la nostra gente. Infine non posso neppure sottacere sulle manifestazioni non solamente affatto cristiane, ma neppure umane e civili insorte in occasione di questo amaro evento che ha portato a galla le vicende tragiche che molto e molto faticosamente ci stiamo lasciando alle spalle. Ritengo che il tempo non soltanto dovrebbe lavare, ma anche farci prendere le distanze dalla generazione che ne fu travolta e che purtroppo fu protagonista di queste vicende.

La mia condanna sull’eccidio è assoluta, senza alcuna sbavatura e senza alcuna riserva. Però anche in questa occasione debbo registrare la protervia, l’inciviltà, la disumanità e la totale mancanza di pietà del vincitore. Il capitano delle SS è certamente un uomo che ha profanato e dissacrato la sua umanità ed è giusto che l’opinione pubblica ne prenda coscienza e nel contempo ne prenda le distanze, però mi chiedo e chiedo a tutti gli italiani che in questo momento si impalcano a giudici spietati: «Ma il pilota che ha sganciato la bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki, facendo strage di decine di migliaia di innocenti è forse meno colpevole? E il comandante che gli ha dato l’ordine di portare a termine quella missione, e il Presidente degli Stati Uniti, sono meno colpevoli? Eppure per loro, vincitori, c’è una tomba e forse un mausoleo. Stalin, sulla cui coscienza ci sono non trecento morti, ma una decina di milioni di morti, merita forse un giudizio più benevolo?

Una volta ancora la giustizia è addomesticata e al guinzaglio del vincitore!

Credo che la sacralità della morte che i romani definirono con la sentenza “Parce sepulto” dovrebbe essere rispettata da tutti e in ogni tempo, mentre una volta ancora viene ridotta a paravento per nascondere l’aspetto più disumano dell’uomo. Finché si continueranno ad usare le parole che esprimono i valori più alti, quali libertà, giustizia, verità, democrazia, a nostro uso e consumo, anzi per nascondere le nostre vergogne e meschinità, non si potrà parlare di civiltà.

Anche in occasione della morte di questo criminale di guerra penso che l’Italia non abbia scritto una pagina nobile ed umana. Credevo che si fosse voltata pagina, mentre constato che siamo ancora indietro di secoli.

18.10.2013

i soliti

Alcuni anni fa ho letto un articolo di don Franco De Pieri – il parroco di San Paolo che, raggiunta la pensione per limiti di età, ha lasciato la sua comunità parrocchiale per continuare il suo ministero pastorale in Brasile – articolo che mi ha interessato quanto mai.

Don Franco rispondeva alla critica che si sente di frequente: “che nei nostri luoghi girano sempre le solite persone”. Come a dire che questa gente è impicciona e occupa gli spazi nei quali altri concittadini o fedeli potrebbero dare il loro contributo, forse migliore di quanto offrono “i soliti”.

Don Franco, col cipiglio che gli è proprio, anche nei suoi scritti afferma: “Benedetti questi `soliti’ e guai a noi e alle nostre parrocchie se non ci fossero, perché tanta gente è bravissima a parlare e soprattutto a criticare, ma quando c’è bisogno di qualcuno che dia una mano, essi scompaiono dalla scena”.

Tante volte ho riscontrato personalmente la verità di questa osservazione. L’ultima volta che ho fatto questa constatazione è stato qualche settimana fa in occasione di un appello a favore di due residenti al “don Vecchi” che sono privi di qualsiasi introito. Per aiutare queste due persone ho fatto un appello su “L’Incontro”: “Adottate un anziano in difficoltà assicurandogli un mensile di almeno 100 euro”. Appena posto il periodico sull’espositore, un signore amico, sempre disponibile a farsi carico del prossimo, s’è immediatamente offerto alla prima adozione e il giorno dopo un’altra persona, quanto mai generosa, mi ha telefonato per offrirmi la seconda adozione.

Per associazione di idee mi venne in mente l’affermazione di don Franco che, per fortuna, possiamo contare sui soliti. E’ una vita che mi occupo di poveri e che sono preoccupato di reperire i fondi dei quali non si può fare a meno se si vuole dare una mano a chi è in difficoltà. Sempre sono i pochi “soliti” a farsi carico dei bisogni del prossimo.

Ricordo che nel passato più volte, di fronte al bisogno di finanziare qualche struttura o servizio, ho preparato un piano finanziario in cui si prevedeva che se ogni mestrino avesse offerto 50 centesimi, la cosa si sarebbe risolta senza alcuna difficoltà. Mai, nonostante appassionate campagne di stampa, una volta mi è andata dritta. Sono quindi arrivato alla conclusione di non rinunciare mai a coinvolgere la comunità, ma di contare purtroppo solamente sui soliti. Benedetti quindi “i soliti!”.

30.09.2013

Scuole di rieducazione

Ho letto che finalmente il ministro degli interni ha mandato altri quattrocento poliziotti per fermare la guerriglia dei NO TAV in val di Susa per impedire loro di distruggere le macchine con le quali si sta lavorando per il traforo della montagna. Non sia mai che io mi permetta di dare un giudizio sulla validità di questo progetto. So solamente che la Francia pare che abbia quasi terminato il tratto di sua pertinenza nel suo territorio, mentre noi andiamo avanti con passo di lumaca, anzi spesso stiamo fermi a causa dei valligiani e soprattutto della manovalanza dei “soldati di ventura” pronti a combattere per delega.

In Italia pare che tutti gli esperti, e deputati a decidere in merito a queste cose, abbiano discusso all’infinito e poi abbiano deciso. Credo che anche il più stupido sappia che mai si può pretendere che non ci sia qualcuno che obietti, ma in ogni Paese con un minimo di senso civico, chi è deputato dalla maggioranza decide. Anche in questi casi i dissenzienti hanno il diritto di influire, su chi ha il compito di decidere, ma con mezzi pacifici e non tentare di imporre il proprio parere con azioni di teppismo.

Detto questo rimane sempre la questione dei centri sociali che sono sempre i portabandiera e i soldati di ventura di qualsiasi dissenso, specie di quelli più eversivi.

Il dottor Bettin, eminente sociologo veneziano, persona che stimo, ha sempre sostenuto che è bene mantenere aperti i centri perché si possono controllare. Io non sono mai stato di questo parere perché reputo che in uno Stato di diritto sia sempre comunque la maggioranza a decidere, si tratti di ferrovie, grandi navi o caserme americane.

Mi pongo invece il problema se non sia il caso di pensare a campi di rieducazione. I Paesi ritenuti i più avanzati da un punto di vista sociale da parte della sinistra, quali la Russia, la Cina, il Vietnam, la Cambogia ed altri ancora, hanno sempre adoperato questo strumento per “rieducare alla democrazia”. Non capisco perché il PD, che si ispira a questi modelli, non chieda che anche da noi si usino, magari anche con forme meno rigide, queste scuole di democrazia. Mi riesce tanto difficile comprendere che le istituzioni non si preoccupino affatto di “rieducare” ad una sana democrazia queste frange eversive sempre pronte a menar le mani, a rompere e a muoversi secondo regole che per i più rimangono sconosciute e che comunque non sono previste dalle leggi del nostro Paese.

30.09.2013

il cane che porta l’uomo a passeggio

Come ho affermato ormai troppe volte, esco dal “don Vecchi” verso le 7,20 del mattino per aprire le mie amate chiese del cimitero, la cattedrale prefabbricata e la vecchia cappella ottocentesca costruita esattamente 200 anni fa assieme al camposanto di Mestre. Il tragitto è sempre il solito: via dei 300 campi, via Sem Benelli, via Goldoni, via Trezzo e via Santa Maria dei Battuti, per arrivare alla meta: la piazzetta dei cipressi antistante l’ingresso principale del cimitero.

Sono strade abbastanza solitarie durante le prime ore del mattino, battute solamente da alcuni concittadini che vengono dalla direzione opposta e finiscono per raggiungere la meta comune attraverso il “viottolo della solidarietà” che si imbocca proprio davanti al “don Vecchi” il grande parco verde di viale don Sturzo, per permettere ai loro cani di scorrazzare indisturbati tra l’erba verde.

Fino a qualche mese fa questo parco non vedeva anima viva, se non i rari anziani del “don Vecchi” che vanno al supermercato dell’Ins o, i più “nobili” di loro, a prendere il caffè al bar o a giocare qualche puntata alle macchinette (purtroppo il male del minigioco d’azzardo ha qualche affezionato cliente anche tra i residenti del Centro). Il parco si anima solamente nel pomeriggio perché frequentato dai ragazzini che, non potendo fruire da più di mezzo anno del parco antistante alla chiesa di San Pietro Orseolo perché i lavori di bonifica sono sospesi, si divertono con i pochi giochi trasportati dal vecchio al nuovo prato sotto gli occhi disattenti delle mamme che approfittano di questa occasione per chiacchierare tra loro.

Al mattino però il parco è animato dai cani, di tutte le taglie e di tutte le razze che, sciolti i guinzagli dai loro padroni, possono finalmente ritrovare il loro habitat originale, trastullarsi aiutati dai padroni che fan loro rincorrere pezzi di legno o palle colorate lanciate lontano. Ma soprattutto per fare i loro bisognini indisturbati sotto lo sguardo benevolo e compiaciuto dei loro accompagnatori. In realtà loro, per far la pipì, non disdegnano di alzare la gambetta anche ai margini della strada, ma per le loro necessità più consistenti amano il parco. Da noi, ai margini della città, si vive ancora secondo natura per cui palette, sacchetti di plastica per la raccolta differenziata, sono assolutamente sconosciuti.

Confesso che mi piace vedere queste scenette bucoliche: persone di trenta, quarant’anni che accompagnano con tanta tenerezza i loro cani, talora di media taglia e spesso poco più grandi di una pantegana, ma lustri, ben nutriti e soprattutto tanto amati, che conducono, secondo i loro estrosi desideri, i loro padroni a passeggio.

Non c’è volta che non mi salga dalla coscienza il giudizio amaro: “Quanta gente dedica tempo, denaro e amore a questi animali, ma non trova qualche ora alla settimana per soccorrere vecchi, bambini e persone di altri Paesi poveri che avrebbero bisogno del loro aiuto disinteressato e generoso.

Penso che anche san Francesco, amante del Creato ed amico del lupo di Gubbio, sarebbe più contento che questi nostri concittadini destinassero un po’ meno tempo ai cani e più ai loro simili.

29.09.2013

Il “don Vecchi celeste”

Questa mattina, assieme ad un gruppetto di famigliari ed uno un po’ più numeroso di residenti al Centro don Vecchi di Mestre, nell’umile chiesa tra i cipressi del nostro cimitero, abbiamo preso commiato da Gino.

Negli ultimi tempi questo caro amico, che per anni abbiamo visto nel nostro Centro accompagnare in ospedale la sorella ed assisterla con attenzione ed un amore veramente ammirevole, aveva un volto sempre più pallido e perdeva, a vista d’occhio, sempre più peso. La signora Cervellin, che per una vita ha lavorato tra i pazienti del nostro ospedale e che ora funge da consulente sanitario presso i nostri Centri, ha consigliato al nostro coinquilino, prima di fare degli accertamenti e poi il ricovero in ospedale. Il nostro amico, pur controvoglia, perché preoccupato dell’assistenza alla sorella con la quale ha lavorato e poi vissuto l’intera vita, aveva accettato e quando il chirurgo gli ha prospettato un intervento, ha detto subito di si per la preoccupazione di tornare presto a casa ad assistere questa sorella più anziana ed apparentemente più acciaccata di salute. L’intervento è stato tardivo ed inutile, tanto che in qualche giorno se n’è andato in pace.

Nell’omelia di commiato, pensando alla sua età e alla nostra – al “don Vecchi” infatti l’età media è di 84 anni – dissi ai presenti, come fanno gli alpini con i loro commilitoni che tornano alla Casa del Padre: «Gino è andato avanti!» per aggiungere subito «noi camminiamo però sulla stessa strada verso la stessa méta!».

Mentre pronunciavo queste parole, pensavo che ora per fortuna abbiamo un gruppo numeroso di “colleghi” pronti a darci il benvenuto quando arriveremo anche noi alla Casa del Padre: sono infatti più di cento i concittadini che dalla dimora del “don Vecchi” hanno traslocato lassù. Allora queste parole della pagina del Vangelo appena letto diventarono una immagine viva e sorridente: “Vado a prepararvi un posto, e quando ve lo avrò preparato, verrò a voi perché siate anche voi dove Io sono!”.

Se la nostra città è riuscita ad offrire una piccola dimora a mezzo migliaio di anziani in difficoltà – alloggio che tutti ci invidiano, e che stanno offrendo serenità ed una vecchiaia tranquilla – quanto più bella e gradevole sarà la dimora che Cristo ci ha preparato perché vi dimoriamo per l’eternità!

L’ultimo trasloco tra il Don Vecchi e la Casa del Padre sarà di certo un passaggio felice, migliore e pieno di piacevoli sorprese, tanto che sarà quanto mai opportuno che fin da subito facciamo la domanda per essere accolti. Per ora disponiamoci ad aspettare pazientemente, senza fretta.

29.09.2013

L’abito senza tasche

Un mio caro amico, che conosce il tedesco e, meglio ancora, la storia, i costumi, la tradizione di quel Paese, un giorno, parlando del rapporto col denaro, mi raccontò di una strana usanza del popolo tedesco. Non ho avuto modo di approfondire se ciò che mi disse fosse “una sentenza” o un detto popolare, o un’autentica usanza. Mi disse infatti: «Lei, don Armando, che ha come ministero principale il commiato ai concittadini che ci lasciano, sa come i tedeschi vestono i loro morti?». Pensai di primo acchito che gli mettessero o meno le scarpe nella bara, oppure avvolgessero la salma in un lenzuolo come assai raramente, ma talvolta, capita anche da noi (un po’ dappertutto c’è qualcosa di stravagante; io, ad esempio conoscevo un mio vecchio parrocchiano molto generoso – infatti mi lasciò in testamento svariati milioni di lire per i poveri – ma un po’ originale, che visse tutta la sua vecchiaia con la cassa da morto, con la quale l’avrebbero sepolto, sotto il suo letto).

Il mio amico, vedendo che non riuscivo a dargli una risposta esatta, mi disse che i tedeschi vestono i loro morti con un vestito privo di tasche. Al che rimasi più curioso di prima e allora lui, come mi raccontasse la cosa più saggia di questo mondo, mi informò che i tedeschi vestono così i loro morti perché essi non portano proprio nulla con sé quando vanno all’altro mondo.

Tante volte mi è venuto in mente questo discorso quando invito i miei concittadini che non hanno dei doveri diretti verso parenti prossimi, a ricordarsi, almeno nel testamento, delle persone che sono in grave disagio economico, specie se anziani, perché loro non hanno più la possibilità di un inserimento lavorativo. Comunque in città c’è sempre qualcuno – e magari fosse soltanto qualcuno – che, per i motivi più diversi, non riesce a sbarcare il lunario, mentre ci sono persone più fortunate, o forse più intraprendenti, che lasciano dei patrimoni grandi o piccoli che poi, alla fin fine, sono motivi di scontro e dissapori tra i pretendenti che in vita non li hanno quasi conosciuti.

In questi ultimi anni, grazie alle mie insistenze, e soprattutto alla testimonianza palpabile dei Centri don Vecchi, la Fondazione ha ricevuto più di un lascito. Però quanta più gente potrebbe ben meritare, di fronte a Dio e ai concittadini, se si ricordasse che vestendo per l’ultimo viaggio vestiti con o senza tasche, non può portare via assolutamente nulla se non la gratitudine del prossimo e i meriti presso Dio.

28.09.2013

L’ultimo giudice di Berlusconi

Non ho nessunissima intenzione di lasciarmi invischiare nei problemi di carattere giudiziario di Berlusconi. Sono convinto che il suo momento politico sia assolutamente finito o che, comunque, anche lo superasse, di “spade di Damocle” che gli pendono sulla testa ve ne sono almeno una mezza dozzina e tra le toghe, a torto o a ragione, ci sono giudici in ogni tribunale d’Italia che sono animati da particolarissima passione per applicargli le sacre leggi patrie.

Mi spiace constatare che altri imprenditori che portano un distintivo di un partito diverso da quello di Berlusconi, altri solamente preoccupati di fare i loro affari, abbiano una vita ben più tranquilla e che certi giudici abbiano meno scrupolo nel verificare i loro libri contabili.

Ricordo che tra le mie avventure sociali sono stato inserito “ad onorem” in un circolo del Rotary Club di Mestre. Tutti sanno che i membri di questo circolo si trovano in un albergo ogni settimana alterna, ascoltano una relazione di qualche esperto su tematiche sociali e cittadine e quindi cenano insieme. In una delle poche volte che vi ho partecipato per il fatto che mi avevano assegnato un contributo per le mie imprese di beneficenza, mi toccò di essere a tavola con il prefetto di una città vicina. Parlando di Berlusconi mi disse: «Io non faccio il tifo di certo per questo imprenditore e politico, però sono convinto che nella storia d’Italia nessun imprenditore ha avuto visite fiscali, denunce e quant’altro come Berlusconi». Questo avvenne 10-15 anni fa, e già allora, mi disse, che queste “visite” e queste denunce si contavano a svariate decine. Credo che negli anni successivi esse siano di certo aumentate a dismisura. Questo zelo particolare per un soggetto specifico non mi ha mai troppo convinto, per cui di certo andrò a votare per alcuni referendum da ridicali.

Non è però di questo che volevo parlare, ma della notizia letta su un “quotidiano indipendente”, ossia che il presidente della corte che da ultimo ha giudicato Berlusconi, gode di uno stipendio di 25.000 euro al mese (dico venticinquemila). Non ci volevo credere, perché non posso immaginare che mentre la gran parte degli italiani percepisce in media stipendi da 1200 1500 euro al mese, un uomo che rappresenta la giustizia accetti per stipendio una cifra così esorbitante. Ma che giustizia è mai questa?

Per favore, amici miei, non mi si dica che altri managers, parlamentari, generali, percepiscono anche di più; questo è ancora meno giusto, però almeno questi ultimi militano sotto le bandiere del partito, del denaro e delle armi – cose tutte sporche -, ma chi pronuncia sentenze sotto la scritta “La legge è uguale per tutti” dovrebbe vergognarsi e non giudicare alcuno, perché prima ha da “togliere la trave dal suo occhio”.

26.09.2013

Ad ognuno il suo

Talvolta mi capita di dover masticare amaro a causa di certe insinuazioni e talvolta pure di qualche giudizio malevolo che mi arriva da parte di alcuni colleghi o di qualche concittadino che ha poca fiducia nei preti. Il colmo l’ha raggiunto un giornalista de “Il Gazzettino” che, circa due anni fa, ha scritto che in città io sono noto come un affermato “palazzinaro”. In altra occasione c’è stato qualche altro che però, con più benevolenza, mi ha chiamato “l’imprenditore di Dio”.

Io so invece di essere solamente un povero diavolo che ha sempre tentato di aiutare il suo prossimo, come credo dovrebbe fare ogni cristiano e soprattutto ogni prete. Mi sono sempre arrabattato per aiutare i poveri. Forse questa sensibilità mi è arrivata dall’esser nato in una famiglia assai modesta, o forse dalle letture che ho fatto: non ho mai nascosto infatti che il mio punto di riferimento ideale, come prete, è stato don Mazzolari, sacerdote che nel nostro tempo credo sia stato uno dei più significativi testimoni in questo settore.

Devo anche dire, per onestà, che i discorsi sulla “carità”, come virtù soprannaturale, li ho sempre ritenuti “aria fritta”. Credo soprattutto alla solidarietà che diventa struttura o servizio, quella che sporca le mani e che si paga di tasca propria; quella che invece vola sopra le nubi la lascio ai mistici o, peggio, agli imbonitori.

Sono pure convinto che uno che vuol fare qualcosa di bene deve porsi un obiettivo ben definito e a quello deve tendere senza lasciarsi sviare da altri obiettivi più apprezzabili ed urgenti.

In questi ultimi vent’anni lo scopo di tutti i miei sforzi è stato il domicilio per gli anziani poveri e in disagio abitativo, ma non vi so dire quante e quali sono state le spinte per allargare il campo e per inserirvi situazioni e tipi di povertà diverse. Le assistenti sociali, i funzionari comunali o le persone dal cuore tenero, ma che non intendono sporcarsi le mani, spesso insistono per inserire nelle strutture che abbiamo pensato per questa categoria di persone, anche altri elementi che hanno fatto esperienze diverse e che sono andate a finire all’asilo notturno o che hanno girovagato da un alloggio all’altro lasciando “buchi” con i proprietari i quali hanno affittato la loro casa.

L’inserimento, spesso “sostanzialmente coatto”, di questi personaggi, è sempre stato un buco in acqua, mettendo a disagio i residenti per i quali abbiamo destinato i nostri attuali 315 alloggi protetti.

Io sono più che mai convinto che la società e la Chiesa debbano in qualche modo farsi carico anche dei senza fissa dimora per “vocazione”, per scelta o per la loro struttura mentale, però per questa gente si deve pensare a strutture che tengano conto di questa loro condizione esistenziale. Se ho ancora qualche anno di vita mi piacerebbe quanto mai tentare un’esperienza di questo genere, per ora però devo limitarmi alla nuova tipologia di alloggi per chi si trova in perdita di autonomia fisica.

26.09.2013

Ho sbagliato e sono contento!

Normalmente, quando uno sbaglia in una sua valutazione, rimane amareggiato, quasi deluso di se stesso. Almeno a me capita così! Però ultimamente, di fronte a certi eventi di ordine politico, ho avuto una reazione opposta; infatti sono stato felice di aver sbagliato.

So di aver affermato, e non una sola volta, che dopo la chiusura per vecchiaia della Democrazia Cristiana, i cattolici che si erano spalmati nei vari partiti di centrodestra e di centrosinistra mi avevano profondamente deluso. Ero convinto che su valori autenticamente cristiani, sia che essi militassero da una parte che dalla opposta sponda, si sarebbero trovati d’accordo ed avrebbero fatto fronte comune indipendentemente dalla disciplina dei relativi partiti. M’era però parso che le cose non andassero così e che invece essi si fossero fatti fagocitare dalla mentalità, dalle scelte ideali degli opposti schieramenti e si fossero ridotti ad essere solamente dei porta acqua della destra o della sinistra.

Le ultime complesse e controverse vicende del nostro Paese mi hanno invece fatto comprendere che i cattolici rosa o azzurri, in realtà sono diventati evangelicamente “lievito” sia da una parte che dall’altra. E se, in qualche modo, l’Italia ha, nonostante tutto, un governo, lo dobbiamo ai cattolici che militano negli opposti schieramenti e che, seppur con fatica, sono riusciti a proporre e forse anche ad imporre uno stile di relativo rispetto, di comprensione e di collaborazione, nonostante gli orientamenti di fondo tanto diversi.

Non mi pare che lo “zoccolo duro” dei rispettivi partiti sia totalmente messo fuori gioco, però sicuramente è stato costretto all’angolo e messo in minoranza. Ho la sensazione che i cattolici in politica, in questi ultimi vent’anni di diaspora della vecchia “casa comune”, siano riusciti a spostare pian piano l’asse ideologico e comportamentale dei due maggiori orientamenti politici. Questo risultato non è proprio poco, anche se c’è ancora tanta strada da fare per arrivare ad una politica di dialogo, di confronto e di una dialettica costruttiva.

Mi pare che all’orizzonte del Paese siano comparsi, con funzioni non marginali, ma anzi di primo piano, alcuni cristiani seri, credibili e capaci, che non hanno nulla da spartire con la vecchia nomenclatura dei rispettivi partiti, quasi sempre faziosa, intransigente e polemica.

A livello politico io, che mi sono sempre considerato un uomo della strada – quindi ben lontano dai politici di professione – ho la sensazione che gli uomini come Monti, Letta, Alfano, Renzi e tanti altri, pur con i loro limiti e le difficoltà del momento, facciano onore alla loro matrice cristiana, siano credibili ed offrano speranza almeno agli italiani non settari. Di questo ringrazio il Signore e la sua Chiesa.

11.10.2013

La ricchezza del prete

Io sono e resterò, tutto sommato, un uomo di chiesa e della mia Chiesa. Anche se a qualcuno forse posso sembrare talvolta critico, severo e perfino duro nei riguardi di certi fatti, di certi personaggi o comportamenti che si incontrano all’interno di essa e che a mio umile parere non sono coniugabili col messaggio evangelico, amo profondamente la mia Chiesa, l’ammiro appassionatamente e sono deciso a spendermi tutto per essa.

I miei profeti, ai quali sono quanto mai legato – don Mazzolari, don Milani, La Pira, Madre Teresa, padre Turoldo e tanti altri – sono per me, anche a questo riguardo, dei fari e dei punti sicuri di riferimento in questo mondo tempestoso in cui tutti noi, fedeli e preti, siamo bombardati da mille messaggi contrastanti.

La mia preoccupazione però rimane sempre quella, che noi sacerdoti corriamo il pericolo di diventare gestori di piccole comunità di credenti mediante la celebrazione, seppur corretta ed attenta, di riti religiosi, mentre per me – ma credo anche per tantissimi altri – il prete deve diventare il custode e il dispensatore di valori autentici, di una lettura positiva della vita che vinca quel nichilismo oggi imperante che svuota l’esistenza dell’uomo di significato e di perché.

In questi giorni, vedendo tanta gente vivere alla giornata, rassegnata, senza sogni e senza ideali, quasi condannata a vivere, mi sono tornate in mente le parole di due preti che sono esattamente in controcorrente e che danno motivazioni forti ai sacerdoti di oggi che talvolta sembrano dei perdenti come il parroco del villaggio di cartone di Olmi.

Il primo è il prete del romanzo di Bernanos “Il curato di campagna” che afferma: «Poco importa che vesta da beccamorto, ma io posseggo la speranza e ve la donerei per niente se voi me la chiedeste!» Quanta ebbrezza provo quando, nella mia povera chiesa prefabbricata, posso dire ai fedeli che stanno accanto alla bara di un loro caro: «Il vostro caro vive, ha già recuperato tutta la sua ricchezza umana e s’incontra col Padre che, abbracciandolo, gli dice “entra e facciamo festa!”». Sono così felice di poter affermare che la vita ha significato, che c’è una méta, che c’è una risposta a tutte le nostre attese! Sarei un perduto ed un disperato se non potessi donare queste certezze.

Il secondo è don Zega, il direttore di Famiglia Cristiana, morto due anni fa, che in occasione del suo cinquantesimo di sacerdozio, disse ai suoi fedeli:«Noi preti oggi abbiamo il grande e splendido compito di parlare alla nostra gente della `tenerezza di Dio’».

Il Signore ci parla attraverso la natura, gli incontri, gli eventi, la Bibbia e ci parla col cuore caldo di padre che capisce, perdona ed ama anche, se come il prodigo arrischiamo di sperperare quel magnifico dono che è la vita.

Oggi ci sono pochi giovani che scelgono di fare il prete, però se incontrassero sacerdoti che vivono in maniera entusiasta e radicale il messaggio evangelico, penso che sarebbero molti di più.

10.10.2013

Le reliquie del domani

Ho terminato di leggere, circa due mesi fa, un volume scritto dal padre scolopio Ernesto Balducci. In questo volume, “L’uomo planetario”, il religioso fiorentino analizza le principali religioni, mettendo l’accento sulla loro evoluzione storica e affermando che più o meno ognuna, sollecitata dallo sviluppo della scienza e della cultura, tende ad adeguarsi alle mutazioni culturali e sociali ove essa vive.

Soprattutto il Balducci sostiene che, a motivo della globalizzazione dei rapporti, che sta facendo del mondo un “villaggio globale”, l’incontro fra le varie religioni, così come avviene per il linguaggio, per i costumi e per il modo di vivere, finisce per creare una osmosi ed un meticciato spirituale che determina tra esse un minimo denominatore comune.

Fin qua mi pare che l’analisi sia razionale e il risultato alla lunga positivo, tale da realizzare praticamente quell’ecumenismo del quale si parla molto e verso cui si tende da almeno un secolo. Però padre Balducci si spinge più oltre, ipotizzando che questo incontro e questa comunione finirà col produrre un risultato quanto mai positivo, ossia tutte le religioni, pur mantenendo le usanze e i propri riti, finiranno per convergere e proporre come risultato di questo incontro esistenziale un’unica morale ed una proposta religiosa comune, tendente a promuovere un mondo solidale.

Questa utopia mi pare alquanto lontana e difficile da raggiungersi, anche se un supporto religioso comune fra tutti i popoli faciliterebbe di certo una convivenza più pacifica e solidale. Questa tesi di fondo come cristiano mi fa sognare e sperare che anche il cristianesimo possa in futuro essere arricchito dai costumi religiosi della negritudine, più pensoso e contemplativo dal mondo indù, più convinto e radicato nella vita e nella società dall’islamismo. Ogni religione ha certamente degli apporti positivi da offrire, come la mia Chiesa, che con convinzione ritengo la più adeguata alle attese e alle esigenze dell’uomo di ogni tempo e di ogni terra, ha molto da offrire agli altri modi di credere e di tradurre la fede in vita.

Da ragazzo fui folgorato dalla tesi del Cronin che nel suo “Le chiavi del Regno” afferma che molte, anche se diverse, sono le strade che portano al Regno. Ora mi pare che Balducci aggiunga che si intravede che è legittimo sognare che questi pellegrini dell’eternità possano condividere la fatica della ricerca e darsi una mano nel tempo del percorso verso la meta comune.

09.10.2013

“Le chiavi del Regno”

Origene, uno dei più grandi scrittori ecclesiastici della Chiesa antica, sosteneva che, pur esistendo l’inferno, nessuno ne sarebbe stato rinchiuso perché gli pareva assurdo che il sacrificio di Gesù, Figlio di Dio, non riuscisse a portare a salvezza ogni uomo, per quanto perduto.

Questa tesi non fu condivisa da tanti teologi e soprattutto da tanti mistici (ci fu infatti perfino una santa che, in base ad una presunta visione, disse che le anime che andavano all’inferno erano tanto numerose quanti i fiocchi di neve che cadono durante una grande nevicata). La tesi di Origene fu ripresa qualche decennio fa da Papini, il famoso poeta fiorentino convertitosi in età matura.

Io che non sono né un teologo né un mistico, ma semplicemente una povera creatura che ama e crede nel Dio fattoci conoscere da Gesù, con grande semplicità e fiducia sono più vicino ad Origene e a Papini che ai predicatori che ho ascoltato nella prima infanzia, preti e frati che sembravano degli specialisti degli altiforni dell’inferno e parlavano, con dovizia di particolari, delle pene infernali.

Ho già detto, adoperando solamente il sentimento e il cuore, che penso che Pannella si guadagni un posto in prima fila in Paradiso per le sue campagne e per le innumerevoli quaresime a favore della legalità, degli aiuti al Terzo mondo, della “giustizia giusta” e, più recentemente, per la questione del sovraffollamento delle carceri e soprattutto per una giustizia che sia veramente impostata per il recupero e per la redenzione dell’uomo e non solo per una detenzione disumana.

In quest’ultimo tempo poi sto pensando che pure il buon Napolitano, cresciuto alla scuola delle Botteghe oscure e che ebbe per compagni di classe Togliatti, Paglietta, Ingrao, Longo e via di seguito, stia conquistandosi “le chiavi del Regno” con scelte decise e coerenti al messaggio evangelico, prima accettando la croce pesante della presidenza della Repubblica nonostante l’età che gli avrebbe dato diritto ad una meritata e serena pensione, poi portando pazienza con dei parlamentari che più litigiosi e arroganti di così non se ne potrebbero trovare, infine invitando il Parlamento a mettersi una mano sul cuore per rendere le sentenze più rapide. Ci sono infatti migliaia e migliaia di cittadini in carcere per mesi prima del processo e tutti gli altri, pur condannati, che vivono in condizioni terribili per sovraffollamento.

Da ragazzo lessi “Le chiavi del Regno” in cui Cronin afferma che per arrivare al Regno ci sono infinite strade. Ora mi viene da pensare che sono sempre più numerosi i concittadini che scelgono strade alternative a quella indicata dalla Chiesa e mi pare che procedano anche con sicurezza e rapidità verso il “Regno”. Vuoi vedere che Origene prima, e Papini poi, avevano ragione!

08.10.2013

San Francesco

Ho sempre ammirato ed amato san Francesco. Mi è caro il poverello di Assisi forse perché lo conosco più degli altri santi, quali san Paolo, san Benedetto, sant’Agostino, san Domenico, san Francesco Saverio, che pur mi sono tanto cari e ritengo i miei grandi maestri e i miei punti più sicuri di riferimento.

Del santo di Assisi ho letto una splendida biografia del Magni, un’opera di solido impianto storico, ma ricca di poesia e di quell’incanto dolcissimo e insuperabile proprio del paesaggio dell’Umbria verde. Ho letto un altro bel volume di Maria Sticco, un libro dalla narrazione più asciutta e puntuale, che fa emergere il fraticello semplice e luminoso ma capace di incantare le anime di ogni tempo e di proporre una rivoluzione di tipo esistenziale tra le più radicali e in linea con il messaggio di Gesù. Ma soprattutto ho letto i fioretti di san Francesco e mi sono deliziato della lettura del Cantico delle Creature: pura poesia, preghiera pura e contemplazione sublime del creato.

Di san Francesco ho pure visto alcuni film, uno più bello dell’altro, ma soprattutto porto nel cuore la soavità di “Fratello sole e sorella luna” che, da quando è uscito una trentina di anni fa, mi ha offerto una splendida cornice ed un’atmosfera armoniosa e gentile da cui emerge la figura sublime del santo, ricco di povertà e di amore per Dio e le sue creature.

Quest’anno ho celebrato la messa di san Francesco a Ca’ Solaro, il piccolo e umile borgo ai confini della nostra città, un borgo fatto di gente semplice e buona. Alle 18 si è aperta la chiesetta linda ed accogliente, l’altare con le tovaglie bianche che odoravano di bucato e i fiori freschi di questo nostro dolce autunno appena colti nell’orto di casa. La gente – vecchi, donne, qualche ragazza – sono entrati a piccoli gruppetti in chiesa per pregare il Signore.

Mentre guardavo questa cara gente prendere posto nei banchi, mi pareva di vedere il povero popolo di “Fratello sole e sorella luna” che saliva dalla larga vallata verde a portare doni per la preghiera nella chiesa di San Damiano appena ricostruita da Francesco e dai suoi compagni.

Al Vangelo parlai al piccolo gruppo di fedeli – una trentina in tutto -ispirandomi al “cantico”, dicendo loro, che ogni fiore per quanto umile, ognuno dei loro animali domestici, i campi col grano maturo, i grandi platani che segnano i bordi della loro strada, il cielo aperto e la terra da cui traggono sostentamento, rappresentano per ciascuno di loro una parola ed una carezza di Dio.

Il Signore forse privilegia e “parla” con più frequenza ed in maniera più convincente a questa umile e cara gente che vive in un piccolo borgo solitario ai margini della città.

06.10.2013

“La governante”

Nota: questo commento è stato scritto ai primi di ottobre. La signorina Rita è mancata poche settimane dopo.

Un paio di giorni fa sono stato al “Nazaret” di Zelarino a far visita alla mia vecchia perpetua. In verità in parrocchia io la presentavo sempre come la mia “governante”, sia perché mi pareva un termine più elegante per indicare la persona che non solo accudiva, ma faceva da anfitrione in casa, sia anche perché Rita (così si chiamava la mia più diretta collaboratrice a livello di canonica), per indole era portata a gestire le cose con un piglio deciso che non permetteva deroghe.

Trovai Rita in carrozzina, nel vasto soggiorno della casa di riposo per non autosufficienti gestita dall’Opera Santa Maria della Carità, in una sala ordinata e pulita ed abitata da sei, sette donne anziane pure in carrozzella, solitaria e misteriosa. Della Rita di un tempo non ho trovato che gli occhi lucidi e luminosi ed un sorriso appena accennato, mentre la voce era talmente flebile che non riuscii ad afferrare neppure una parola.

Questo incontro mesto e rassegnato mi fece tornare in mente quando, più di quarant’anni fa, andai nel suo appartamentino in Riva dell’Osellino che le serviva come casa e come laboratorio da sarta e le chiesi se voleva venire con me nella parrocchia a Carpenedo. Mi avevano appena chiesto di fare il parroco di quella parrocchia. Lei, che era stata presidente della gioventù femminile dell’Azione Cattolica di Santo Stefano a Venezia, mi disse subito di si. Io non possedevo allora neppure un cucchiaio o un bicchiere; caricammo le sue povere masserizie su un furgoncino della San Vincenzo ed aprimmo casa nella canonica grande ma disastrata, tanto che la cucina aveva per tetto un telo di nylon color verde.

Rita aveva appena 50 anni, io 42. E ci buttammo a capofitto in quell’impresa pressoché impossibile, nei tempi perfidi ma esaltanti della contestazione. I compiti che lei doveva svolgere erano pressoché universali: fare le pulizie, fare da segretaria, telefonista, arredatrice, sorvegliante dei ragazzi, organizzatrice dei volontari a servizio in Patronato, al Ritrovo anziani, all’asilo, alla Malga dei Faggi, a Villa Flangini e qualsiasi altra impresa pastorale. Ci fu persino un tempo in cui funzionò anche da tecnico a Radiocarpini.

Io, onestamente, non mi sono mai risparmiato, ma neppure a Rita ho risparmiato qualcosa. Per dare un compenso per questa molteplicità di servizi ho sempre delegato il buon Dio. Non so che cosa Egli le abbia dato o le darà, ma io di certo nulla, se non pretese. Alla fine della mia carriera parrocchiale le ho offerto al “don Vecchi”, a pagamento, un appartamentino di 30 metri quadri.

Rita, avvertendo che non avevo più bisogno di lei, compiuti gli ottant’anni e fino ai novanta, si è impegnata ad aiutare don Paolo presso la parrocchia di San Nicolò dei Mendicoli a Venezia. Ora era lì, un mucchietto di ossa, a ricordarmi tanti anni intensi ed agitati, vissuti per servire la Chiesa ed un parroco esigente, ad attendere ora l’incontro con quel Signore che di certo le darà il saldo per un servizio svolto con estrema generosità.

Mi congedai con una carezza leggera sui capelli; non le diedi neppure un bacio perché tra noi c’è sempre stato tanto pudore da non permetterci neppure il più delicato segno di affetto. Un tempo penso fosse così per tutti i vecchi parroci e le loro perpetue.

04.10.2013