Talvolta mi capita di dover masticare amaro a causa di certe insinuazioni e talvolta pure di qualche giudizio malevolo che mi arriva da parte di alcuni colleghi o di qualche concittadino che ha poca fiducia nei preti. Il colmo l’ha raggiunto un giornalista de “Il Gazzettino” che, circa due anni fa, ha scritto che in città io sono noto come un affermato “palazzinaro”. In altra occasione c’è stato qualche altro che però, con più benevolenza, mi ha chiamato “l’imprenditore di Dio”.
Io so invece di essere solamente un povero diavolo che ha sempre tentato di aiutare il suo prossimo, come credo dovrebbe fare ogni cristiano e soprattutto ogni prete. Mi sono sempre arrabattato per aiutare i poveri. Forse questa sensibilità mi è arrivata dall’esser nato in una famiglia assai modesta, o forse dalle letture che ho fatto: non ho mai nascosto infatti che il mio punto di riferimento ideale, come prete, è stato don Mazzolari, sacerdote che nel nostro tempo credo sia stato uno dei più significativi testimoni in questo settore.
Devo anche dire, per onestà, che i discorsi sulla “carità”, come virtù soprannaturale, li ho sempre ritenuti “aria fritta”. Credo soprattutto alla solidarietà che diventa struttura o servizio, quella che sporca le mani e che si paga di tasca propria; quella che invece vola sopra le nubi la lascio ai mistici o, peggio, agli imbonitori.
Sono pure convinto che uno che vuol fare qualcosa di bene deve porsi un obiettivo ben definito e a quello deve tendere senza lasciarsi sviare da altri obiettivi più apprezzabili ed urgenti.
In questi ultimi vent’anni lo scopo di tutti i miei sforzi è stato il domicilio per gli anziani poveri e in disagio abitativo, ma non vi so dire quante e quali sono state le spinte per allargare il campo e per inserirvi situazioni e tipi di povertà diverse. Le assistenti sociali, i funzionari comunali o le persone dal cuore tenero, ma che non intendono sporcarsi le mani, spesso insistono per inserire nelle strutture che abbiamo pensato per questa categoria di persone, anche altri elementi che hanno fatto esperienze diverse e che sono andate a finire all’asilo notturno o che hanno girovagato da un alloggio all’altro lasciando “buchi” con i proprietari i quali hanno affittato la loro casa.
L’inserimento, spesso “sostanzialmente coatto”, di questi personaggi, è sempre stato un buco in acqua, mettendo a disagio i residenti per i quali abbiamo destinato i nostri attuali 315 alloggi protetti.
Io sono più che mai convinto che la società e la Chiesa debbano in qualche modo farsi carico anche dei senza fissa dimora per “vocazione”, per scelta o per la loro struttura mentale, però per questa gente si deve pensare a strutture che tengano conto di questa loro condizione esistenziale. Se ho ancora qualche anno di vita mi piacerebbe quanto mai tentare un’esperienza di questo genere, per ora però devo limitarmi alla nuova tipologia di alloggi per chi si trova in perdita di autonomia fisica.
26.09.2013