Il fine e i mezzi

Sono d’accordissimo che i cristiani lodino Dio per tutto quello che ci ha dato e quello che ci ha promesso. Quante volte non sogno e non desidero che impariamo a contemplare il creato e le creature con gli occhi stupiti e incantati di Francesco d’Assisi, per sentire che tutto quello che ci circonda e che è semplicemente stupendo e meraviglioso è un segno dell’amore e della benevolenza di Dio nei nostri riguardi e per questi doni Gli rendiamo grazie e cantiamo la Sua lode.

Sono pure convinto che è opportuno, anzi necessario, che i fedeli, nel chiuso della loro coscienza e delle loro case, ma soprattutto assieme alle loro comunità, si fermino di frequente a riflettere sul messaggio di Dio, sulla Sua misericordia e sulla Sua tenerezza. La liturgia che ne è l’occasione principe, è, e sarà sempre, una componente insostituibile di questo rapporto d’amore, di fiducia e di riconoscenza. Però, affermato questo con profonda convinzione mi sembra di dover affermare, con altrettanta convinzione, che queste occasioni, che normalmente sono definite con la parola “riti” non devono mai essere fini a se stesse, ma devono essere tese a costruire “l’uomo nuovo”, quello che vive a livello esistenziale queste grandi e meravigliose realtà.

Io ho la fortuna e soprattutto la grazia di celebrare ogni domenica “i divini misteri” in una chiesa gremita di fedeli partecipi dei sacri segni, che mi pare accolgano il dono della parola del Signore a cuore aperto, con gioia e disponibilità.

Ogni domenica però, quando vedo uscire questa folla di uomini e donne per immergersi di nuovo nel quotidiano, sogno che esca dalla mia povera chiesa una folata di primavera, di speranza, di ottimismo, di bontà e di generosità. La bibbia afferma: “Come son belli i piedi dei messaggeri di liete notizie”. La fede, la preghiera e il dialogo con Dio, di natura loro devono promuovere questa rinascita interiore, questi uomini e donne nuove; guai se il rito diventa fine a se stesso e il credente si sentisse a posto dopo aver “pagato la tassa al Signore”! Il dialogo, e soprattutto la comunione con Dio, deve promuovere per sua natura letizia, speranza, ottimismo, bontà, simpatia, disponibilità, bellezza, coraggio e solidarietà.

Se non fosse così di certo ci sarebbe un inceppo spirituale o un travisamento per cui messe, rosari e prediche relative diventerebbero un perditempo inutile, un equivoco a livello religioso, perché il mezzo diventerebbe fine e ciò sarebbe veramente desolante.

Negli Atti degli Apostoli i pagani riconoscevano i cristiani non perché si facevano il segno della la croce o celebravano i sacri riti particolari, ma come “coloro che si amano”. Spero che tutti i cristiani escano finalmente dalla convinzione che i riti siano fine a se stessi e che Dio li gradisca solamente come tali.

15.11.2013

Al “Ritrovo”

La signora Laura Novello, a nome dell’Associazione Anziani di Carpenedo, mi ha chiesto di celebrare una Santa Messa al “Ritrovo” il circolo di anziani di Carpenedo. Ho aderito volentieri anche perché alcune delle attuali responsabili del gruppo che gestisce questa struttura parrocchiale, più di trent’anni fa mi furono meravigliose collaboratrici nel dar vita a questa bellissima e riuscita esperienza pastorale.

Erano quasi dieci anni che non entravo più nella sede del gruppo di via del Rigo 14, ossia da quando avevo lasciato la parrocchia per la pensione e onestamente avevo un po’ di preoccupazione nel tornare in quel luogo dopo tanto tempo. Non sempre i miei successori mi hanno assomigliato o hanno condiviso lo stile che, quasi in maniera maniacale, ho sempre perseguito nelle strutture alle quali ho dato vita. Per me la pulizia, il buon gusto, l’ordine, la signorilità, sono il presupposto di fondo per una qualsiasi proposta pastorale, sociale, culturale e spirituale. Sono sempre stato convinto che non col cattivo gusto, la volgarità e la sciatteria sia semplicemente illusorio poter fare una proposta sociale seria e positiva.

Per mia fortuna non sono stato deluso: l’esterno era perfino migliorato, mentre all’interno tutto sommato è rimasta l’impronta originale, fatta la piccola eccezione d’aver lasciato i tavoli nella sala della riunione, cosa perdonabile perché sono sempre stati pesanti per poterli rimuovere facilmente. Il “patronato degli anziani” è la risultante del recupero di due appartamenti: un ingresso, un ripostiglio, un salottino per la direzione, due bagni, il cucinotto e la sala degli incontri, capace di ottanta, cento posti a sedere. Sullo sfondo due grandi tele, una di Vittorio Felisati con la piazza e la chiesa di Carpenedo, l’altra di Amedeo Tortani rappresentante la villa di Asolo che per tanti anni ha ospitato le vacanze degli anziani.

Le mie “vecchie” meravigliose dirigenti (vecchie solamente per il tempo di impegno e di servizio, perché per entusiasmo, aspetto e grinta sono rimaste poco più che ventenni) hanno avuto la brillante e cara idea di elencare la serie ormai quanto mai numerosa di collaboratori che “sono andati avanti” e che ci aspettano lassù e quella di quel popolo sconfinato di anziani della parrocchia e della città che al “Ritrovo” hanno trovato amicizia, cultura, attività fisica, ricreazione, turismo, spiritualità e gioco.

Mentre a turno Angela, Laura, Ada e Alice leggevano i nomi di questi amatissimi amici, alla mia memoria si sono affacciate, sovrapponendosi l’una all’altra le immagini di un’infinità di volti, i ricordi di viaggi, conferenze, tombole, concerti di ogni tipo, pranzi, feste e vacanze nella villa asolana che fu, per almeno vent’anni, il prolungamento de “Il Ritrovo”.

Nell’omelia ho parlato con foga e convinzione della bellezza, della ricchezza, delle potenzialità e del valore sociale e religioso della terza e quarta età, nella speranza di motivare ulteriormente il gruppetto che ora porta avanti questa struttura e soprattutto questo servizio. Per me quella degli anziani è stata una splendida avventura pastorale. Vista poi dall’alto e dal dopo, mi è parsa perfino straordinaria. Spero che Laura, Angela e Ada accettino la mia proposta di raccogliere in un volumetto questi ricordi e soprattutto i volti, le testimonianze e i contributi dei moltissimi personaggi che dettero vita a questa singolare e forse unica “impresa” cittadina nel settore del mondo degli anziani.

14.11.2013

Quelli del no

Ritorno ancora una volta su un argomento sul quale già ho riflettuto ad alta voce in passato. Lo faccio perché anch’io sono membro di questa città e da sempre sono convinto che non si può stare alla finestra, ma è doveroso dare il proprio contributo, seppur umile, alla vita della nostra città.

L’occasione di questo intervento me l’offre l’incontro dell’altro ieri a Roma ove ministro, presidente della Regione e sindaco di Venezia hanno preso delle decisioni sull’ingresso in laguna delle grandi navi. Non ho ben capito quale sia il risultato. Zaia e Orsoni sono ritornati soddisfatti, mentre le migliaia di lavoratori, piccoli commercianti e cittadini che vivono della ricchezza portata a Venezia da queste città galleggianti cariche di gente che spende, lo sono un po’ meno, anzi sono delusi e in rivolta.

So, da quanto ha pubblicato Il Gazzettino una settimana fa, che le entrate economiche di Orsoni sono quanto mai ingenti, ma penso che pure Zaia possa vivere tranquillamente anche senza gli euro che arrivano dalle grandi navi.

Qualche giorno fa un certo giornalista del Gazzettino ha pubblicato un articolo dal titolo “Quelli del NO” ed ha enumerato la serie di rifiuti che tutti conosciamo perfino troppo bene. Alla serie molto lunga e dibattuta in questi giorni si è aggiunto il NO alle navi e l’altro NO al “Gardaland” nell’isola abbandonata alla sterpaglia e popolata dalle pantegane. Sembra che la politica cittadina sia condizionata più dai ragazzi dei centri sociali e dalle dame che discutono le sorti della città mentre prendono il tè nei salotti buoni, che dalle esigenze della povera gente e dai bisogni di restauro dei palazzi, delle chiese e delle case che cadono a pezzi (vedi l’ultima denuncia delle vetrate del Vivarini di San Giovanni e Paolo).

Io ritengo che non possiamo soltanto continuare a mendicare dallo Stato, il quale sta spendendo fin troppo, ora per il Mose e prima per la legge speciale, ma bisogna pure darci da fare perché Venezia ridiventi veramente “la perla della Laguna”.

Andando a Lourdes sono passato per la cittadina medioevale di Carcassonne e sono stato quanto mai ammirato da come abbiano restaurato e conservato quel borgo che si offre in tutta la sua bellezza e in tutta la sua originalità ai visitatori di mezzo mondo. Credo che siamo ancora in tempo per salvare Venezia. C’è bisogno di bonificare i rii, i palazzi e le case malsane e gestire con oculatezza, con i piedi per terra, con sano realismo tutte le potenzialità che vi sono ancora, cogliendo con saggezza le opportunità quanto mai numerose e provvidenziali che sono state offerte in questi ultimi trent’anni e che invece sono state sprecate per arroganza e per dilettantismo politico, bisogna uscire dall’immobilismo che paralizza e sta strangolando la città. Sta “partendo l’ultimo treno”. Salviamo Venezia ora o mai più!

“Dio lo vuole?”

Altre volte ho confessato che dopo aver recitato il rosario alle 20,30 con i miei vecchi sono un uomo “morto”. Non riuscendo a far niente di serio, mi siedo davanti alla televisione e dopo un minuto sono già addormentato, mentre il televisore, qualsiasi cosa trasmetta, mi canta la ninna nanna, a meno che un dibattito politico o un argomento che tocchi i nervi ancora nudi del mio spirito o della mia sensibilità non mi tenga desto. I discorsi che vertono sulla vita della Chiesa poi sono quelli che comprensibilmente mi interessano di più; non per nulla ho investito tutto il mio patrimonio vitale su questi valori.

Da un paio di settimane ho scoperto, sempre per caso perché non seguo mai i programmi pubblicati dai vari giornali, una serie di trasmissioni sulle crociate. La solita “Rai storia” ha in programma una decina di trasmissioni su questo argomento. Fin dalla prima puntata ho avuto l’impressione che si tratti di una trasmissione seria, documentata, per niente polemica, anzi obiettiva, almeno così mi è parso. Una voce legge un testo e sul video appaiono spezzoni di film che hanno trattato l’argomento, immagini di testi del tempo, oppure riprese di monumenti che, più o meno, si rifanno all’epoca delle crociate.

Qualche settimana fa definii “la Sacra Inquisizione” in generale, ed in particolare quella spagnola, come una macchia di pece sul “vestito bello” della Chiesa. Le crociate credo che siano ben più di una macchia, ma una cascata di “nero fumo” che oscurò per due o tre secoli l’immagine evangelica del “Popolo di Dio”.

Mentre la voce narrava, in maniera documentata, le vicende di questo tragico evento che sporcò in maniera quasi irreparabile il volto, il cuore e il pensiero della comunità cristiana, avevo la sensazione di trovarmi dentro a questo strumento medioevale di tortura chiamato “la vergine di Norimberga”, mediante il quale il condannato veniva chiuso dentro una sagoma irta all’interno di pungiglioni che trafiggevano il corpo trapassandolo da parte a parte. Sentire delle stragi operate dai crociati, che passavano a fil di spada i musulmani convinti di lodare il Signore con quelle atrocità, o sentire Goffredo di Buglione che percorse i paesi dell'”Europa cristiana” gridando e incitando la gente a partire per “liberare il santo sepolcro” al grido di “Dio lo vuole”, mi ha fatto provare la sensazione che le spade affilate trapassassero anche la mia coscienza. Ma la sofferenza è ancora maggiore pensando che anche oggi tanti credenti, sugli argomenti più disparati, affermano con ingiustificata sicurezza “Dio lo vuole!”, quando probabilmente certi discorsi non passano neppure per l’anticamera del volere del Signore!

9.11.2013

La differenza

Nei mesi successivi all’ultima guerra mondiale è uscito un volume: “Le ultime lettere da Stalingrado”. La lettura di quella raccolta di lettere di soldati tedeschi accerchiati dai russi a Stalingrado, mi ha spinto a rifiutare in maniera radicale ed assoluta tutta una certa retorica sull’amor di Patria, sulla necessità degli armamenti per la difesa della nazione e su tutto quello che direttamente o indirettamente riguarda l’esercito e le forze armate, reputandole tutte spese inutili, anzi dannose. Io ho ammirato in maniera entusiasta il Lussemburgo che una quindicina di anni fa ha venduto al ferrovecchio carri armati, fucili e cannoni, ha mandato a casa i soldati, conservando solamente un corpo di polizia per l’ordine pubblico.

Tornando alle lettere da Stalingrado, i responsabili della propaganda del Reich avevano fatto sequestrare le lettere che i soldati tedeschi avevano spedito con l’ultimo aereo partito dalla città assediata dalle armate russe, volendo così dimostrare il valore, il coraggio, l’amor di Patria dei soldati della Vermacht. Però, aperte le lettere, esse si dimostrarono di ben altro tono: disperazione, paura, smarrimento, fame, freddo! Ne ricordo una di un soldato che da civile aveva fatto l’attore e in palcoscenico aveva interpretato la morte eroica del soldato del Fuhrer suscitando applausi e battimani a non finire. “Qui, scriveva, questo soldato muore nel fango, nell’abiezione più meschina, ci rubiamo l’un l’altro un tozzo di pane. L’altro giorno ho visto un commilitone rimasto incastrato in un carro armato in fiamme, colpito da un proiettile russo: bruciava come una torcia e gridava disperato chiedendo sua madre! Altro è la morte nella scena, altro la morte in questo inferno!”

Qualche giorno fa, per una strana associazione di idee, ho pensato a questi eventi incontrando un giovane ventenne disabile. «Mia madre vedova lavora presso una signora del “don Vecchi” e prende 600 euro al mese, mentre ne vogliono 500 di affitto. Io non riesco a trovare nulla. Un’associazione mi ha proposto un impiego ad un euro e mezzo l’ora»

Altro è parlare dei poveri, fare studi, organizzare l’assistenza da parte di funzionari con paga sicura, altro sono i poveri veri! Io purtroppo, o per fortuna, presso le associazioni di volontariato del “don Vecchi” incontro i poveri reali e vi dico che sono una disperazione, un dramma tragico. Qualcuno ogni tanto mi fa capire che sono “troppo forte”, che adopero “parole dure”, che nei miei interventi accuso in maniera tagliente. Credetemi amici: altro è parlare dei poveri, altro è incontrarli in carne e ossa. Vi vorrei elencare una litania di drammi a cui non so dare risposta alcuna. Allora l’apparato burocratico, le beghe e i discorsi politici e perfino l’apparato ecclesiale mi destano rabbia, ribellione, rifiuto.

Oggi c’è troppa gente senza voce, che è piegata dalla miseria, mentre altra gente sguazza nello sperpero nascondendosi dietro un perbenismo ed una retorica assurda ed omicida.

La richiesta di don Enrico

C’è un antico detto espresso dalla saggezza della cultura di Roma antica, “Le parole volano, mentre gli esempi trascinano”. Io sento un bisogno estremo di esempi e di testimonianze, anche se apparentemente sembrano modeste. Quando riesco a cogliere qualcuna di queste scelte coerenti ad affermazioni e spesso discorsi altisonanti, non solo sono felice, ma veramente mi sento bene.

Credo di aver affermato più volte, in queste mie riflessioni pubbliche, che mi aspetto dai sacerdoti un minimo di coerenza. Forse sarà populismo da prete, ma confesso che i preti che cambiano automobile di frequente, o scelgono macchine potenti e costose, oppure sentono il bisogno di andare in vacanza in capo al mondo, o che si preoccupano di assicurarsi la villetta o un appartamento spazioso per la loro vecchiaia, potranno avere l’eloquenza di Bossuet o Lacordaire, però i loro discorsi non mi turbano affatto, per me sono acqua fresca, anzi finiscono per irritarmi.

Nel contempo confesso pure che quando scopro nei miei colleghi passione per le anime, dedizione, amore per i poveri o ricerca di una pastorale che risponda alle esigenze degli uomini del nostro tempo, questi preti mi edificano e mi mettono positivamente in crisi.

Qualche giorno fa mi raggiunse una telefonata di don Enrico Torta, l’attuale parroco di Dese, quel prete che recentemente si schierò pubblicamente con i poveri, dicendosi disposto a guidare la rivoluzione dei derelitti per ottenere il necessario per vivere e che fece scalpore sulla stampa cittadina per un paio di giorni.

Don Enrico, con quella sua voce calda e serafica, mi disse al telefono: «Don Armando, mi daresti una cameretta al don Vecchi? A fine anno compio 75 anni, quindi dovrei andare in pensione, ma ho promesso al Patriarca di rimanere in parrocchia fino al giugno del 2014. Ti chiedo fin d’ora se posso contare su un minialloggio nel Centro don Vecchi di Campalto».

La richiesta di questo buon prete, mite e intelligente, ha toccato il mio animo come se avessi ricevuto una telefonata da Papa Francesco o, meglio ancora, se avessi incontrato Gesù risorto in persona!

Già venti anni fa avevo messo a disposizione, con dichiarazione formale al patriarca Luciani, sei appartamentini studiati ad hoc per preti anziani, però se fosse stato per le richieste dei preti veneziani, essi sarebbero sfitti da vent’anni. La scelta di condividere la vita dei poveri a chiacchiere è condivisa da tutti, però con i fatti moltissimi. preferiscono quella borghese. Comunque finché si riesce ad incontrare sulla nostra strada preti come don Torta, che sceglie così per la sua sistemazione da pensionato, si può continuare a sperare che la Chiesa veneziana avrà futuro.

07.11.2013

Naufraghi

La vigilia della festa di “tutti i santi” ho incontrato sul piazzale del cimitero una mamma con quattro bambini piccoli: uno in carrozzella, due gemelli di quattro anni ed uno di cinque. Dei bambini bellissimi (e quando mai non sono belli i bambini!?), ben curati, puliti, con dei vestitini che li rendevano ancora più cari e simpatici. Questa signora, una rumena che vive a Mestre da otto anni e che parla benissimo l’italiano, mi chiese se la potevo aiutare a trovare una casa. Era terminato il contratto di locazione e perciò è dovuta uscire di casa, una conterranea la stava ospitando da qualche giorno, ma lei stessa capiva che la situazione era assolutamente precaria ed improrogabile.

Una suora a cui era ricorsa le aveva detto di rivolgersi a me, pensando forse che tra i quattrocento alloggi per anziani poveri potessi offrirne uno anche a questa famigliola. Le suore sono care creature, ma camminano spesso sulle nuvole e soprattutto sono molto sollecite ad avviare agli altri le persone che sono in difficoltà, piuttosto che pensare a quello che le loro comunità possono e dovrebbero fare per il prossimo. Al “don Vecchi” tutti gli alloggi sono occupati e c’è una fila di richiedenti che piuttosto che accorciarsi continua ad allungarsi di giorno in giorno.

Tornando alla signora, mi disse che le varie agenzie quando sentono dei quattro figli, neanche aprono il discorso. Forte di un’esperienza simile a questa, cioè di una famigliola pure con bambini, che l’inverno scorso aveva occupato abusivamente una casa cantoniera dismessa dalle Ferrovie, avevo scritto un appello su “L’Incontro” e una signora di Venezia mi ha messo a disposizione gratuitamente una casa appena restaurata in quel di Musile di Piave.

Vista l’urgenza e sapendo che una moltitudine di “cristiani” sarebbe venuta in cimitero per i “santi e i morti”, ho scritto un appello sulla bacheca davanti alla chiesa. Risultato: un signore, noto per la sua generosità, s’è offerto per dare un contributo, ma nulla più. Ho pensato: la predica del Patriarca, le mie sofferte omelie, il messaggio che ci viene dai santi, dai morti, dalle tombe, dal cimitero, da quant’altro, a che cosa sono serviti?

Torno ancora una volta su un discorso che dura da duemila anni e che san Giacomo ha formulato in maniera così lapidaria: “La fede senza le opere è sterile!” Andare a Messa, ricordare i morti, pregare il buon Dio, se non conducono a farsi carico in qualche modo di quattro bimbi innocenti e di due poveri genitori in difficoltà, a che possono servire?

Amici miei, è inutile che piangiamo tanto sui tempi tristi e sulle malefatte dei politici, se ognuno di noi non si mette una mano sul cuore e tenta di fare la sua parte!

04.11.2013

Fede e religione

E’ ormai da molto tempo che vado riflettendo su un argomento che pian piano mi fa intravedere un varco nel grigiore di una nebbia molto spessa in cui tante volte mi trovo avviluppato e in cui sto procedendo con dubbi e molte perplessità ed incertezze. Mi pare che per la stragrande maggioranza dei cristiani del nostro tempo si ritenga che fede e religione siano quasi due sinonimi per esprimere la stessa realtà, mentre questi due termini hanno dei contenuti estremamente diversi, anche se mantengono tra di loro un legame esistenziale.

La fede è fiducia assoluta ed illimitata in un Dio a cui dobbiamo tutto: la vita, il creato, l’oggi e il domani. Per noi cristiani poi questa realtà sublime ed indefinibile è rappresentata dal concetto di Paternità, per cui Dio non è una verità fredda, lontana ed assoluta, ma ha il calore e l’amore di Padre che ha voluto renderci partecipi della sua infinita ricchezza.

François Mauriac, il celebre pensatore e letterato francese, ha affermato infatti che se Gesù, venendo a questo mondo, non ci avesse annunciato altro che “Dio è nostro Padre” e che possiamo rivolgerci a Lui con questo nome, la sua venuta sarebbe più che mai giustificata per questa sola straordinaria notizia. La fede è veramente la pietra preziosa che dobbiamo custodire e difendere ad ogni costo, perché essa sola dà significato alla nostra vita.

Mentre la religione è tutto quell’apparato di pensiero, di riti, di usanze e di tradizioni che hanno come fine di alimentare, custodire e aiutare l’uomo a tradurre in scelte di vita la luce che riceve dalla fede.

Allora, se le cose stanno così, la fede è un assoluto, mentre la religione è condizionata dal tempo, dalla cultura, dall’evoluzione del pensiero umano, dalla stessa scienza e dalla tecnica. Perciò la religione non solo è soggetta alle singole culture dei popoli diversi, dall’evoluzione, dall’emancipazione dell’uomo, dai condizionamenti di mentalità e costumi che si vanno evolvendo; anzi la religione deve essere, per sua natura, una realtà che deve evolversi, adattarsi ai tempi nuovi e trovare modo di esercitare il suo compito in relazione al progresso umano.

Quindi la religione ha un compito sublime, ma nello stesso tempo corre il grosso pericolo di diventare una incrostazione del passato, o di ingessare la fede soffocandola in una morsa mortale. Se mi è lecito fare una osservazione, credo che abbiamo bisogno di una religione sempre più duttile, sempre in una evoluzione più rapida perché la maturazione del pensiero umano è più veloce che nel passato.

Sto leggendo un bel volume di Enzo Bianchi, il fondatore della comunità monastica di Bose, che afferma che la Chiesa “deve sempre convertirsi (cambiare) e sempre riformarsi”. A ben pensare i rapporti di Gesù con la religione sono molto particolari: mentre possiamo affermare senza dubbi che Gesù fu un uomo di fede, non possiamo dire con altrettanta certezza che fu “un uomo di Chiesa”. Si avvalse della religione, ma non ne fu schiavo. Credo che questo sia un problema su cui è bene riflettere.

03.11.2013

Lo zio Tom

Qualche giorno fa mi è capitato per caso di imbattermi in un film molto datato sulla vicenda del famosissimo romanzo “La capanna dello zio Tom”. Ripeto che la pellicola era molto vecchia e soprattutto lontana dai nostri film rapidi, disinibiti, per nulla convenzionali e soprattutto quasi mai positivi. La trama era elementare e sempre scontata.

Ho visto il film fino alla fine, anche se ogni episodio mi risultava prevedibile, però sono stato risucchiato dalle emozioni provate quando, ancora adolescente, lessi questo celeberrimo romanzo che aveva come protagonista il vecchio zio negro, saggio, giusto e fiducioso nel Signore, che teneva desta la speranza dei negri condotti in America dagli schiavisti per lavorare nelle piantagioni di cotone delle contee degli stati del sud. Zio Tom non conobbe la dottrina di Gandhi sulla “forza della non violenza”, ma ne fu di certo l’antesignano che seminò nella coscienza dei suoi fratelli in schiavitù la speranza nell’aiuto del Signore e nella liberazione.

Mentre scorrevano sul piccolo schermo gli episodi, “innocenti” da un punto di vista cinematografico, il mio pensiero si è collegato all’impegno ancor non violento del pastore protestante Martin Luther King che, proseguendo la lotta non violenta dello zio Tom, liberò finalmente, almeno da un punto di vista legislativo e formale, i cittadini di colore degli Stati Uniti d’America. Pure Luther King fu assassinato dai concittadini che presumevano di appartenere ad una razza più evoluta, però la bandiera dell’emancipazione è stata recentemente raccolta dal giovane presidente Obama che proprio in questi giorni ha combattuto e vinto, all’ultimo momento, la protervia dei repubblicani che ancora una volta hanno tentato di sfruttare i più poveri e i più deboli tentando di privarli dell’assistenza medica.

Mentre seguivo questo filo sottile che legava il lontano passato con le conquiste attuali dei negri d’America, ho compreso che non possiamo valutare il risultato dei nostri tentativi nell’angusto spazio dell’immediato, ma che dobbiamo “seminare nel pianto” perché altri, in tempi anche molto lontani, possano in futuro “raccogliere nella gioia”.

Non ho per niente rimpianto di aver impegnato una serata per vedere una pellicola così scontata ed “innocente”, perché la presa di coscienza che la semente sepolta su quella terra grigia ed inerte prima o poi fiorirà per il bene delle future generazioni mi ha fatto molto bene.

Noi raccogliamo i frutti che sono stati bagnati dalle lacrime e dal sudore dei nostri padri, così è giusto e doveroso che noi seminiamo, pur nel sacrificio, perché i nostri figli o nipoti, o pronipoti, raccolgano il frutto del nostro impegno.

01.11.2013

I poliziotti e l’amnistia

Il dirigente della questura di Mestre è un mio caro amico che non perde occasione per dimostrarmi affetto e fiducia. Io ricambio interamente questi sentimenti perché mi sono sempre piaciuti gli uomini franchi, candidi, senza fronzoli diplomatici e dai rapporti caldi ed immediati.

Questo “questore” – penso sia questo il titolo che gli si addice – una settimana fa mi ha invitato in questura per una piccola cerimonia di cui io, di primo acchito, non ho capito la portata.

I suoi poliziotti avevano scoperto uno zingaro che aveva rubato, lo avevano arrestato e recuperata la refurtiva. Tra le cose rubate c’era un po’ di tutto: motociclette, arnesi per scasso, portagioielli, filo di rame e tante altre cose. La polizia aveva restituito ai proprietari quanto era loro ed il resto, di cui non era stato possibile trovare il padrone, il nostro poliziotto invece di farlo rottamare come al solito, con una complicatissina procedura aveva ottenuto dalla magistratura di poterlo donare ad un ente benefico. Per il dottor Vomiero evidentemente io rappresento la beneficenza e perciò l’ha destinata ad una delle associazioni Onlus del “don Vecchi”.

A raccontarla la cosa sembra semplice e perfino banale, però chi conosce anche superficialmente “la giustizia”, sa che le procedure sono infinite e superburocraticizzate. Per il questore si trattava di una vicenda quasi storica e in occasione dell’arrivo del verbale di consegna del materiale, organizzò una piccola cerimonia. Fece intervenire una ventina di poliziotti che si trovavano in caserma, fece un discorsetto, stappò una bottiglia di vino e tolse il tappo ad una di aranciata, aggiungendo un pacchetto di biscotti.

In quell’occasione chiesi che cosa ne pensavano del discorso che si stava facendo in quei giorni sull’amnistia. Mi parvero estremamente scettici, infatti uno si lasciò scappare: «Fra un anno li dovremo metter dentro di nuovo!». Capii allora più di sempre che il problema delle carceri non si risolve assolutamente mandando fuori trenta, quarantamila detenuti: senza lavoro, senza prospettive di alcun genere. Capii la fatica che quei ragazzoni avevano fatto per assicurare alla giustizia tanta gente con una prospettiva di dover cominciare da capo perché la detenzione aveva di certo affinato la loro capacità di delinquere.

L’Italia continua a metter toppe nuove su un vestito vecchio in brandelli. Ci vuol ben di diverso per affrontare questo problema! Giudici diversamente preparati e responsabili, codici moderni, pene diversificate, personale di custodia preparato, carceri civili, lavoro per tutti, direttori di carceri intelligenti, processi più snelli e veloci, fiducia nel recupero e nella redenzione di chi ha sbagliato, rifiuto di pene solamente afflittive.

Napolitano fa bene a pungolare, però dovrebbe nel contempo esigere una riforma vera e seria, non una soluzione spiccia per alleggerire gli istituti carcerari spesso più vicini al medioevo che al mondo contemporaneo.

E’ tempo di abbandonare i rattoppi, che non risolvono nulla, anzi spesso peggiorano l’esistente per puntare ad un intervento radicale.

22.10.2013

“La vera religione è questa”

Ogni tanto me ne va qualcuna di dritta, ma non troppo di frequente. Come prete ho un sacco di difetti: criticone, mai contento, diffidente con la gerarchia, poco spiritualista ed altro ancora. Però mi riconosco almeno due o tre pregi. Ho sempre lavorato tanto, non ho mai fatto una predica senza prepararmi e soprattutto ho tentato di essere libero ed onesto con me stesso e con gli altri pagando per questo “il conto” senza ribattere.

Domenica scorsa penso che il mio sermone sulla preghiera abbia “fatto centro” e che mi sia andata dritta, ossia spero di essere riuscito a passare l’idea che pregare non consiste in una litania sbrodolosa di avemarie, o in un salmodiare soporifero con parole e concetti senza impatto sul cuore e sulla testa. Mi pare di essere riuscito a passare la convinzione che pregare è qualcosa di inebriante che sa di amore e di primavera nell’immergersi in Dio (amore – felicità – sapienza – tenerezza – infinito) e riuscire perciò a cogliere nella vita quotidiana, negli eventi, nei volti delle persone e nella natura, gli infiniti messaggi e le attenzioni amorose di Dio.

Credo che uno dei difetti più diffusi e perniciosi della religiosità contemporanea sia quello di affidarsi acriticamente alla prassi trasmessaci dalla tradizione e non tentare di reinventare metodiche nuove di spiritualità. Sono convinto che il cristiano di oggi debba mutar pelle, debba cercare di far emergere dal bruco stanco e che striscia per terra, la farfalla leggera e bella.

La religione di oggi non deve essere condizionata dalle formule, dai luoghi comuni e dalla prassi consolidata, ma deve essere ricerca appassionata del vero, del bello, del giusto e del buono. Per me la religione è liberazione, ebbrezza di vivere, onestà intellettuale, libertà interiore.

Un pensatore francese ha compilato il credo del non credente ed un altro la preghiera dell’ateo. In realtà questo tipo di personaggi ho l’impressione che siano religiosi perché tentano di essere onesti, autentici, di rivolgersi all’Assoluto con le parole, con i gesti e con i mezzi di cui dispongono.

L’altro ieri ho celebrato il funerale di un vecchio più che novantenne: un uomo buono nel senso più vero della parola, un uomo che ha amato la sua famiglia, un uomo che ha lavorato tanto fino alla fine ed ha amato il suo lavoro, un uomo umile e rispettato dal prossimo. Andava poco, veramente poco in chiesa; non so perché, ma son convinto che il Padre non solo lo ha aspettato, ma si è alzato dal suo trono dorato per andargli incontro.

Quando Gesù, dialogando con la samaritana presso il pozzo di Giacobbe, le disse che era giunto il tempo che “l’uomo adorasse Dio in spirito e verità”, penso che si riferisse proprio a questo modo di essere religiosi. E sono pure convinto che il nostro sia veramente quel tempo auspicato da Gesù.

21.10.2013

Sesto al Regana

Nelle stagioni buone, primavera ed autunno, è ormai diventata tradizione una uscita mensile in una qualche località del nostro Veneto raggiungibile facilmente e che offra qualcosa di interessante sia dal punto di vista paesaggistico che da quello storico o religioso. Queste uscite le definiamo “gite pellegrinaggi” perché tentiamo di coniugare l’utile col dilettevole, ossia sono l’occasione per chiacchierare piacevolmente lungo il viaggio di trasferta, per una celebrazione religiosa più intensa e preparata del solito, per una ricca merenda e per conoscere uno dei tantissimi angoli del nostro meraviglioso Paese.

Giovedì scorso, grazie all’intraprendenza e allo spirito di sacrificio che anima il piccolo staff che organizza le uscite mensili degli anziani del “don Vecchi” e di Mestre, siamo andati a visitare il piccolo borgo medioevale di Sesto al Regana ai confini della nostra provincia

Pranzo anticipato alle 12 e alle 14 partenza da Carpenedo, raccogliendo lungo il percorso i residenti del Centri di Campalto e di Marghera. Viaggio comodo in pullman extralusso attraverso la stupenda campagna veneta vestita dei toni caldi dell’autunno: il rosso, il giallo e il verde stanco per la lunga estate. Accoglienza da parte di una gentile e colta ragazza della comunità che ci ha illustrato la storia dell’antica abbazia benedettina che nel lontano passato dominava tutto il basso Friuli (fu un piacere ascoltarla perché aveva le movenze di un maestro d’orchestra ebbro di offrire le sue melodie).

Quindi la messa. La signora Laura ha letto il tema dell’eucarestia: il corpo umano e le sue membra, dono inestimabile di Dio. Don Armando ha tenuto la meditazione sull’argomento, poi la liturgia con gli anziani che hanno espresso la preghiera dei fedeli. Quindi la lunga fila dei cento “pellegrini” che si sono presentati a ricevere il pane consacrato.

A seguire, in una sala messa a disposizione del parroco, la meritata merenda: tre panini alla soppressa, al salame e al formaggio, il dolce e una banana offerta dall’associazione “La buona terra”, vino, bibite e acqua minerale. Infine la passeggiata lungo il fiume Reghena che scorre sornione attorno al borgo, piccolo ma ricco di edifici stupendi del quattro-cinquecento.

Alle 18 partenza per il ritorno. Costo dell’uscita: 10 euro, tutto compreso. Compreso perfino il buonumore e la cordialità. Credo che se avessimo organizzato un ritiro spirituale non avremmo ottenuto gli stessi effetti positivi.

Una volta ancora mi sono convinto che Gesù non è venuto perché vivessimo una spiritualità musona e mesta, ma perché “avessimo la gioia ed una gioia piena” e con un po’ di buona volontà e 10 euro la cosa è assolutamente ancora possibile. Informo i parroci di Mestre che sono disposto a cedere gratuitamente la ricetta.

21.10.2013

“I compagni cattivi”

La mia prima formazione religiosa l’ho ricevuta a catechismo nella mia parrocchia. A dire il vero essa non ha influito più di tanto sulle regole di vita che pian piano andavo assumendo. Ai miei tempi il catechismo si rifaceva al testo scritto di san Pio X, testo che era una specie di “Bignami”, che riassumeva in formule estremamente concise tutta la teologia. Sia i contenuti che la formulazione di questo catechismo erano piuttosto difficili, per cui dicevano alla mia intelligenza infantile poco o nulla. Ben s’intende quella catechesi per formule mi ha aiutato quanto mai da adulto e costituisce ancora l’ossatura del mio impianto di cultura religiosa. Mentre credo che abbia sbozzato la mia coscienza morale l’Associazione di Azione Cattolica che ho frequentato da bambino.

Dagli otto ai dodici tredici anni ho frequentato gli “aspiranti” e i bravi sacerdoti che ho incontrato in quel tempo e in quella associazione hanno inciso nella mia formazione dandomi regole morali, indirizzi di vita che si sono dimostrati nel tempo come le basi e le fondamenta del mio orientamento comportamentale. A questo proposito, l’incontro fortuito, qualche giorno fa, con un quotidiano che non conoscevo, ha fatto riemergere in maniera forte una norma che ho assimilato a quei tempi tanto lontani, ossia quella di non frequentare i compagni cattivi.

Vengo al fatto. Ho trovato casualmente sul tavolo del banco di cortesia della hall del “don Vecchi”, dove abito, un quotidiano di cui avevo sentito parlare, ma che non conoscevo assolutamente, “Il fatto quotidiano”. Incuriosito, l’ho scorso con attenzione leggendo i titoli e qualche articolo. Credo in tutta la mia vita di non aver mai incontrato un periodico più fazioso, più irridente del buon senso e della misura, più malizioso nell’interpretare problemi ed eventi.

Dagli aspiranti mi pare di aver capito che era giusto e doveroso tenersi lontani dai “compagni cattivi”, perché avrebbero finito per influenzare negativamente la coscienza. Da ragazzino infatti mi son ben guardato dal vedere pellicole “proibite” o dal leggere “L’intrepido”, o frequentare ragazzi che fumavano o marinavano la scuola. E da adulto dal leggere “L’Unità” o “Il Manifesto”, perché avrebbero finito per sviarmi dalla “retta via”. Ora che son vecchio sono più che mai convinto che il leggere con frequenza “Il fatto quotidiano” finirebbe per rendere faziosa e maliziosa qualsiasi persona e la indurrebbe a giudicare sempre in mala fede e ad interpretare in maniera assolutamente negativa ogni persona ed ogni evento.

In questi giorni la televisione ha trasmesso le scene veramente tristi della violenza bruta di quelle bande di giovinastri capaci solo di rompere, incendiare, lordare e insultare. Mi vien da pensare che essi siano il risultato desolante della “catechesi” di giornali come questo, assolutamente incapaci di proporre qualcosa di positivo.

20.10.2013

Una medaglia mancata

A me piace sempre avere un volto, avere i lineamenti umani che definiscono il tipo di personalità dei fratelli per i quali mi si chiede di celebrare il commiato cristiano. Mi riesce impensabile immaginare di poter salutare in maniera anonima un fratello di fede che non ho mai incontrato e, meno che meno, conosciuto, e perciò non poter far beneficiare della sua testimonianza la comunità. In genere celebro il funerale di persone molto anziane che da anni vivono assistite da una badante o ospiti delle case di riposo per non autosufficienti di Mestre o del contado, persone ormai del tutto sconosciute in una città che di per se stessa è quanto mai anonima.

Talvolta sono i famigliari che mi cercano per parlarmi del loro caro estinto, ma più spesso sono io a prendere contatto, quasi sempre per telefono, con un famigliare di cui mi fornisce il numero di cellulare l’agenzia di pompe funebri che organizza il funerale. Quindi la conoscenza è quasi sempre precaria e parziale, ma comunque sufficiente per poter cogliere la testimonianza e recepire l’eredità umana e spirituale che il “partente” ci lascia.

Per me il commiato è occasione propizia per aiutare i parenti a porsi le grandi e fondamentali domande: “Da dove vengo, chi mi ha donato la vita, che cosa ne sto facendo, ed infine dove sono diretto?” La dimensione pastorale del suffragio si basa su questa possibilità di far riflettere, in una situazione esistenziale quanto mai propizia, sulla bellezza e l’essenzialità del messaggio di Gesù nei riguardi della vita e della morte. Il suffragio è importante, ma altrettanto la catechesi e più ancora la testimonianza globale di un’intera vita che il fratello ci offre.

A questo riguardo potrei e forse dovrei parlare a lungo delle “belle scoperte” che sto facendo. Mi convinco sempre di più che a questo mondo, anonimo ed apparentemente banale, c’è invece tanta bella gente che ha molto da insegnarci e da donarci. Per un prete avere un auditorio attento, disponibile e soprattutto nelle condizioni migliori per recepire la proposta delle grandi verità cristiane, è un’opportunità da non lasciar perdere. Quindi provo la gioia profonda di donare il messaggio di Cristo in maniera essenziale, senza fronzoli e con grande convinzione.

Mi arricchiscono pure moralmente le belle testimonianze di gente semplice e umile che mai raggiungono le pagine dei giornali, ma che sempre edificano e ci aiutano a vedere la parte più buona della nostra società.

Proprio in questi giorni nei giornali si è parlato del criminale nazista che non si disse mai pentito per aver trucidato a Roma a sangue freddo più di 300 persone, avendo solamente obbedito agli ordini e fatto il suo dovere. Il figlio del defunto novantatrenne di cui dovevo celebrare il funerale mi confidò che suo padre aveva partecipato alla campagna di Grecia e poi di Russia, avendo meritato perfino la croce di guerra, ma era orgoglioso di non aver sparato neppure un solo colpo e poi, tornato, aveva fatto con scrupolo il cameriere. La stampa non parla mai di questi veri eroi, eppure ci sono e fortunatamente sono tanti i cittadini che lasciano un’eredità preziosa e sublime e che io fortunatamente sono in grado di raccogliere e ridonare.

20.10.2013

Le insidie della burocrazia

Mercoledì scorso, in occasione del consiglio di amministrazione della Fondazione che gestisce i Centri don Vecchi, il giovane presidente, don Gianni Antoniazzi, ha anticipato i propositi della burocrazia regionale circa la gestione del “don Vecchi 5”. L’abbozzo di progetto del funzionario preposto al settore mi ha fatto a dir poco imbestialire, constatando, ancora una volta, la protervia e il limite della burocrazia di qualsiasi ente pubblico.

Sento il bisogno di ritornare su discorsi già fatti per illustrare come si stia correndo il rischio di creare un altro carrozzone macchinoso superato ed in balia della burocrazia regionale. Come si ricorderà, l’assessore regionale alla sicurezza sociale, dottor Remo Sernagiotto, che stava inseguendo l’ipotesi di trovare una soluzione per quella zona grigia della terza età che sta tra l’autosufficienza e la non autosufficienza, avendo scoperto con sorpresa ed entusiasmo la realtà del “don Vecchi”, ha affidato alla Fondazione il compito di progettare e di porre in atto un’esperienza pilota per evitare di collocare nelle già intasate ed enormemente onerose strutture per non autosufficienti, gli anziani in perdita di autonomia fisica.

Il “don Vecchi”, forte della sua riuscita esperienza dei Centri, ha accettato questa nuova sfida. A questo scopo Sernagiotto ha messo a disposizione un milione e ottocentomila euro a tasso zero da restituire in venticinque anni. La Fondazione in questi due anni ha reperito una superficie di quasi trentamila metri quadrati, ha creato un progetto ad hoc e sta già costruendo 60 alloggi per anziani in perdita di autonomia con la dottrina collaudata che l’anziano rimanga “il padrone di casa” e che possa, pur con le sue povere risorse economiche, essere “autosufficiente” da un punto di vista finanziario e fisico.

Sennonché dalla relazione di don Gianni ho appreso che il solito funzionario della Regione proporrebbe di finanziare solamente quaranta alloggi, dei quali il settanta per cento sarebbero assegnati dalla ULSS e che non sarebbe più la Fondazione a vagliare le richieste e a decidere l’accoglimento; che il contributo per anziano sarebbe solamente di 22 euro al giorno ed infine che il finanziamento sarebbe erogato a mezzo della ULSS che è proverbialmente in ritardo con i pagamenti.

I patti non erano questi. Se fossero stati questi non saremmo neanche partiti. L’elaborazione e la sperimentazione era stata chiesta alla Fondazione da parte dell’assessore Sernagiotto. Se ora si volessero cambiare le carte a questo modo, a mio parere sarebbe opportuno rifiutare decisamente la proposta e partire per conto nostro, rifiutando ogni contributo regionale.

Siamo sempre alle solite: la burocrazia che si dimostra ancora una volta di corte vedute, di stampo statalista, incapace di innovazione, per nulla fiduciosa del privato sociale; il quale invece si dimostra sempre più agile, più economico e soprattutto più aderente alle attese degli anziani e delle loro famiglie.

19.10.2013