Portavoce

Ho degli amici collaboratori semplicemente meravigliosi che sono per me più che una fortuna, una Provvidenza! Quest’anno ricorre il cinquantenario della morte tragica di Kennedy, il giovane e prestigioso presidente degli Stati Uniti, ucciso a Dallas. Ricordo che a quel tempo si diceva che il successo di J.F. Kennedy era dovuto in gran parte allo staff di persone quanto mai intelligenti che lui si era scelto come collaboratori.

Fatte le debite proporzioni, sono certo che se qualcosa mi è riuscita nel mio impegno di prete, lo debbo in gran parte ai miei collaboratori che io reputo capaci, ma soprattutto fedeli e generosi.

Vengo ad un fatto che a qualcuno sembrerà perfino banale. La data di questa “pagina” è il 3 dicembre 2013. Ebbene, la prossima settimana uscirà, ancora prima che finisca l’anno, il volume con il mio diario del 2013. La signora Laura, che inserisce e riordina pensieri, sintassi e grammatica dei miei scritti aggrovigliati e scorretti, il signor Luigi Novello, che ha stampato il prototipo del volume da mandare in tipografia, il signor Causin che ha corretto sollecitamente le bozze, il signor Cavinato che ha studiato l’impianto grafico della copertina e Gianni Bettiolo che ha fornito una splendida foto che mi ritrae mentre celebro messa nella splendida abbazia di Santa Maria in Silvis a Sesto al Reghena durante una gita pellegrinaggio, chi ha preso contatti con la tipografia e chi ha procurato i soldi per la stampa, tutti loro sono gli artefici di questa nuova edizione del diario 2013.

A questa bella gente debbo veramente tanto, anzi quasi tutto, e per questo ringrazio il buon Dio.

Ieri poi il cognato di Gianni, fotografo per diletto, mi ha perfino portato la magnifica foto inserita nel calendario 2014. Che cosa mai desidero di più? Tutta questa amabile gentilezza finisce poi per mettermi in crisi perché non riesco a ricambiare tanta generosità e a condividere quel po’ di successo che tanti addebitano a me, mentre va debitamente condiviso e la parte che mi spetta è quanto mai piccola.

Stamattina, mentre ho appeso il calendario con la bella foto scattata a Sesto al Reghena, sono stato colpito da un particolare che mi ha costretto a meditare: la foto mi ritrae mentre sto celebrando l’Eucarestia per i miei anziani e alle mie spalle c’è un grande e meraviglioso Cristo in croce. Guardandola ho sentito tutto il peso e la responsabilità di aver scelto di fare il prete. Il Cristo dell’antica basilica che è ritratto alle mie spalle, pare proprio che mi incarichi di essere il suo portavoce. Quante volte non mi sono sentito pesare questo compito così carico di responsabilità che, ogni giorno di più, mi fa sentire l’inadeguatezza ad una “missione impossibile”.

Spero proprio che Cristo non si sia sbagliato e non si sia stancato di farsi rappresentare da un povero gramo quale io so di essere.

03.12.2013

Il libro della vita

Prima la ritenni una necessità, poi forse è diventata un’abitudine abbonarmi ad un sacco di riviste. L’editoria cattolica, anche se oggi non è all’avanguardia nel settore della carta stampata, sforna ogni settimana ed ogni mese una serie di periodici che mi interessano quanto mai, per non parlare poi dei volumi che le case editrici di orientamento religioso, ma pure quelle di impronta laica, sfornano a getto continuo su argomenti che riguardano la Chiesa e il mondo religioso.

Questa sovrabbondanza di informazioni e di approfondimenti su argomenti che mi interessano come sacerdote, finisce per mettermi a disagio e di frequente perfino mi fa sentire in colpa perché non riesco a leggere che una piccola parte di questa valanga di discorsi, analisi, informazioni, progetti e proposte.

Nonostante il serio impegno di non perdere tempo, faccio fatica a seguire anche quegli argomenti che di primo acchito mi sembrano importanti, tanto che sperando sempre di leggere certi articoli che mi interessano, finisco per produrre pile di giornali e riviste che poi non fanno che aumentare il mio disagio per tanto bene sprecato. La cosa mi tocca particolarmente conoscendo di persona la fatica e il costo della “produzione giornalistica”, perciò il suo spreco mi turba quanto mai. Nonostante abbia pensato e ripensato non riesco a risolvere questo problema. Forse questo discorso riguarda soprattutto le persone anziane, e io lo sono fin troppo.

A questo proposito porto nell’animo un ricordo che forse mi offre un varco per uscire da questo stato d’animo. Tanti anni fa, giovane prete, sembrandomi che il mio vecchio parroco, don Valentino Vecchi, leggesse poco, da impertinente e criticone come sono sempre stato, glielo feci osservare. Lui mi diede una risposta su cui sto meditando, e forse mi offre una via d’uscita per le mie difficoltà di aggiornamento. Monsignore, sornione e veramente intelligente qual’era, mi rispose: «Armando, se alla mia età (e forse a quel tempo era più giovane di me adesso) non avessi ancora imparato a leggere il libro della vita, vorrebbe dire che non avrei proprio imparato nulla!».

Forse dovrò anch’io dedicarmi un po’ di più a leggere questo “quotidiano” fatto di incontri, riflessioni, sensazioni, confidenze, piuttosto che cimentarmi su elucubrazioni spesso artificiose, interessate o scritte per sbarcare il lunario.

02.12.2013

Il pettirosso di un mattino

Stamattina il termometro segnava solamente due gradi. Nonostante il freddo gelido, ho aperto la porta-finestra che dà sul terrazzino per il ricambio dell’aria mattutina. Quindi, dopo la toilette, sono tornato nel salottino, dove ogni mattina recito il breviario, per richiudere la porta.

Non appena accesi la luce notai che qualcosa si muoveva sul pavimento. Dapprima pensai con stupore e preoccupazione ad un topo, poi vedendo che quel cosino scuro si era alzato in volo, capii subito che era un piccolo pettirosso che probabilmente, vista la luce, era entrato nella stanza. Feci un po’ di fatica per ridargli la libertà perché, per la paura, finiva sempre per andare a sbattere sulle pareti. Finalmente poi imboccò la porta-finestra che avevo spalancato, ed uscì nel buio verso il luogo da cui era venuto. D’istinto m’è venuto da domandarmi “dove è nato, chi sono i suoi genitori, dove sarà andato?”. Tutte domande che, almeno per me, non trovano una risposta adeguata.

Il piccolo incidente, per associazioni di immagini e di idee, mi rimandò alla prefazione di quello splendido volume, uscito una quarantina di anni fa, che è “Il catechismo per adulti” della Chiesa d’Olanda nei Paesi Bassi. Il testo  immagina che l’uomo entri in maniera inaspettata in un salone ove si disserta sui misteri della vita, come l’uccello entra misteriosamente nella stanza ove c’è calore e luce e poi esce quasi subito nel buio da cui è arrivato.

Il catechismo olandese, avvalendosi della Bibbia e della tradizione, tenta di dare una risposta agli eterni e sempre attuali problemi che si esprimono con le domande “da dove vengo, cosa ci sto a fare a questo mondo e dove vado?”. Con i vesperi di questa prima domenica di avvento la Chiesa, rifacendosi alla Rivelazione, tenta di dare a queste domande delle risposte convincenti. Nella mia meditazione mattutina ho fatto il proposito di andare ancora una volta a lezione da Gesù, per comprendere un po’ di più il senso della mia esistenza. Non posso accettare che essa si riduca ad un attimo di incontro con la luce della vita senza capire il prima e il dopo di questa vita, perché non avrebbe senso se essa venisse dal buio e dopo qualche attimo di calore e di luce, di certo non assolutamente appaganti, si rituffasse nel buio del mistero.

Cristo viene per parlarmi di tutto questo, perciò lo voglio ascoltare con rinnovata attenzione.

30.11.2013

Solamente il privato sociale…

Mercoledì (a fine novembre, NdR) ho partecipato al consiglio di amministrazione della Fondazione che gestisce i Centri don Vecchi.

Don Gianni, il giovane presidente, e i consiglieri, mi usano la gradita attenzione di rendermi partecipe dei problemi di questo ente che pian piano sta imponendosi in città nel settore dell’assistenza sociale. La cosa mi fa piacere perché mi sono sempre interessato ai problemi che riguardano la solidarietà, però mi capita talvolta di lasciarmi coinvolgere in maniera viscerale dai problemi trattati, cosa che da un lato mi fa star male. Dall’altro lato talvolta arrischio di finire per esagerare nel portare avanti le soluzioni che io ritengo più giuste.

Il tema principale dell’ordine del giorno dell’incontro era quello della gestione del nuovo Centro dedicato agli anziani in perdita di autonomia. Un paio di anni fa l’assessore regionale Sernagiotto ci affidò il compito di approntare un progetto pilota per una soluzione più attenta alla dignità e all’autonomia dell’anziano in perdita di autonomia, che fosse pure meno onerosa per gli utenti e per la società. Accettammo di buon grado questa sfida.

Dopo infinite peripezie, abbiamo ottenuto un’area ottimale, abbiamo messo a punto il progetto ad hoc con tre giovani architetti intelligenti e sensibili a queste problematiche, tanto che ormai la struttura è al tetto e ad aprile, maggio, sarà pronta.

Purtroppo a questo punto salta fuori la solita burocrazia che vorrebbe imporci un organigramma e delle modalità di gestione che si rifanno ai vecchi schemi che – almeno io – giudico superati, onerosi ed accettabili solamente dall’ente pubblico, abituato a spendacchiare, o dalle aziende commerciali invece, tutte tese a guadagnare comunque.

A questo punto è nata la mia ribellione: “Lasciateci far da noi, controllateci pure, ma soltanto fra un paio d’anni formulate pure un giudizio e, solamente se troverete assolutamente positiva l’esperienza, assumetela come un modello sul quale far riferimento per l’assistenza di questa tipologia particolare di anziani.

Ho la convinzione assoluta che il “pubblico” debba rifarsi al cosiddetto “privato sociale” per le sperimentazioni che sono assolutamente necessarie per approntare norme e per concedere finanziamenti. Solamente il “privato sociale”, ossia quella realtà che ha forti motivazioni sociali e non persegue fini di lucro, può aprire strade nuove e proporre soluzioni più attente all’anziano e meno gravose economicamente sia per le famiglie che per la società.

Ma per carità, lasciateci le mani libere, non intromettetevi con richieste formali che nascono da una mentalità burocratica che non può avere per l’uomo quella passione che normalmente ha solamente chi è mosso da ideali e che, pur senza stipendio, è disposto a sacrificarsi per il bene del suo prossimo!

28.11.2013

Finalmente!

E’ da una vita che vado ripetendo, solitario ed inascoltato dai più, che la solidarietà è parte integrante, anzi più importante, del messaggio di Gesù e che questo discorso non deve rimanere appeso alle nuvole del soprannaturale, ma deve trasformarsi in servizio e strutture. Sono infinite le volte che vado denunciando che nelle nostre parrocchie e diocesi si tende a costruire una Chiesa impostata quasi solamente sul culto e sui riti, mentre si trascura la carità.

Infatti, mentre si sono costruite, giustamente, chiese per il culto e i sacerdoti sono impegnati perché i fedeli le frequentino, ben raramente si riesce a trovare simile riscontro per le opere della carità; mancano quasi sempre strutture di questo genere e purtroppo anche un minimo di organizzazione per la carità. Il rito s’è imposto in maniera determinante, mentre la carità è rimasta la cenerentola che non riesce a liberarsi del povero involucro dell’elemosina.

Ora, già nel primo documento con cui Papa Francesco si rivolge alla Chiesa, c’è l’invito a cambiare registro: “Meno liturgia e più carità”, dice il Pontefice. Ma già, e prima dell’invito formale ad invertire la marcia, il Papa l’ha manifestato fin dai primi istanti del suo servizio alla Chiesa universale. E’ subito balzato agli occhi di tutti che questo Papa ha ridotto all’essenziale lo sfarzoso cerimoniale delle celebrazioni pontificali: sia nei gesti, che nelle vesti.

C’è da augurarsi che questo nuovo stile liturgico si diffonda anche nelle diocesi e nelle parrocchie con una semplificazione che riduca all’essenziale il modo di gestire il culto pubblico, eliminando un’ampollosità ormai insignificante, anzi pressoché incomprensibile all’uomo di oggi.

E’ vero che in questo ultimo mezzo secolo quest’opera di semplificazione ha fatto molta strada; se mi rifaccio alle messe e soprattutto ai pontificali ai quali ho assistito a San Marco da seminarista e da chierico, ho modo di constatare un’evoluzione, ma forse essa è ancor troppo lenta per essere significativa.

Ricordo che a quel tempo il Patriarca era bardato di tuniche, calzari; accanto a lui il cerimoniere, il caudatario per sorreggere la coda di tre quattro metri, un nobile con lo spadino, la guardia della Basilica con un’uniforme del settecento ed un numero notevole di chierici inservienti per la mitra, il pastorale.

Ora sono una ventina d’anni e forse più che non assisto più ai pontificali, però ho visto la messa del Patriarca nella mia “cattedrale tra i cipressi” per la ricorrenza dei morti, e mi è sembrato ancora un po’ di troppo il cava e metti dello zucchetto, della mitra e del pastorale. Penso che ci sia ancora un poco da sfrondare nella liturgia, ma moltissimo da aggiungere nei riguardi della carità e che, per la nostra società, per Papa Francesco e anche per me, l’esistente è ancora fin troppo sobrio ed elementare.

26.11.2013

Don Fausto

Tutte le settimane un mio collaboratore mi porta “La Borromea”, il primo “bollettino settimanale”, in ordine di tempo, che è sorto a Mestre. La storia del periodico l’ho raccontata altre volte, però la ripeto per giustificare il mio particolare interesse per questo settimanale.

Mezzo secolo fa monsignor Vecchi, di cui ero cappellano, mi portò in Francia, Paese che allora era all’avanguardia da un punto di vista pastorale, per aggiornare la nostra attività parrocchiale su quel modello. Scoprimmo in una chiesa un “rudimentale” bollettino, ed appena tornati a casa fondammo “La Borromea”, in ricordo della campana donata alla parrocchia di San Lorenzo da parte di san Carlo Borromeo che, di ritorno da Roma, sostò nella villa di via Carducci, villa che oggi ospita la biblioteca civica.

Al mio interesse per questo motivo s’aggiunge il fatto che della “Borromea” sia oggi responsabile don Fausto Bonini, che io conobbi ragazzino quando, ben sessant’anni fa, fui assegnato alla parrocchia dei Gesuati ove don Fausto abitava con la sua famiglia. In verità leggo ogni settimana questo bollettino parrocchiale perché è un foglio eccellente sotto ogni punto di vista. Don Fausto, già direttore di “Gente Veneta”, è uno dei sacerdoti più preparati in fatto di giornalismo. Seguo poi questo “bollettino” perché posso seguire un tipo di impegno pastorale che io reputo assolutamente all’avanguardia nella nostra città.

Le iniziative pastorali di questo parroco, pur arrivato in tarda età alla parrocchia, dimostrano un intuito piuttosto raro di come oggi deve orientarsi una comunità cristiana che intende dialogare in maniera vera con i fedeli e la città.

Oggi la copertina di questo numero della “Borromea” riporta una bella foto di don Fausto e una sua triste lettera alla parrocchia e a Mestre. Il parroco del duomo informa che a metà maggio, avendo compiuto settantacinque anni, ha dato le dimissioni, che il Patriarca le ha accettate e che l’ha pregato di continuare per ora a svolgere l’attività pastorale con la delega di “amministratore parrocchiale”, un incarico che sa “di parroco azzoppato”, ossia con poteri limitati.

Don Fausto ha accettato di proseguire il suo compito con parole nobili e piene di amore verso la Chiesa veneziana che ha servito per più di cinquant’anni.

Confesso che ho letto La Borromea con tanta amarezza. La Chiesa mestrina perde uno dei suoi pochi leader che ha dimostrato di guardare al futuro e di saper dialogare non solamente con i fedeli del nostro tempo, ma pure con la città.

La Chiesa veneziana, mi pare che anche in passato non abbia mai conferito compiti sostanziali di guida al parroco del duomo di Mestre; sono state, a mio modesto parere, nomine piuttosto formali che reali. Ora non ci sono neppure quelle.

E’ vero che in linea d’aria Venezia è a un tiro di schioppo, in realtà però c’è di mezzo la laguna che per Mestre è poco meno dell’Oceano Pacifico.

25.11.2013

Il viale

Molti anni fa mi capitò tra le mani un saggio di un certo architetto Artico, persona che credo di non aver mai incontrato. Lo studio verteva sulla scelta del tracciato di viale Garibaldi; mi sembrò una specie di studio di fattibilità. Ricordo che quando lo lessi, una quindicina di anni fa, la cosa mi incuriosì alquanto perché si diceva che i progettisti che studiarono e decisero questo tracciato del viale che, partendo dalla torre, congiunge Mestre a Carpenedo, si ispirarono al viale più celebre di Versailles, la notissima residenza reale. Se fosse stato così, mi pare che le ambizioni dei mestrini fossero più che mai esagerate e che il risultato sia stato quanto mai modesto. Capisco invece un po’ di più la direzione di viale Garibaldi che secondo i costruttori doveva manifestare la tensione verso Treviso.

Non è da dimenticare che, almeno a livello religioso, la prima periferia di Mestre è costituita dalla comunità di Carpenedo, che fino al 1926 fu l’ultima propaggine, a livello religioso, della diocesi trevigiana. Quando dovettero adeguarsi alle scelte del duce, che desiderava far combaciare le diocesi con le province, ci fu una qualche resistenza da parte dei sacerdoti che avevano studiato tutti nel seminario di Treviso e perciò erano più legati a quella città che a Venezia.

Comunque, dei sogni eccessivamente ambiziosi di questi progettisti, di bello non ci sono che i tigli che ingentiliscono le case senza pretese architettoniche che fiancheggiano il viale e che a primavera offrono un profumo delicato all’unica passeggiata possibile per i mestrini. Ora però anche i tigli, spogli delle loro chiome e del loro fogliame, offrono uno spettacolo triste e malinconico, di una città che nonostante i recenti tentativi di nobilitarla con qualche ritocco parziale di arredo urbano, rimane ben povera, stretta tra l’elegante ed operosa capitale della Marca e Venezia, la morente capitale della Serenissima.

Un tempo Mestre aveva almeno il vanto di un polo industriale di prim’ordine, ora ha perduto anche questa ricchezza, perché le sue fabbriche sono quasi tutte chiuse e ridotte a macerie in una città post industriale che vive di espedienti, condannata ad un grigiore civile e commerciale e a rimanere periferia di tutto quello che esiste di più nobile e di bello.

A livello religioso, una quarantina di anni fa sembrò che la nostra Chiesa avvertisse un sussulto di vita e di autonomia, ora pare che anche da questo lato segua la sorte di questa città destinata a rimanere periferia.

24.11.2013

Un’Italia da scoprire

La signora Mariuccia, la nota voce solista del “coro Santa Cecilia”, che anima tutte le feste l’Eucarestia al “don Vecchi” e nella “cattedrale fra i cipressi” e che inoltre si esibisce spesso, durante l’anno, nei vari Centri con dei programmi di musica lirica e romanze, ha convinto lo staff che organizza i “pomeriggi turistici” per i nostri anziani, di puntare, come meta dell’ultima uscita, su Arzerello, suo paese natìo.

Ho fatto fare una ricerca su Internet per avere qualche notizia su questo paese della nostra soprano. In verità ho trovato tanto poco: un paesino della bassa padovana, che in una minuscola frazione offre una chiesa denominata “del Cristo”. Le foto relative, del paese e di questo piccolo santuario, mi sono sembrate ben meschinelle, tanto che subito mi è venuto da pensare che avremmo fatto cilecca per questa uscita mensile che noi, con un po’ di retorica, chiamiamo “gita-pellegrinaggio”. Il fatto poi che i giorni precedenti ci avessero inflitto la coda del “ciclone Cleopatra”, che ha messo in ginocchio la Sardegna e che ci aveva offerto pioggia a volontà, mi avevano creato ancor maggiore apprensione e pessimismo.

Invece il buon Dio ci ha regalato una giornata primaverile, un cielo terso ed un sole proprio ammiccante ed affettuoso. Lungo il viaggio abbiamo potuto ammirare l’autunno nel suo fulgore, mentre tutta la catena del Grappa, ben visibile a motivo della pioggia che aveva ripulito l’atmosfera, ci ammoniva, con le sue cime innevate, che l’inverno è ormai alle porte.

Arrivammo verso le 15,30 al piccolo sagrato della Chiesa del Cristo, una chiesetta di campagna con una facciata insignificante. Ci accolse un signore in blue jeans che pensai fosse un contadino del posto, ma ben presto scoprii che era il parroco e “che parroco!”, ben cosciente della sua autorità! Prese in mano, fin da subito, la regia del nostro pellegrinaggio, spiegandoci alla buona la storia del santuario e del Cristo che vi era custodito. La storia risultò uno dei tanti racconti che, se non sono leggenda, di certo ne sono un parente prossimo. Quando ci permise di entrare, dopo il racconto-predica, scoprii subito che la cappella a destra, con il Cristo, era la parte antica alla quale, all’inizio del secolo scorso, avevano accostato una chiesa alquanto modesta ma ben curata ed accogliente.

La visione del Cristo, dipinto su tavola dal Donatello, o da qualcuno della sua scuola, da solo meritava veramente il viaggio: una splendida e dolce figura di squisita armonia e di calda umanità.

Poi, da anfitrione deciso, il parroco ci impose la recita del rosario ed una messa condita abbondantemente con canti vecchi e nuovi. Comunque ho notato che i miei vecchi hanno gradito quanto mai quella liturgia popolare e interventista e hanno seguito seriamente il rito ben più lungo, nonostante io abbia rinunciato, per motivi di tempo, al mio sermone sul dovere di cogliere la vita come un bel dono.

La seconda parte dell’uscita, con la consueta merenda – che per una persona un po’ parca basterebbe per colazione, pranzo e cena – s’è svolta nel bellissimo patronato della parrocchia vicina di Campagnola.

Penso che se avessimo portato la nostra allegra brigata di un centinaio di anziani del “don Vecchi” e di Mestre a Parigi o a Londra, non li avremmo fatti più felici!

Recentemente ho sentito che il petrolio è la ricchezza di una nazione e che noi italiani ne abbiamo giacimenti quasi infiniti: non di petrolio, ma delle nostre opere d’arte! Il guaio è che non sappiamo di averli e perciò siamo costretti a vivere da poveri.

23.11.2013

La zarina e la rivoluzione

Un paio di settimane fa ho ceduto alla tentazione di vedere un altro film banale e scontato. La pellicola messa in onda da “Rai storia” narrava la vita di Caterina, la zarina di Russia, l’imperatrice che riuscì a liberarsi di un marito pazzo che stava screditando la monarchia e rovinando il Paese, riuscendo così a prendere in mano le redini del potere.

Confesso il motivo del mio “peccato” di sperperare in maniera così banale il mio tempo, mentre ho molte cose tanto più importanti a cui badare: provo da sempre una curiosità morbosa per le ricostruzioni storiche, per i film in costume e, in questo caso, per la messa in scena di un mondo che ho conosciuto attraverso le splendide opere di Tolstoj, Dostojevskij e di Cechov.

Ripeto, il film era una somma un po’ scontata di luoghi comuni: balli, divise militari pittoresche, galanterie sentimentali, intrighi di corte a non finire e lusso sfrenato. Il film però presentava, in maniera perfino troppo evidente, il mondo frivolo e flaccido, fatuo ed inconsistente di una aristocrazia ricca, spendacciona, che campava lussuosamente sulla sofferenza e sulla miseria dei poveri contadini di una società arretrata.

Mentre guardavo il susseguirsi di scene che evidenziavano il basso livello civile ed umano di quella società, capii che essa non poteva non generare che la rivoluzione dei Soviet. La rivoluzione russa è stata un’utopia di un mondo diverso e migliore, anche se poi questo sogno generato da una società dissoluta e priva di valori comportò tanto sangue e tanta miseria.

Ricordo che quando vivevo nella piccola comunità di sacerdoti di San Lorenzo, monsignor Vecchi ribatteva al rifiuto radicale di don Franco della politica e del modo di governare di De Gaulle e dell’ebrea Golda Meyer – i quali governavano con mano decisa che don Franco definiva “fascista” – che non erano questi uomini di Stato a determinare un clima quasi di dittatura, ma erano essi stessi invece ad essere espressione diretta di un certo tipo di società confusa ed irrequieta.

Questi ricordi mi hanno spinto ad accostare quel clima di disordine, di intrighi e di distacco dalla vita e dai bisogni reali del popolo, alla situazione in cui stiamo vivendo: faide di palazzo nel Pdl, lotta fratricida con colpi bassi nel Pd e frantumazioni costanti delle frange del Centrosinistra e del Centrodestra!

La gente è “disamorata”, non va più a votare, e chi lo fa punta sull’incognita finora sconosciuta di Grillo, il comico della politica.

Più volte ho sentito qua e là un già conosciuto ed amaro auspicio: “Ci vorrebbe un uomo forte che mettesse a posto le cose!”. Non si auspica più “l’uomo della Provvidenza” perché la società è sempre meno religiosa, però mi pare che ci siano tutte le premesse di un desiderio di ordine, di disciplina e di autorevolezza. Ho paura che, se andiamo avanti di questo passo, questo modo di pensare possa generare ancora una volta, il dittatore!

22.11.2013

“Obbedisco”

Circa un mese fa s’è diffusa la notizia che don Cristiano Bobbo, il giovane parroco della parrocchia di San Giuseppe di viale San Marco, era stato trasferito ad Oriago, nella comunità di San Pietro. La cosa mi sorprese assai perché, avendo ammirato l’impegno pastorale generoso e intelligente e le realizzazioni che questo giovane sacerdote ha portato a termine nella quindicina di anni che ha trascorso come parroco in quella comunità, pensavo che gli avessero affidato una sede e degli incarichi più importanti ed impegnativi.

So che la parrocchia di San Giuseppe conta poco più di 4500 anime, mentre quella di San Pietro in bosco, a cui è stato destinato, ne ha quasi 6000, ma mentre conosco la vivacità e la ricchezza spirituale di quella che don Cristiano lascia, non conosco punto quella alla quale è stato destinato, ma mi pare che non si sia mai fatta notare per iniziative ed impegno pastorale.

Comunque questi sono problemi marginali che per me rappresentano poco più che una curiosità. Mentre quello che mi ha veramente edificato è stato lo spirito con cui don Cristiano ha affrontato questo – per me – sorprendente trasferimento, senza dolersi più di tanto ed abbandonandosi fiduciosamente alla volontà di Dio attraverso l’obbedienza serena – anche se, penso, sofferta – al superiore.

Un tempo si diceva che i preti sono come i soldati e perciò vanno dove sono comandati. Oggi, per fortuna, non è più così, perché la virtù dell’obbedienza è più consapevole e collaborativa. Il sacerdote è corresponsabile con le decisioni del vescovo e perciò non è più, nello scacchiere della diocesi, una pedina inerte ed irresponsabile. Non sempre mi sono trovato sulla stessa lunghezza d’onda, a livello spirituale, pastorale ed operativo, di don Cristiano, non per questo però, o forse appunto per questo, sono stato edificato dallo spirito con cui ha accettato il trasferimento che pur gli deve essere costato molto.

Ho seguito attentamente questo evento attraverso la lettura del periodico della parrocchia che lascia: talvolta è appena trapelata la sofferenza più che comprensibile, ma mai disappunto e resistenza. Io non conosco le problematiche dei preti e delle parrocchie della Chiesa di Venezia e perciò mi guardo bene dall’esprimere dei giudizi che sarebbero superficiali e non documentati, comunque non posso tacere la mia vera ammirazione per quanto don Cristiano ha fatto per la parrocchia e per come la lascia; soprattutto ho apprezzato la dignità e lo spirito di fede con il quale ha vissuto questo momento. Mi pare che sia doveroso per uno come me che partecipa, seppur da lontano, ma in maniera appassionata, alla vita della sua Chiesa, e che ne denuncia con franchezza le carenze, sottolineare anche i suoi pregi. Mi pare che il comportamento di don Cristiano faccia veramente onore al clero veneziano.

21.11.2013

L’ultima impresa

Per inizio gennaio 2014 uscirà l’ultimo volume del diario: quattrocento e più pagine di “pensieri vaganti” di un vecchio prete, sotto il titolo “Crepuscolo”. Se duro ancora un poco mi troverò in difficoltà per trovare titoli capaci di inquadrare la mia “avventura umana”. I miei meravigliosi amici collaboratori sono stati così bravi che il nuovo volume potrebbe uscire anche prima che termini il 2013. Come al solito non mi sono sentito di chiedere a nessuno di farmi la prefazione, perché sono fin troppo conscio dei miei limiti e perciò non ho voluto mettere alcuno nella situazione di dire qualche bugia adducendo motivi di lode che in realtà non merito assolutamente.

Alcuni anni fa, in una circostanza analoga, ho scritto che mi trovavo ad un bivio: o seguire l’esempio di Reagan che, avvertendo l’avvicinarsi delle nebbie della vecchiaia, si congedò dal suo Paese e si spense in silenzio e in solitudine, o seguire Papa Wojtyla che si aggrappò alla sua missione fino all’ultimo respiro. Finora ho seguito l’istinto del grande pontefice polacco e perciò sto copiando la scelta di un mio amico che, ammalato di cancro, mi confidò che voleva che “la morte lo incontrasse vivo”.

Per ora ho deciso così, ma potrei anche cambiare idea o essere costretto a farlo. In realtà desidero accettare l’una o l’altra delle soluzioni che la vita, o meglio la Provvidenza, mi imporrà. Per ora, conseguente alla scelta di Papa Wojtyla, confido agli amici che sto lavorando ad un nuovo progetto editoriale. L’ansia di portare il messaggio a tutti, che in passato mi ha determinato a far nascere il settimanale “L’Incontro”, “La liturgia della domenica” e il mensile “Il sole sul nuovo giorno”, mi sta spingendo, assieme ad alcuni amici, a dar vita ad un nuovo periodico che riassuma i discorsi di Papa Francesco. Gli interventi del Papa sono così vivi, freschi, genuini, accattivanti, che ci è parso ingiusto che non giungano all’attenzione della nostra gente.

E’ vero che i giornali e la televisione ce ne informano, ma lo fanno quasi sempre mediante una battuta, però non sempre questa ne esprime tutta l’importanza e la ricchezza. Il nuovo periodico uscirà come supplemento de “L’Incontro” e avrà come testata “Il messaggio di Papa Francesco”. Sarebbe stata nostra intenzione inserirla a taccuino ne “L’Incontro” però, per motivi anche economici, per ora tenteremo di stamparne un numero contenuto di copie, ma se il foglio incontrerà il favore del pubblico, solo allora provvederemo ad una soluzione più consistente. Per ora ringrazio il Signore per questa nuova avventura pastorale che mi auguro possa offrire a tante più persone l’insegnamento del Papa.

20.11.2013

I ladri di galline e i ladri in frac

Io sono nato in campagna e una delle risorse più consistenti per la mia famiglia piuttosto numerosa era il pollaio. Le galline, le oche, le faraone, le anitre e i conigli erano una delle ricchezze che costituivano non solo una risorsa per la tavola, ma pure una merce di scambio per gli acquisti nella bottega degli alimentari. Spesso mia madre mi mandava a far la spesa pagando con le uova. Era un compito che mi faceva sentire povero, eppure era necessario farlo perché la paga di mio padre carpentiere era piuttosto miserella.

Il pollaio era collocato nel cortile e mio padre lo sorvegliava vigile mantenendo sempre a portata di mano lo schioppo calibro sedici con cartucce caricate a pallini, per custodire il nostro “tesoro” specie nelle notti buie senza luna che erano più propizie per i ladri di polli durante la notte.

Ben presto però sono venuto a conoscenza che di ladri ce ne sono di tutte le specie, tanto che è molto difficile farne una lista, perché oggi sarebbe troppo lunga. I giornali ci informano ogni giorno delle trovate più “geniali” per procurarsi denaro a buon mercato e senza sudare. Qualche settimana fa i ladri hanno sottratto, senza colpo ferire, trenta milioni di euro dal forziere di una società di vigilanza; l’altro ieri han rubato cento quintali di argento da un camion sull’autostrada. Ora mi pare di aver tristemente scoperto che come alle vecchie povertà oggi se ne sono aggiunte tante di nuove, così è avvenuto per la tipologia dei “ladri”. Oggi ci sono ladri che possono fregiarsi di titoli di ministro, governatore di Regione deputato, senatore, magistrato, sindaco, manager di enti pubblici e perfino senatore e i loro furti sono ben più consistenti di quelli perpetrati dai ladri di pollaio.

Queste categorie però, almeno nominalmente sono imputabili e perseguibili, anche se non sempre sono puniti come quelli delle galline. Ho però anche la sensazione che ci siano cittadini che a livello formale non possano essere definiti ladri, ma in sostanza forse delinquono più dei primi. Io vorrei chiedere ai miei amici come dovrebbero essere definiti i giocatori di calcio o di basket che percepiscono decine di milioni all’anno, i deputati, i managers degli enti pubblici, i magistrati, che già percepiscono stipendi favolosi, ma che un giorno prima della pensione sono promossi per averla raddoppiata. Così pure i capitani, i colonnelli, i generali dell’esercito e così via dicendo?

Vorrei chiedere alla gente molto più equilibrata e saggia di me: “Vi pare onesto che a fronte di decine di milioni di italiani che percepiscono una paga tra i millecinquecento e i duemila euro al mese ed una pensione ancora inferiore, questi personaggi possano accettare, senza batter ciglio, paghe e pensioni dieci, venti, trenta volte superiori a quelle dei comuni mortali, senza sentirsi rimordere la coscienza per questa grande ingiustizia e sostanziale illegalità?”.

Io confesso che non sono ancora riuscito a trovare un termine adeguato per definire questa realtà. Mi sta venendo il dubbio che la nostra società preveda un tipo di “furto reale”, ma non perseguibile penalmente!

19.11.2013

Domande senza risposta

Provo una curiosità morbosa di essere informato sulla vita del nostro Paese e del mondo intero. Il telegiornale è per me come “il pane nostro quotidiano”. Debbo confessare che quasi sempre l’ascolto mi fa scattare reazioni solitarie di rabbia, indignazione, sconforto, delusione e, non di frequente, di scoraggiamento profondo.

Purtroppo anche il telegiornale, figlio naturale del giornale, ne porta i tratti caratteristici che non sono proprio né i più belli della vita né, meno ancora esaltanti. Le notizie, quando non sono grigie sono buie e lacrimose e spesso tra di esse ogni volta scopro la “perla” alla rovescia, che mi porta quasi una disperazione a livello civile.

Ieri sera ho seguito quasi con sgomento la grande dimostrazione nella cosiddetta “terra dei fuochi”, nella quale almeno cinquemila persone, sotto la pioggia battente che rendeva ancor più squallida l’atmosfera e l’ambiente, in modo un po’ folkloristico hanno dimostrato contro coloro che hanno inquinato la campagna e i pascoli con centinaia di migliaia di tonnellate di rifiuti nocivi ed invocavano giustamente dal Governo rimedi pronti e risolutivi. Chi mai a questo mondo può non condividere questa protesta contro qualcosa che avvelena la terra, le falde acquifere e soprattutto la popolazione?

Mentre sfilavano sotto i miei occhi i cartelli portati da bambini, donne e uomini di tutte le età che reclamavano il diritto di vivere, pensavo agli azionisti delle fabbriche inquinanti, ai consigli di amministrazione, ai responsabili della gestione, ai mafiosi, ai cittadini avidi di denaro che hanno lucrato vendendo i campi: tutti personaggi che per denaro, da sprecare in maniera spesso disinvolta, si sono resi colpevoli di questo delitto sociale.

Ma poi, quasi per istinto, mi sono domandato: “Ma quando si è compiuto questo attentato al Creato? In Italia non c’era un presidente della Repubblica, un capo di Governo, un ministro dell’interno, dell’agricoltura e della salute pubblica; non c’era un presidente della Regione, dei consiglieri, un prefetto, un sindaco, un vescovo, un parroco, una stazione dei carabinieri, un magistrato, dei vigili urbani, non c’erano dei cittadini partecipi alle vicende del proprio Comune? Le industrie, la mafia pure hanno commesso il delitto, ma tutti questi si sono prestati a “fare da palo” e perciò sono corresponsabili.

Perché non si trascinano tutti in tribunale, non li si accusa di disastro naturale, di omicidio? Perché la nostra magistratura, spesso così solerte per reati certamente gravi, ma non così gravi, non condannano a riparare almeno i danni, costringendoli a pagare di persona e con i loro averi il delitto commesso per ignobili motivi contro la collettività?

Finché non si condannano i veri colpevoli, che spesso si mescolano con chi protesta, certe manifestazioni diventano una messinscena pietosa piuttosto che una richiesta seria di giustizia!

18.11.2013

Decadenza ed ipocrisia

Sono tristemente convinto che Venezia stia decadendo in maniera ineluttabile sotto ogni punto di vista: economico, sociale, culturale e di costume. Non so se si riuscirà a farne un museo abbastanza dignitoso nel quale si ingessino palazzi, canali, strutture sociali, economia, arti e mestieri e offrirli quali reliquie della cultura dei tempi della Serenissima, perché “i foresti” possano visitare la nobile repubblica dei secoli passati ridotta a museo, ma per ora temo che stiamo offrendo al mondo lo spettacolo di una città in progressivo degrado a tutti i livelli.

Ho letto ieri mattina la bocciatura della presunzione del governo di Venezia di poter far dichiarare Venezia città della cultura, mentre è stata umiliata e collocata perfino dietro a Matera. Si, perché tra i mille altri difetti attuali di Venezia, c’è pure oggi la supponenza, l’arroganza e la presunzione di rappresentare ancora la Serenissima Repubblica.

Ma vengo al motivo per cui sento il bisogno di intervenire ancora una volta, cioè la scelta di cancellare dai documenti il nome di “padre” e “madre” per sostituirli con “genitore uno e genitore due”, e questo per mettere la tipica foglia di fico sopra la convivenza dei gay e delle lesbiche.

Credo che l’assessore che ha avuto questa trovata, portando avanti questa operazione pensi di dare maggiore prestigio, notorietà e pensi di presentare Venezia come la mosca cocchiera del progresso. Dico, senza mezzi termini, che reputo questa cosa un segno di ulteriore decadenza ed ipocrisia. A scanso di equivoci affermo che non ho nulla contro gli omosessuali, anzi auspico che si dia loro una copertura giuridica attenta alla loro situazione particolare; i gay e le lesbiche che io ho conosciuto sono delle degnissime persone che hanno diritto di essere rispettate e tutelate, ma non mi si dica che la loro convivenza possa essere denominata famiglia, perché questa è tutt’altra cosa! Non posseggo sufficiente competenza di ordine psicologico, pedagogico e sociale per dire se sia opportuno affidare loro dei bambini in adozione, anche se penso che con tutte le coppie normali che sono alla ricerca di adottare un bimbo o una bambina, questi siano il surrogato più simile alla paternità e maternità naturale essendo un uomo ed una donna “veri” che hanno delle doti specifiche e complementari. E certamente questi sono più idonei a crescere ed educare più positivamente di qualsiasi coppia omosessuale per quanto formata da soggetti corretti.

La trovata dell’assessore del Comune di Venezia manifesta il suo intento di essere ad ogni costo “à la page” con una certa opinione pubblica corrente e non certo un “doveroso coraggio” di andare contro corrente, accodandosi invece a chi sbraita di più.

Anche questo comportamento è per me segno di decadenza morale e civile, in netto contrasto col passato nobile ed elevato della nostra gente e della nostra città.

16.11.2013

Quando e perché?

Ho la sensazione, anzi quasi la certezza, che molti miei colleghi e forse anche il mio “governo” non capiscano e non condividano il mio impegno a favore degli anziani poveri. Le insinuazioni che furtivamente mi giungono all’orecchio sono diverse e quasi mai benevole. Qualcuno mi accusa di mania di protagonismo, “mal della pietra”, voglia di emergere ed altro ancora. Qualche altro accampa motivazioni vetero-comuniste, arcaiche, irrazionali e superate, ma ancora superstiti in qualche nostalgico del passato, affermando che a queste cose ci deve pensare lo Stato o il Comune o, comunque, l’ente pubblico, perché questi compiti non sono di pertinenza della Chiesa.

Per le prime insinuazioni neanche tento una difesa: è giusto che anch’io porti la mia croce. Ma per questi ultimi mi è sempre venuto da domandarmi: “Ma che ci sta a fare la carità cristiana e, meglio ancora, il comandamento “ama il prossimo tuo come te stesso”, se poi non si realizza un qualcosa di concreto?

Qualcuno che mi vuol bene pensa che questi giudizi malevoli siano un modo volgare per nascondere il proprio menefreghismo, il proprio desiderio di quieto vivere che viene turbato dall’impegno altrui. Qualche altro pensa che si tratti di invidia o di una reazione per giustificare il proprio disimpegno. Comunque la pensino gli uni e gli altri, è mia convinzione profonda che il comandamento dell’amore reciproco debba essere calato giù dalle nuvole e concretizzarsi in strutture o servizi, anche se questa operazione di concretizzare le scelte e gli ideali sempre si impoveriscono a motivo dei nostri limiti. Io, in questa stagione della mia vita, fra tutto il possibile e il necessario, mi sono ritagliato una piccola fetta: la residenza per gli anziani poveri, pur sapendo che il campo della carità è semplicemente immenso.

Voglio aggiungere che quando un uomo di Chiesa fa una scelta di questo genere, essa debba avere delle caratteristiche ben definite che la qualificano come autentica carità cristiana. Perciò ho eliminato fin da subito i settori che sono già abbondantemente presidiati o dall’ente pubblico o dagli enti di commercio. Ritengo invece che la Chiesa debba intervenire in presenza di queste condizioni:

  1. Quando apre una strada nuova con delle soluzioni innovative e quando, risultando questa sperimentazione collaudata e positiva, lasci pure che altri si occupino del progetto e lo portino avanti in scala più vasta.
  2. Quando l’opera è offerta alle classi più povere e quindi possono accedere a questa struttura o a questo servizio anche i soggetti meno abbienti che non potrebbero mai permettersi di fruire di realtà costose e superiori alla portata delle sue possibilità.
  3. Quando l’opera offre delle soluzioni rispondenti alle attese della povera gente, è rispettosa della persona e permette agli utenti di realizzarsi in maniera compiuta e pure rispondente agli standard del nostro tempo.

Da queste premesse credo che un prete non debba mai fare concorrenza alle strutture esistenti, non debba mai impegnarsi per le classi agiate, non debba puntare al lucro ed offrire soluzioni sgangherate, fuori tempo e non degne di essere destinate ai figli di Dio.

Questa è la mia dottrina e spero di essermi sempre attenuto ad essa nei miei impegni di ordine sociale.

16.11.2013